L’Io bendato nello specchio di Vanna

Il vero inaccessibile – di Vanna Bigazzi

Guardarsi allo specchio puo` significare cercare una conferma di noi stessi. Se non siamo certi di noi ci rassicuriamo vedendoci con l’aiuto di uno strumento. Ma anche questo non dara` un’immagine precisa, quindi il nostro vero aspetto rimarra` sempre un mistero. Similmente conoscere se stessi fino in fondo, nella nostra interiorita`, credo sia quasi impossibile, al di la` dell’ammonimento di Socrate. Forse possiamo farlo, sempre relativamente, tramite un aiuto esterno, qualcuno che ci stimoli ad indagare nel nostro profondo, ombre e luci come in un vero specchio. Per la Psicanalisi “rendere conscio l’inconscio”. A parte tutto questo, il guardarsi in una superfice non ben lucida e` stato interessante: un percepire chi siamo senza alcun aiuto. Chi siamo? Un’immagine indefinita, quasi soltanto intuita; si cerca di intravederla attraverso i chiaroscuri che riproducono quelli del nostro animo. Un volto spiegazzato, non delineato ma vivo: la paura di noi stessi o meglio la paura di non sapere come siamo e chi siamo. Se poi guardiamo attraverso questo specchio primordiale (la carta argentata), cosa c’e` alle nostre spalle, l’identita` si perde in riflessi fluttuanti che lasciano spazio alla sola immaginazione. Non il cartesiano “penso quindi sono” ma “percepisco quindi sono”: un io bendato che cerca di afferrare vanamente la sua realta`, quasi un cieco che cerca conferme attraverso i sensi ma che vive nel buio piu` profondo

L’autunno nello specchio di Sandra

SPECCHIO di Sandra Conticini

foto di Nadia Peruzzi e di Daniele Violi

Ma proprio devo guardarmi in questo specchio strano? Ci proverò, io che normalmente mi sbircio furtivamente passando davanti per non vedere quello che si riflette.

Vedo una macchia marrone con accanto un  po’ di beige tendente al rosa e in mezzo a due strisce verdi c’è forse la mia mano che si muove da destra a sinistra facendo un’ombra. Chiudo gli occhi, respiro profondamente, mi ritrovo in un bosco autunnale, sotto i miei piedi sento il rumore delle foglie dai mille colori rossi, gialli, arancioni. Alzo gli occhi vedo alberi secolari di castagni  ormai con alcuni ricci verdi attaccati a quei rami ormai nudi. Con un piede schiaccio  un riccio e fanno capolino  le castagne, così inizio la raccolta. Mentre cammino in questo bosco incantato vedo dei funghi, ma sembrano proprio porcini, li prendo poi li farò vedere a qualcuno che li conosce perché il rischio è grosso!

Mettendo lo specchio dietro vedo qualcosa di non ben definito, dai colori più sfumati, ma sempre un po’ sul marrone con qualche pennellata di verde. Potrebbe essere, un  rapace, con il becco adunco e  gli artigli, appollaiato sul castagno in attesa di trovare una preda da mangiare o forse un ramarro a prendere un po’ di sole.

Questa volta non ho guardato lo specchio di sfuggita, perché non  rispecchia i miei capelli di tutti i colori, le mie rughe, i miei occhi spesso un po’ stanchi, le macchie buttate come una manciata di sale, il fisico che non è come lo vorrei. Ed allora mi vengono in mente le parole che spesso diceva mia mamma “E’ tanto brutto invecchiare”, ma io ancora non ci pensavo.

La strega nello specchio di Rita

Lo specchio – di Rita Angeloni

Foto di Anja-#pray for ukraine# #helping hands# stop the war da Pixabay

Specchio specchio delle mie brame,  chi e’ la piu’ bella del reame?

La bellezza non esiste!

E’ bello cio’ che piace!

E’ bello cio’ che piace?

Si, perche’ quando noi ci rispecchiamo in una forma , in un insieme di colori, in una figura, vediamo noi stessi, la nostra parte interiore. 

