Un abbraccio di Stefania, un saluto mentre il treno parte

Il Vagone della vedova Begbick – di Stefania Bonanni

Non sono critiche, non è un racconto, non una storia, meno che mai poesia. Potrebbe essere un abbraccio, una mano che saluta mentre il treno parte.

Belle città, begli alberi, bei personaggi, bella la calma senza la quale non si vede nulla, emozionante il mondo di Carmela, via Guasti che ora conosciamo anche noi, Firenze di chi cammina alla base, e non alla vetta dei monumenti. Belli i colori ed i comignoli, belli gli alberi che hanno accolto morti alla deriva. Una riflessione piccola ed un po’ scontata: è lo stesso mondo, per tutti, è lo stesso meraviglioso mondo di vita e lavoro per abbellirlo, renderlo piacevole per gli esseri che ospita, renderlo scrigno per continuare a sognare, dove si incagliano i frammenti di vetro tagliente che cascano dai ricordi di Gabriella., dove una pianta di capperi tenace seguita ad essere un ‘oasi, dove n muretto ricorda il vecchio nodoso che ti chiamava morina. È il momento, questo preciso momento, nel quale i sogni diventano ricordi, e siamo a Fillide ( da Calvino Le città invisibili), o in qualunque altro mondo faccia sognare, ancora e per sempre, perché si ricomponga lo specchio di Gabriella, e non tagli più. Si vedranno per sempre i segni delle fratture, ma le mille figure sfaccettate ed ogni volta diverse che rimanda uno specchio rotto ed aggiustato sono di nuovo sogno, nuove creature in parte partorite da chi si guarda, in parte dallo specchio. E non c’è migliore accoglienza di quella che può dare un vagone fermo. Che è come dire un mare asciutto,  o toccare il cielo con un dito mentre siamo in un abisso. Un vagone che avrà molto vagato, che avrà sentito le storie di chissà quanti uomini e donne che la casa l’avevano lasciata tra gli oleandri ed il mare, e ricominciavano , o che salutavano amori lasciati in stazione, e che magari avevano scritto “ciao” sui vetri umidi, un attimo prima che il saluto sparisse, in corsa tra le goccioline che il vagone piangeva, unico testimone di un dolore. Non sapeva, il vagone, che gli amori che rimangono eterni nel cuore e brillanti come diamanti, perfetti, sono quelli che non si vivono. Che è lo stesso dolce sentimento, misto di merende con il pane, il vino e lo zucchero, e mamma Franca che ti aspettava sull’uscio, che non ci sono più, ma che scaldano per sempre, come quei gradini della chiesa, delle chiese, come le case che furono, come le cose antiche, che non devono essere rimpianto, perché noi c’eravamo, personaggi del quadro, e se ci piaceva di più di quello che ci circonda adesso, forse avremmo potuto comportarci in un altro modo, qualche volta perlomeno. Perdoniamoci, abbiamo fatto quello che abbiamo potuto.

La città di Rossella G. in Via Guasti numero 10

La città con le porte – di Rossella Gallori

…si arrivava in piazza, quasi subito, percorrendo una piccola salita, grigia ma non triste…

…si entrava dalla “ porta grande” le mura se pur datate non davano cenno di cedimento…

… il sole entrava ed usciva giocando con i colori della piazzetta, piccola per esser grande, grande quel tanto da contenere, facce, musi, santi, bestemmiatori, ubriachi, sobri in un vocìo così forte, da render mercato quel fazzoletto di paese …

…conobbi tutto li, all’ incrocio del corso buio, fu li che imparai a scrivere, così così, a non leggere comunque mai a voce alta e sempre senza punteggiatura…

…ricordo bene, la statua di San Giorgio e quel cavallo dalle cosce grasse, così polveroso da far starnutire ad ogni folata di vento…alle matite che ruzzolavano nascondendosi…

…tirava vento, da Firenze nord, un vento che sapeva di pane e sirene, di gelato e treno…

…spesso, mi perdevo, in quel paesello senza nome, annusando peonie giganti, ci affogavo  il viso muovendo lentamente le ciglia tra i petali…

Il giardino era per tutti, io ci stavo sola, seduta in disparte, presente alle voci, ai rumori pesanti di quei fantasmi maschi non grandi, che inventavano storie paurose, tra gli alberi di pesco, nani di tronco, ma stracarichi di frutta bella…

… poi ripercorrevo, la strada fatta asciugando la bocca sporca con la manica del “grembio” …

Nessuno parlava un toscano sfacciato, tutti i vivi ed i morti, facevano finta di esser qualcosa di meglio…

 Era una “ piccola citta” con il lago salato, il cinema, lo zucchero filato, la biblioteca, il banco dei pegni e quello delle frittelle, c’ era un’ alba ed un tramonto, un ombrellone, tanto gelsomino, la fermata dell’8 del 20, da un lato anche il “ tramme”  una chiesa vicina una in salita, ponti, fiumi, cigni cattivini, con gli occhi senza bianco, foglie per le strade….bambini felici, un magico negozio di fiori, dove, io, i fiori non li ho mai visti…..già ma c’era la fatina con la “lisca” …..