Se avviene questo ci piace!

Perche’ quella forma, quei colori , quella  figura e’ proprio cosi’  che noi l’avremmo realizzata.

Dietro la specchio non vedo che la strega maligna, la negativita’ di me stessa che mi sollecita  pero’ ad un impegno affettivo e psicologico.

Una notizia che non posso non dare

di Cecilia Trinci

Maura Corazzi ha lasciato il suo corpo. Da tempo non le serviva più per esistere.

Ci siamo conosciute all’inizio del 2000, era mia allieva dei corsi di formazione di tiro con l’arco per disabili. Una ragazzina tormentata e vivace, attenta, strapiena di speranze. E’ stata poi mia allieva nei corsi di formazione per la trascrizione braille per non vedenti. Era meno presente perché già con due figli, un marito e un lavoro impegnativo, ma arrivava sempre quando avevo bisogno di lei e mi diceva affacciandosi trafelata “prendiamo un caffè?” e davanti a quella tazza si parlava di tutto in grande fretta. Aveva occhi scuri penetranti e intuitivi, gambe piccole e veloci, scattanti, amava il mare, la montagna, i viaggi. Amava aiutare chi era fragile, ho ancora, come portachiavi, la capanna di ebano che mi portò dall’Africa in una sua spedizione di volontariato in Burkina. Mi disse “questa è la casa per te, solida, essenziale, semplice e forte”.

Anni dopo la persi. Sapevo che aveva avuto il terzo figlio, la vidi solo una volta, camminare molto incerta abbracciata al marito Luciano. Abitava a Laterina, lontano per me.

Nel 2018 mi venne il desiderio di ritrovarla. E l’ho cercata e ritrovata immobile in un ospedale, completamente paralizzata da una complicazione anomala di una infelice anestesia per il parto. Maura non parlava, non si muoveva, non poteva né mangiare né respirare in modo autonomo.

Ritrovai i suoi occhi. Solo quelli, ma così vivi e forti che ritrovai lei intera.

Cominciammo a scrivere a distanza.

Lei scriveva con gli occhi attraverso un programma informatico e mi inviava le parole tramite whatsapp. Io le trascrivevo. Il primo suo “Un diario per esistere” scritto così, si trova oggi nell’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano.

Vi riporto solo questo piccolo pezzo:

Allora diario ti vorrei porre una domanda… esiste una differenza per l’anima da chi è disteso  e ha lo guardo fisso verso il soffitto da chi si muove agilmente  più o meno?  credo di aver centrato il giallo nel bersaglio, perché a differenza di quando versavo tante lacrime da quando stavo ore ed ore  con gli occhi chiusi per non vedere, per non scontrarmi con la realtà, ho maturato nell’anima un nuovo percorso, una rinascita dell’anima.  Basta domande del tipo: perché a me?, no cosi non posso e allontano con la forza dell’anima le duemila domande che vorrei fare.

E’ iniziata così un’altra fase della nostra vita insieme, in cui ho raccolto le sue parole scritte e mai più ascoltate dalla sua voce fisica. Possiedo un lungo diario delle sue giornate: speranze, illusioni, vibrazioni e coraggio infinito. Amore per i suoi, per tutti quelli che andavano da lei, per chi ha seguito il suo cammino difficile. Quando andavo da lei mi scriveva con gli occhi su quel video piazzato sul letto: vorrei prendere un caffè con te.

Ha fondato un’associazione (Con Maura per i diritti dei malati), ha guidato progetti, mercatini nelle piazze, condotto la pubblicazione di un libro che racconta la sua storia (“Con gli occhi di Maura”), ha guidato le varie presentazioni, ha seguito la crescita dei figli, i progetti e le speranze, ha consolato, consigliato e sostenuto gli altri. Tutto in una immobilità assoluta e completa. Tutto nel silenzio della sua parola che comunque si manifestava scritta.

L’ho amata. Tanto. Ha scritto con le Matite e le ha conosciute a distanza, ha lottato per vivere fino all’ultima cellula del suo corpo. E’ rimasta sola nei giorni del Covid nel silenzio di una camera bianca.

Ieri il suo filo si è spezzato, ma se esistono i santi lei sarà in prima fila. Qualcuno glielo deve.

Ciao Maura, alla prossima vita…….e mi raccomando non dimenticarci.

La bocca nello specchio di Stefania

Stagnola – di Stefania Bonanni

foto di Patrizia Fusi

In uno specchio che non riflette, provo a pensarmi intensamente. Uno schermo pieno di rughe mi fa ntravedere di me uno spicchio rosa, nell’argento, una piccola luna che si apre come un fiore su denti bianchi. Mai mi guardo la bocca nello specchio, e che ora sia l”unica cosa che vedo di me, mi fa pensare a quanto non mi conosca. Anche la bocca, non la guardo perché non la penso granché importante, come il naso, le orecchie, e anche altro, magari. Con la bocca mangio, ma non mi sembra interessante. Parlo, ma sono consapevole di dire sciocchezze, del resto tempo  fa avevo deciso di smettere di parlare, ma questa è un’altra storia. La bocca mi serve per baciare Paolino ed i miei bambini, e me li mangerei. E mi serve per ridere, perché ho voglia di essere stupida e ridere di nulla.

Quando ho spostato lo specchio per guardare dietro ho visto che pezzi rosa di me, frantumati, resistono all’argento dei sassi che sembrano diventati uniformi, liquidi, acqua.

Lo specchio mi continua a parlare. lo specchio di stagnola con le rughe. Penso ad uno specchio d’acqua calma, mossa in superficie da un vento gentile che la accarezza e la fa ridere, e vorrei vedermi riflessa li’ dentro. Perché gli specchi sono un’ipocrisia, inquadrano solo il pezzetto che vogliamo vedere. Lo specchio che uso per truccarmi gli occhi, e da sempre mi inquadra solo gli occhi, mi rimanda una versione di loro più brillante e profonda, o perlomeno questo dovrebbe essere lo scopo del trucco. Tutto il resto, di me, non lo guardo. Non lo guardo oggi per non vedermi storta, zoppa, disarmonica, sbilenca. Non lo guardavo un tempo perché c’erano tanti occhi che non mi si spiccavano di dosso, che non c’era bisogno mi guardassi anch’io. Mi vedevo negli occhi di chi mi guardava camminare, e sapevo di essere diritta ed imbarazzata, ma anche un bel vedere. Perlopiù ero convinta fossero sguardi esagerati, un po’ maniaci.

Quando andai a lavorare in un posto dov’erano tutti uomini, ero condizionata anche nel vestire. Stavo sempre attenta a non mettere abiti stretti, o corti, o trasparenti, e questa cosa mi intristiva. Ero sempre sotto la lente, guardata, giudicata. Difficile parlassero di come ero brava con le buste paga, eppure ero brava davvero.

Poi, ad un certo punto della vita, ovviamente la situazione è cambiata, gli sguardi su di me si sono allentati, e sinceramente mi sono sentita libera. Nonostante tutto, è capitato ancora chi ha confessato d non riuscire a togliermi gli occhi di dosso. Ed io ancora ed ancora a chiedermi perché, se sono io che provoco situazioni che non mi interessano, e mi giudico e mi processo.

Un importante ruolo di specchio bugiardo ce l’ha anche Paolo. Che ovviamente mi guarda con occhi d’amore, e da tutta la vita non ha cambiato il modo in cui mi guarda. Lo specchio, come tutti gli specchi, ha però due facce: una che mi fa bene, e non mi importa se è bugiarda, ed una che mi dice che posso stare tranquilla: ancora la paralisi si vede poco . E quando si vedrà di più, e poi di più e di più ancora?

Lo specchio giudica. E non è imparziale.

Inquadra solo il pezzetto che vogliamo vedere. Io nella stagnola ho visto solo rosa ed era la mia bocca, che non guardo mai. Tutto il resto di me era a pezzetti strapazzato, sfilacciato, dalle rughe della stagnola.