Io abitavo dentro le mura, a volte mi schiacciavano, spesso le saltavo a piè pari….fuggivo per tornare, se non proprio al sicuro, almeno al coperto….

Il paese lentamente si spopolava, sono venuta via prima che fosse allagato dalle mie lacrime…..

Casa mia al numero 10 ….una città che non esiste più…..la mia città, la mia vita interrotta…..

Incontro alla Carrozza 10 del 27 ottobre 2022 – “Innamorarsi e approfondire” l’obiettivo di questo anno

foto di Lucia Bettoni e Cecilia Trinci e la cotognata di Rossella Bonechi e Daniele Violi

E’ venuto il momento di crescere. Aumentiamo il grado di INNAMORAMENTO del nostro fare e cerchiamo di APPROFONDIRE i temi che ci appassionano.

Questo l’obiettivo e il sottofondo di questo annuale cammino, ieri addolcito dall’ospitalità della Carrozza 10 del Teatro Comunale di Antella e dalla cotognata di Rossella Bonechi e Daniele Violi.

Lo zig zag per Zazà di Gabriella

La Matta – di Gabriella Crisafulli

Apro il quaderno.

Cadono a terra lame di vetro.

Sono quelle che si conficcano qua e là lungo una vita da fachiro.

Cadono a terra parole.

Sono quelle che hanno costellato un lutto eterno dapprima riflesso e poi in prima persona.

Cadono a terra percorsi a zig zag tra me e me alla scoperta della Matta che serviva nei diversi giochi sul tavolo.

Facevo appena in tempo a capire le convenzioni fra giocatori, che le regole cambiavano.

Cadono a terra le giravolte sul campo per barare con agio mantenendo la faccia.

Mi sono persa nel labirinto che è dentro di me.

Cadono a terra i tentativi di trovare Zazà.

È stata una grande festa con tanta folla per la via che si inchinava a Vossignoria.

C’era la banda che suonava e il maestro sul piedistallo che faceva deliziare.

Ma adesso, dove sta Zazà?

Si è smarrita in un bailamme di cui non riusciva a trovare il capo o è morta?

Nel momento culminante di una vita “travolgente” in mezzo a tanta gente è sparita Zazà.

Come posso fare per trovarla?

Ho bisogno di lei.

Come sempre c’è un gran via vai, un andare in qua e il là, ma mi sfugge Zazà.

Son caduti a terra il mazzolino da sposa, il glicine in fiore, il muretto di Bellosguardo e gli ospedali.

Dai, forza, torna Zazà: c’è da cominciare una nuova vita.

Inferno e Paradiso nelle immagini di Carmela

A passi lenti – di Carmela De Pilla

foto di Carmela De Pilla

Il tramonto estivo era il momento più bello della giornata per Franca, le piaceva incamminarsi in quella stradina un po’ sconnessa dal tempo per raggiungere il poggio della collina di S.Giuseppe.

Quante volte i suoi scarponi l’avevano accompagnata fin lassù, un tempo a passi svelti poi sempre più incerti, ma lei continuava ad andarci per assaporare in questo camminare lento il profumo del lentisco o del mirto e confondersi tra mille pensieri che danzavano con ritmo cadenzato come quello dei suoi passi, un po’sbiaditi e confusi.

Arrivata finalmente alla chiesetta con un sospiro più profondo si appoggiava alla parete quasi a sorreggerla o a essere sorretta e come fosse la prima volta si tuffava con tutti i sensi in quel paesaggio selvaggio, anarchico, senza alcun controllo, da troppo tempo libero di lasciarsi andare dove il vento e la pioggia decidevano di portarlo.

Quella terrazza orlata da grandi massi calcarei rossi per la terra che una volta li aveva rivestiti assumevano immagini di volti o corpi aggrovigliati e tutte le volte ne scopriva di nuovi, i secolari lecci con la grande chioma la proteggevano e i frutti allegri del corbezzolo la mettevano di buon umore, fatti alcuni passi oltre lo spiazzo, laggiù in fondo il cielo si confondeva con il mare e tra i due scintille di colori si rincorrevano, si eccitavano fino a dare vita a lingue di fuoco che l’avvolgevano.

 Poi lo sguardo si perdeva più in basso dove c’era il paese, il suo paese amato e odiato, lì aveva conosciuto l’inferno e raramente anche il paradiso.

Da lassù riusciva a intravedere la sua casa che aveva perso l’antica eleganza, un po’ più in là c’era quella di Antonio che da giovane l’aveva corteggiata e poi aveva sposato Elisa perché molto più bella e più ricca, intravedeva la vecchia fontana che, non più utilizzata aveva perso la sua identità e la casa dei suoi genitori rimasta lì da sola perché tutti ne cercano una confortevole e moderna.

In ogni cosa rivedeva i suoi affetti, i suoi tormenti e le sue gioie, poi ubriaca s’incamminava per la stradina, sola, con i suoi pensieri che danzavano con ritmo cadenzato come quello dei suoi passi, un po’ sbiaditi e confusi.

Camminata a zig zag per la Firenze di Patrizia

Ricordi di Firenze – di Patrizia Fusi

La luce mattutina illumina piazza Ferrucci, mi incammino sul lungarno, guardo quello che mi circonda con attenzione, l’acqua scorre placida, alla pescaia di Santa Rosa diventa più rumorosa e vivace.

Quando arrivo alla terrazza sull’Arno, sotto di essa c’è un rientro dove è stato messa una tenda bianca, è aperta a metà, intravedo un materasso, si affaccia un uomo, si stira le braccia come a salutare il sole che invade quel rientro di cui quell’uomo ha fatto la propria abitazione, la cosa mi turba e mi commuove.

Dall’altra parte del fiume gli edifici scorrono con i miei passi, una palma indica l’esistenza di un giardino, il campanile della chiesa di Santa Croce è illuminato dal sole mattutino.

Attraverso il ponte alle Grazie, l’acqua ha ripreso a scorrere dolcemente, l’aria è fresca, odore pungente del traffico che scorre lungo la strada, odore umido che sale dal fiume della vegetazione che c’è sulla sponda, ad un tratto vedo nel mezzo dell’acqua un grosso animale marrone penso che sia un topo, un brivido di schifo percorre il corpo, ma mi rendo conto che è una nutria e la cosa mi piace di più.

Arrivo in piazza dei Giudici il sole accarezza le pietre della facciata del museo Galileo, continuo la mia camminata, giro verso piazza Della Signoria passo sotto il corridoio che collega il palazzo del comune con la galleria degli Uffizi, difronte a me la loggia dei Lanzi, in piazza piccoli rumori, tutto è un po’ addormentato, sensazione di pace, i monumenti fanno mostra della loro bellezza, la piazza è semivuota.

In via Dei Calzaioli sbircio dalle grate delle saracinesche la merce esposta nelle vetrine, i negozi sono chiusi, solo i bar sono aperti e diffondono nell’aria un dolce profumo di vainiglia e di caffè, mi fa venire voglia di fermarmi.

La facciata del Duomo è in ombra, uno spicchio del Battistero è illuminato dal sole, gli autobus gli passano accanto.

Percorro un tratto in via Martelli, il carretto che vende i libri usati a fianco della chiesa di San Giovannino dei Padri Scolopi è chiuso, difronte sul bordo di pietra serena del palazzo Medici Riccardi c’è seduto un signore anziano con barba e capelli bianchi, ha un quadro vicino a lui di un bel paesaggio, penso lo voglia vendere, non ho il coraggio di chiederglielo.

Sfioro piazza San Lorenzo con la sua bella chiesa dalla facciata austera, all’angolo di via dei Ginori mi fermo a guardare un negozio di biancheria per la casa, mi piacciono le fantasie, i cuscini colorati, la passamaneria, accanto un negozio di vestiti eleganti per signora.

All’inizio di via San Gallo si sente un buon odore di pane fresco: è il forno che è sull’angolo che lo sparge intorno, la vetrina del negozio di giocattoli e libri per bambini è sempre bello guardarla, pochi metri ancora e sono arrivata, il grande portone è aperto, l’ampio atrio mi accoglie, di fronte a me una porta aperta, di solito è sempre chiusa, stranamente stamani invece è aperta, mi colpisce un affresco che intravedo è veramente bello: è del pittore Poccetti.

Saluto il mio collega, marco il cartellino, scendo due scalini in pietra serena e mi trovo nel bellissimo chiostro di Santa Reparata, è bello un po’ maltrattato da tutti noi e anche dagli studenti.