Ma c’è, il resto? C’è quello che non si vede di me? C’è ancora qualcosa di quello che c’era quando non esistevano i ricordi, o quello che si vede è quello che mi è successo ricordando?

Quando non esistevano i ricordi c’era gente che mi guardava, che mi accompagnava, mi aspettava, mi veniva a prendere, che mi chiamava Ania, che mi accarezzava, che mi teneva le mani sulla fronte perché guarissi. Io allora mi sentivo libera e forte, con le mie parti multiple ben incastrate nel puzzle giusto, e le mie stravaganze, le mie contraddizioni, le mie intemperanze, le mie passioni, i miei slanci, in equilibrio.

La sofferenza è stato imparare che fosse tutto dolcissimo e brillante, anche nel tempo, ma di fragile equilibrio.

La dottoressa dentro lo specchio di Rossella G.

Lo specchio farlocco – di Rossella Gallori

Può esser confuso il suo specchio stasera, non importa sia nitido….la dottoressa era piccola, all’ apparenza fragile, quasi delicata, il camice slacciato, nascondeva delicate forme femminili, i suoi occhi mal celavano una stronzaggine …..innata….

Confuso riflesso di me, di una un po’ poco, resto immobile, non mi vedo, non mi sento, ha tutte le rughe del mio stato d’ animo, questo mio viso vecchio o quasi, sottili righe turchesi, trattengono le ultime lacrime rimaste, gli occhi si son rimpiccioliti, no è la pupilla che sta affogando nel bianco…galleggerà fino a scomparire, chissà forse mi ritroverò con gli occhi sulla nuca, ho sempre desiderato essere originale, diversa, una a cui nessuno chiedeva: perchè?  Ora? Dopo?

Senza rendermene conto, con questo specchiofalso, ho sorriso, immaginato, l ho puntato dritto verso di me….come un  cecchino mal addestrato mi ha sparato, senza colpirmi, non era la prima volta  che qualcosa o qualcuno cercava di farmi un buco nello stomaco….ho schivato la pallottola, ora è lì da un lato…..lo ignoro, resto io dentro, fuori chi c……o se ne frega!

Piccolo, tenero, come un bacio tra vecchi innamorati, mi guarda il tondogiudice di me….è caduto dal mio letto il mio specchiofalso,  sono stanca lo osservo, sembra un piccolo lago di montagna, nato per incanto su un pavimento di marmo…da lucidare..

Guardi ora! Intima la dottoessa….ha tolto il camice, è ancora più piccola, quasi dolce, meno estranea, una un po’ tanto umana….tacchi bassi, gambe abbronzate, trucco dark  x   mascherare quel po’ di insicurezza…

Cambia la prospettiva e tutto si trasforma…

Vedo il mio trono, io seduta in modo poco elegante, del mio viso pochi tratti se non misere penne di capelli verdi o quasi…

Sono circondata, protetta, scaldata, da mille facce conosciute, scolorite dagli anni, mai dimenticate…il barbone, la matta, il ladro, lo spacciatore, l’ amante, il sacerdote, la suora, il nero, il giallo, il barista, la prostituta, la farmacista…specchi di me che amo, incondizionatamente, chi attraversa anche solo per un attimo la mia strada, la mia vita…

Nell’ angolo più luminoso dello specchio farlocco, una rosa rossa mi porge il suo profumo…. so chi è…..

Dorme la dottoressa, piedi scalzi, il viso nascosto da capelli scomposti, nel pugno  destro una piccola palla di vecchia stagnola

Il cappello nello specchio di Carla

Oggi sono così – di Carla Faggi

Ho un grande cappello con le falde grandi.

Nonostante tutto mi sta bene.

Ho uno sguardo accigliato, la bocca un po’ imbronciata.

Nonostante tutto non mi sta proprio bene.

Sono coperta da un grande mantello.