La grande scala in pietra serena mi accoglie, inizia la mia giornata lavorativa.

Le cose grandi della piccola città di Nadia

La città  invisibile – di Nadia Peruzzi

Più che una città, un paese, un piccolo paese, anzi.

Tanto piccolo che in alcuni momenti della mia vita mi è sembrato angusto e troppo stretto.  Il visibile di oggi ha sfumato, nascosto o addirittura annullato quello di ieri.

Mette tristezza pensare che ogni cambiamento ha messo sullo sfondo o ha fatto sparire pezzi importanti per questa comunità. E non si tratta solo di edifici. Ma di vita, allegria, volti, occhi, pensieri, sentimenti e sogni.

Erano i gruppi di donne che con i loro telai si ritrovavano in primavera e estate sotto gli alberi del viale a ricamare su tela o raso i loro capolavori.  Fuori dalle case dove abitualmente lavoravano,  nascoste al mondo,  quasi a dichiarare il loro ci siamo e il ruolo importante  e doveva esser loro riconosciuto, come poi avvenne e per legge.

Era la bottega del vinaio sull’angolo di fronte al negozio del parrucchiere, dove io bambina accompagnavo mia nonna a riempire i fiaschi per casa.

Era il lattaio che veniva in fondo alle scale e tu potevi guardare negli occhi e dirgli due parole mentre lui versava il latte nel tegamino che gli porgevi.  Salire le scale  con quello in mano senza versare una goccia del suo contenuto era impresa di cui poi sentirsi fiera, come dopo una delle battaglie  campali  che leggevo nei miei libri di avventure.

Era l’elettricista più improbabile del mondo, il Nanni . Famoso per le sue battute , il suo amore per le belle donne e le sue imprese che hanno girato per anni di bocca in bocca. Quasi un’epopea .

Poi il Pini Ugo, il calzolaio che era stato condannato dal Tribunale speciale durante il fascismo e sua moglie . La Bianca.  Una coppia tutta da ridere. Si narra che una volta cercando di tagliare il pollo con coltello e forchetta quello finisse direttamente sotto il tavolo dopo un bel volo. Dati i tempi fu mangiato lo stesso, senza tema.

La panchina dove sedeva mia nonna c’è ancora. Sta lì un po’ in disparte e coperta e invasa dai tavolini del locale da aperitivi che oggi occupa la piazza.

Anche se qualcuno a volte ci si siede, non è e non può essere quella di un tempo. Altre persone, altri desideri, altri sogni. Del resto di fronte ha tutt’altra piazza.  Quella di prima  era parte della strada tanto è vero che il tram arrivava fino davanti alla chiesa.

Il cinema d’estate proprio accanto al vagone dove ci riuniamo era il nostro Cinema Paradiso, anche quando da monelli ci riunivamo in gruppo e per non pagare il biglietto ci piazzavamo dietro lo schermo anche solo per vederlo al contrario. Quante volte non ricordo , so che era bellissimo, anche per quel che di proibito che quell’operazione si portava dietro.

Il campanello dell’Enrica era un altro dei nostri raid di monelleria.  Quante volte l’abbiamo suonato, scappando subito a nasconderci,  per vederla affacciarsi alla terrazza del palazzo dove ora c’è il parrucchiere. Era una figura strana l’Enrica. Donna altissima e dal basso in alto sembrava la controfigura di Olivia di Braccio di Ferro.

L’Enrica non c’è più da tempo. E’ rimasto il terrazzino ma nessuno guarda fin lassù da quando non c’è più lei o se qualcuno lo fa lo fa con disattenzione,  così per fare.

E del cipresso grandissimo che era lì davanti vogliamo parlarne? Sparito come l’acqua del fiume che prima scorreva a vista in quel tratto trasformato ora in capolinea dell’autobus.

Ebbe il suo momento di gran notorietà nel 1936 quando una grande alluvione fece sì che alcune cappelle del cimitero si svuotassero delle bare che trasportate dalla corrente andarono a schiantarsi proprio contro quel cipresso. Qualunque cosa fosse rimasto al loro interno sparpagliato nella campagna tutto attorno e fino a Ponte a Niccheri .  Di questo fatto ricordo il racconto di mia nonna che ne fece qualcosa di magico più che di macabro e non rimase in me nessuna paura , né raccapriccio . Del resto la nonna Rina era una donna pratica, non cinica.  La sua conclusione “tanto,  più che morti!” , ancora mi risuona nelle orecchie e trovo che abbia una sua bella dose di ragionevolezza.

La mia città invisibile l’hanno popolata persone, gli edifici hanno e hanno avuto valore proprio perché erano e sono stati il prodotto e la caratteristica di una comunità che si è evoluta ed è cambiata nel corso del tempo.

Uno zig zag fra passato e presente senza le persone in carne ed ossa mi sarebbe sembrato vuoto e triste.  

La fretta nella città di Anna

CITTÀ INVISIBILE – di Anna Meli

Lilliano – foto di Cecilia Trinci

            Non esiste più la città, è svanita, si è persa nella fretta di esistere. Le vie, le case, i palazzi, i giardini, le fermate degli autobus, la gente, le voci, i rumori; tutto passa e corre via velocemente per perdersi nel vuoto.

            Il vuoto di un inferno nel quale trovare un piccolo spazio di fuoco, di calore fatto di rapporti umani, di semplicità, di calma-lentezza con le quali rendere un volto ad una città o ad un paese.     Poter camminare per quella strada fatta mille volte, riscoprire momenti dimenticati che riescono ancora a scaldarti il cuore, come quel portone sempre aperto dove ti rifugiavi sorpresa dalla pioggia; e non eri da sola. Ora è sempre chiuso sembra invisibile.

            Passeggiare in città alzando gli occhi al cielo e ritrovarsi a guardare quella finestra in Piazza SS Annunziata che rimane sempre aperta per volontà di un fantasma che lì vuol continuare ad attendere qualcuno.

            Essere affascinati dal mistero e riprendersi il proprio tempo per uscire dall’inferno della fretta che isola e distrugge le città rendendole invisibili.

I comignoli delle città di Tina

DALLE CITTA INVISIBILI – di Tina Conti

Lilliano – foto di Cecilia Trinci

Quante città ho scoperto nella mia via?

Tante e diverse, che mi hanno affascinato, incuriosito e rivelato i loro   angoli magici, nascosti, diversi.

Quando sono in un luogo, non mi stanco mai di andare in giro e incantarmi nelle cose belle che vedo,  poi ritornando nella mia bella città   penso che non la lascerei mai, me ne  innamoro  sempre più

 C’è’ sempre qualcosa che non conosco e che mi piace osservare.

 Ultimamente, sono i  comignoli dei palazzi ad attrarmi.

Ovunque vada, alzo sempre gli occhi al cielo per ammirare i tetti e i comignoli , che  moltitudine di manufatti si vedono, quanto ingegno per trovare funzionalità  in quelle forme rotonde, rettangolari.

Coperte di mattoni, intonacate, con cappucci di metallo.

C’ è  stato prima il tempo dei portoni, quanti ne ho fotografati e anche disegnati; bombati, intagliati di legno, con le borchie, dipinti con dei chiavistelli che erano esempi   di alta gioielleria.

 Quanta maestria e furbizia per trovare le soluzioni  pratiche e funzionali per la difesa della dimora.

Certo, i portoni sono lo specchio di chi ci abitava, il biglietto da visita.

Anche i materiali da costruzione son diventati il mio appassionato curiosare, i colori di una citta’ sono dati anche dalla pietra con  cui è’ stata costruita. Spesso sono pietre trovate vicino,  altre volte vengono da molto lontano. La luce che al tramonto illumina la Valletta a Malta rivela sfumature calde e ambrate con riflessi dorati dati dalla bella pietra con cui é’ costruita.  La sera, le ombre traverse scoprono   rugosità  e intagli restituendo   un aspetto intimo e romantico.

Appare cosi’   lo spirito del luogo, la sua unicità.

Da cosa è dato ? Dal silenzio, dal movimento, dal profumo, dal colore?

Spesso mi capita di “andare per naso” i luoghi  li  anticipo anche con il naso  ,in un paese di montagna durante una passeggiata dopo cena, abbiamo vagato per molto tempo in cerca di quel forno che  stordiva per il suo profumo. Le stagioni poi, danno un sapore sempre diverso ai luoghi, lasciandoci impressioni forti.

Passare vicino al bucato appena steso, vicino al portone di una chiesa, a un laboratorio di essenze, un vinaio, è entrare nell’anima di un luogo.

Scappare,  scappare, scappare, quando il bello  è troppo la gente  è troppa, gli stimoli mi sormontano mi allontano.

Tollero di vedere dall’alto tutta quella bellezza, ferma, quieta, illuminata dalla luce del sole al tramonto.

La visione placa il cuore e la mente fa accomodare in un angolo protetto    tutte   le cose ricevute.

Allora, l’inferno è lontano?   No, no, è sempre in agguato.!

Firenze a zigzag: Gavinana di Sandra

La città a zigzag – di Sandra Conticini

Non mi vedrei mai in una città diversa da Firenze anzi, diversa dal mio rione: Gavinana. I ricordi mi si affollano nella mente, i giochi fatti da bambina per la strada: campana, nascondino, le belle statuine, oppure scappare in bicicletta per andare alla casa degli spiriti, che poi è diventato un bel complesso residenziale. Com’era bello trascorrere intere estati così senza centri estivi, pochi compiti da fare,  e tanta libertà per noi bambini. Ogni volta che passo da quella strada guardo i campanelli, ma ormai le persone che ci brontolavano per la confusione non ci sono più perchè molti erano anziani altri hanno cambiato proprio zona. Passando sotto le  finestre  ricordo la signora che mi mandava a comprare le sigarette sciolte, o l’altra che, dovendo lavorare, mi faceva comprare il pane, ed ero contenta di fare queste commissioni  perchè spesso mi davano qualche caramella o, addirittura, i soldi per comprare il gelato.

Poi mi sono spostata di poco, perchè la città è cresciuta. Tante costruzioni nuove, ma io laggiù nella nuova città mi sentivo straniera, non conoscevo nessuno. Le mie amicizie erano rimaste nella città vecchia e mi sentivo emarginata, anche se andavo sempre. Poi mi sono ambientata ma il mio cuore è rimasto là.

Lo zig-zag della vita di Vanna

L’accettazione non passiva – di Vanna Bigazzi

Spesso, come pensano tante persone, riconosco che il vero inferno sia quello che stiamo provando nella nostra vita: un luogo di prova con troppi ostacoli da superare. Con l’andare degli anni impariamo a starci dentro ma non e` facile, l’adattamento e` sacrificio e dobbiamo imparare veramente a fare uno zig-zag fra le situazioni da mantenere e quelle da evitare. Dobbiamo diventare degli equilibristi, molto attenti a non fare passi falsi e trattenersi invece in quelle posizioni che ci fanno sentire piu` stabili. Un gioco con rischi, anche con pause, un gioco che richiede molta elasticita` mentale e che pian piano dobbiamo imparare ad eseguire e ad accettare. L’accettazione non passiva e` l’unica chiave che ci permette di vivere al meglio, integrando le difficolta`, le nostre parti ombra che, una volta comprese ed accolte, potranno darci consapevolezza e stabilita`.

Le parole volanti nell’eco di un incontro: Rossella G. ci segue da lontano

Parole, carta, donne lontane – di Rossella Gallori

foto di Sossio Parretta

Forse era Calvino….

Quel signore all’ apparenza ordinatissima, che mi si parò davanti,  pieno di cartellette  spiegazzate,  o forse no. Ero a pochi metri dal mio rifugio, lui ne scappava, mi squadro da capo a piedi, raccolse,  fogli sfuggitigli di mano, e fuggi senza correre.

Io

appoggiata ad una specie  di tabernacolo senza madonna, raccolsi un “unto appunto” sfuggito, forse fuggito al suo carnet di parole.

Era un buio incerto….leggere mi fu difficile

Pagina27

Il posto era caldo, quasi accogliente, nonostante l’afa insopportabile, lui, un lui alto, robusto quel tanto più di me, che era troppo, mi passa la matassa… occhi aveva solo immensi occhi che roteavano senza parlare, ogni tanto la mano destra, rassettava una massa di capelli, che, come piccoli serpenti incorniciavano una fronte spaziosa, impastata di sudore, presi  il budello informe tra le mani, pezzi di gente : annodata, persa, spezzettata in cunicoli bui, anse marine….e nodi, solo nodi, dovevo scioglierli, dare una forma regolare, ad un ordigno infernale, eppure più la guardavo, più si attorcigliava alle mie dita….dovevo fare attenzione, scegliere bene: immersi in acqua e sale bollente di sole, il malcapitato ammasso di lana umana, che sbiadì, fino a sparire…

Pag 28

Appunto ore 5e37: l’ inferno dei viventi non è qualcosa che sarà………

PS: pensai di aver incontrato un altro squinternato….fuggii, gettando la pag 27 tra i rifiuti: CARTA….soltanto carta…..

La città di Stefania in un vagone

Dieci donne in un vagone – di Stefania Bonanni

Antella, giovedì pomeriggio, interno vagone, dieci donne.

Siamo noi, oggi, la mia città. I nostri occhi sotto le lenti son finestre coperte da vetri smerigliati, e sono rotonde, ovali, cerchiate di colore. I nostri capelli sono tetti di tegole rosse, o coperti di marmo, venati e chiari. Non ci sono strade, ci congiungono piccoli ponti, che si percorrono con facilità fino a metà, poi costringono a reggersi, per non scivolare.

I nostri pensieri sono i campanili, a punta come dita accusatrici, o quadrati, con i merli, agghindati, quasi ricamati. Le nostre voci sono le campane, che a volte suonano prevedibilmente per rintoccare le ore, a volte per motivi sconosciuti: che ognuno viva le emozioni che immagina.

Le cattedrali non esistono, si santificano momenti di serenità e belle parole. I cimiteri non esistono, perché se questo è già il nostro inferno, parimenti è già anche il nostro paradiso.

Città a colori di Carla

La città – di Carla Faggi

dipinto di Luca Alinari

La città dove vivo si chiama Aurora, ci abitano tutte le persone che conosco e che mi piacciono. È tutta a piano quindi posso passeggiare ed incontrare le persone che la abitano.
È una città che cambia colore a seconda di come mi sento, ieri per esempio tutto era fiorito in arancione, la chiesetta era colorata di giallo canarino, la piazza rosa acceso e le case vicine rosso semaforo. Anche il cielo era arancio e tante erano le stelle che si vedevano anche di giorno.
Stavo bene ed ho incontrato tanti amici di un tempo, quelli dell’Istituto d’Arte, quelli della discoteca, le mie amiche del cuore, i miei ex fidanzati. Tutti belli e giovani, proprio come me.
Oggi invece Aurora, la mia città è fiorita di azzurro, la Chiesetta è verde tenue, la piazza di un lilla tendente al celeste. Le case attornodi un blu intenso, il cielo era verde salvia con tante stelle come smeraldo.
Ho passeggiato anche oggi, ero con Marco ed ho incontrato tutta la mia famiglia, sono stata molto felice. Ho trovato gli amici di ora, c’erano anche le matite,ho accarezzato Cecilia, ho chiacchierato tanto.
Aspetto di vedere domani di che colore sarà la mia città.

Incontro del 20 ottobre in compagnia di Calvino e Le città invisibili a bordo di un’intima Carrozza 10 al Teatro Comunale di Antella

Ispirati da Italo Calvino

Cartelle da riempire con appunti o scritti vari: la cartella degli oggetti, degli animali, delle persone, dei personaggi storici, le quattro stagioni, i cinque sensi, le città e i panorami della vita e le città immaginarie fuori dal tempo e dallo spazio….così nascono i libri di Calvino…..

Lo “zig-zag” delle nostre città viste con l’eco di ricordi, emozioni, persone……Perché decidiamo di vivere in città? Perché a volte preferiamo fuggire in campagna, per poi, magari, ritornare?

I ponti, le finestre, i pavimenti, i ciuffi di capperi sui muri della città immaginaria di Fillide, che ci incanta quando arriviamo lì e che poi smettiamo di osservare dopo che ci siamo abituati a viverci.

E:…. “l’Inferno dei viventi non è quello che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio.”

Il naso nello specchio di Carmela

Riflessi nascosti – di Carmela De Pilla

foto di Lucia Bettoni

Il tempo, abile giocoliere nel trasformare o cancellare le parti più belle del viso e del corpo appartenute una volta a una giovane donna dai lunghi capelli neri, occhi ridenti e sorriso riservato.

Ma lui, troppo grande, cosa ci faceva in quel viso dalla bellezza timida e un po’ antica?

Per lungo tempo maltrattato, disprezzato, deriso, contestato, nascosto inutilmente da cipria e fondotinta e ora eccolo lì, sempre lo stesso, ancora sproporzionato,appiccicato a forza.

“ Io vorrei sapere cosa ti ho fatto di male!! Ho sempre accettato tutte le tue critiche, il tuo disprezzo, il tuo eccessivo malessere quando parlavano male di me eppure hai avuto bisogno di me! Ti ho regalato essenze profumate, piaceri erotici, emozioni d’amore e tu mi hai sempre detestato.

Lo so, avresti preferito un naso più adatto al tuo bel viso, ma che ci vuoi fare? Ti è toccato questo!

Poi è arrivato  il tempo in cui mi sono sentito accettato e amato, ora sono felice, mi sento parte di te.”

Dietro di me, riflesso nello specchio lo stesso naso, quello di mio padre

La frittata nello specchio di Gabriella

La frittata nello specchio – di Gabriella Crisafulli

Cosa vedeva lì, in quello specchio, alle cinque della sera?

La donna cannone che era stata o quella a triangoli, spicchi, tondi, concavi e convessi che era diventata?

Cosa vedeva nella carta stagnola lucida poggiata davanti a lei dove si alternavano oro e argento a seconda delle oscillazioni del vento?

Alle cinque della sera la luce e le ombre disegnavano gli occhi e il naso di un volto sagomato dalla guancia.

Un occhio era rivolto verso il basso, l’altro la fissava con uno sguardo vuoto.

La bocca era serrata, stretta nel silenzio.

Non c’era più sangue: forse non c’era più cuore.

Lì, alle cinque della sera, lo specchio rifletteva e faceva riflettere su un passato ingombrante sempre presente.

Tendeva a sospingerla nell’abisso senza una parola d’amore.

Ma la carta viene voltata: ecco la sorpresa di una frittata che la padella porge fumante nel suo giallo intenso.

Nel tempo si erano rotte molte uova ma era il momento di tornare al sodo.

Era l’ora della frittata.

Maura Corazzi e l’amore che ha sparso in giro per il mondo

Parole di amore dedicate a Maura da Gabriella Crisafulli

Parole d’amore – di Gabriella Crisafulli

Capita così, all’improvviso.

Non sai perché, non sai come né quando, ma succede.

Possono essere giovani o vecchi, uomini o donne, bambini.

E all’improvviso ti innamori.

Avviene con il ragazzino del palazzo di fronte che ti lancia i messaggi sul terrazzo con la cerbottana, con la professoressa di Economia Domestica che ti insegna a fare il vestitino al bambolotto.

Si verifica con la cugina appena nata e con la figlia che ti si attacca al seno.

Ma anche con i membri di un gruppo un po’ scalcinato e bizzarro e con chi lo guida.

Tutte persone che attirano gli affetti con le parole che dicono e gli scenari immaginifici che evocano.

Così è stato con Maura Corazzi quando, immobile in un letto d’ospedale, completamente paralizzata, lei che non parlava, non si muoveva, non poteva mangiare né respirare in modo autonomo, ha scritto con gli occhi “Bianco abbraccio”.

L’abito da sposa, le lenzuola del suo letto, il soffitto della stanza, le garze sterili sono stati i tasselli di un puzzle di emozioni indelebili che condensavano amore e dolore sulla panna montata di un bel gelato.

Gli “occhi dentro” nello specchio di Rossella B.

Lo specchio di stagnola – di Rossella Bonechi

foto di Patrizia Fusi

Questo tondo improvvisato di stagnola è proprio uno specchio, che all’inizio tengo lontano per catturare quanto più posso, ma sorvolo velocemente sulla figura intera, lo specchio mi dice che ho troppo da lavorarci, e avvicinandolo mi metto occhi negli occhi. Lì per lì non mi sembrano i miei: troppe rughe intorno, le palpebre troppo calanti, poi intravedo un balenío birichino e finalmente riconosco i MIEI occhi mentre mi stanno spiegando che l’importante non è quello che hanno visto fuori di me, intorno a me, attraverso due vetri spesso appannati; l’importante, continuano i miei occhi, è quello che hanno visto dentro di me, gli sforzi le gioie le emozioni i dolori i sorrisi e i pianti. E soprattutto loro continuano a vedere il nocciolo di me, quella che sono davvero, e le sorridono complici e solidali.

Spostando lo specchio leggermente di lato, dietro le mie spalle vedo una fila di foto che immortalano istanti, persone, paesaggi. Mi confortano, mi ricordano, mi riempiono lo sguardo e l’animo.

Il tempo trascorso nello specchio di Patrizia

Specchio – di Patrizia Fusi

foto di Lucia Bettoni

Un cerchio di carta stagnola, con l’immaginazione vedo riflesso il mio viso.

Il tempo trascorso ha segnato il viso, la cosa che mi piace di più è quando sorrido mi sembra che gli occhi diventino più luminosi.

Sorridere rilassa il mio pensiero.

Sorridente mi sembra di comunicare meglio con le persone.

Alla destra dello specchio, di lato alle mie spalle, vedo il tempo trascorso, una fila di ricordi.

Oggi è un cerchio di carta stagnola in un cerchio di persone

Una giornata ottobrina, un tavolo a semicerchio, undici teste chine su un foglio a scrivere, i visi concentrati, su ogni testa vedo una nuvola di pensieri che si sciolgono in lettere, formano parole che compongono frasi da cui escono belle scritture, particolari e belle come ognuno di loro.