Nonostante tutto non ho ancora deciso se mi sta bene o se non mi sta bene affatto.

Trovo piccole striature di giallo tenue nel candore dell’argento.

Mi sta molto bene.

Nel grande cappello ci vedo la consapevolezza di donna adulta che pur piacendosi deve però soddisfare il suo bisogno di piacere anche agli altri mostrandosi.

Mi sentivo così a quarant’anni.

Il volto imbronciato lo sento come specchio della mia eccessiva intolleranza di questi giorni, sono attaccabrighe, irritabile, poco amabile.

Mi copro però con un grande mantello come a nascondere il misfatto ed il mantello sono i sorrisi, l’ascolto, la presenza. Serve a perdonarmi un po’. Forse.

Nonostante tutto io sono così, giallo tenuo nel candore dell’argento e mi sta parecchio bene.

Nello specchietto retrovisore ci vedo tante persone una vicina all’altra in una piazza superaffollata con bandiere e striscioni.

La ruga cattivissima di Nadia che si affaccia nello specchio

Lo specchio – di Nadia Peruzzi

foto-ritratto di Patrizia Fusi

La vedo anche attraverso uno specchio che non riflette la mia immagine. Se la riflettesse davvero sarei un quadro di Picasso con un occhio di qua ed uno di là. Non è quello che mi darebbe noia. E’ quella stramaledettissima ruga proprio in mezzo alla fronte poco sopra il naso. Sembra un solco malfatto di un aratro malevolo. Si dice siano i pensieri . Siano pure. La spianerei volentieri con ogni mezzo possibile. Ma quelli esistenti passano tutti dalla chirurgia estetica e io il ritocchino a base di botulino anche no. Intanto perchè dovrebbe essere un ritoccone e se poi non mi piacessi tutta piallata e liscia??

Meglio lasciar perdere.

Quindi la tengo, la vedo, non mi piace. Mi dà quell’aria severa che detesto non meno della ruga . Anche perché chi non mi conosce si ferma alla severità della ruga e non va oltre, fino a quella parte di me che sa ridere e spesso e volentieri trova pure il verso di ridere per niente. Troppo bello quando mi succede.

Nel caso della ruga malefica allora ci si adatta a  procedere per inganni. Invecchiando mi nascondo sempre più spesso sotto la massa dei capelli ricci che detestavo da bambina e ho cercato, con ogni mezzo e ogni tipo di contropermanente, di domare da ragazza mentre adesso mi piace proprio tanto.

Quando si allungano un po’ fanno da copertura. Anzi da copertina. Come quella di Linus, solo un po’ più voluminosa. Sono una settantenne cespugliosa, che ha fatto ormai da tempo pace con sé stessa e con i suoi ricci ribelli.

Lo specchio questo rimanda di me. L’aria severa un po’ si stempera.

Non sempre però. Torna a riaffacciarsi quando nel guardare lo specchio vedo che a guardarmi è mia madre e non io. 

Nello specchio “delirio” di Nadia con l’aiuto di De Gregori

Il ciclista – di Nadia Peruzzi

Lo vide sbucare dall’angolo che portava verso lo stradone sterrato. Un ciclista con una tuta fosforescente che correva come non aveva mai visto correre nessuno.

Non fece in tempo a vederlo bene, ma da quel poco che aveva visto gli sembrò la copia esatta del grande campione Girardengo. Non lo aveva mai visto direttamente, aveva visto le foto e delle sue imprese suo padre le aveva raccontato più e più volte.

Le piaceva quando suo padre le raccontava storie. Le piaceva guardare insieme a lui le corse in bicicletta e per un lungo periodo non se ne era persa una delle grandi corse a tappe che avevano fatto la storia del ciclismo. Per non parlare dei grandi campioni di cui in qualche caso ricordava vagamente l’aspetto, di più i nomi: Anquétil e Girardengo erano fra questi.

Era piccola e del primo forse l’aveva affascinata quel cognome francese, dell’altro l’incanto del mito che traspariva dagli occhi di suo padre quando ne parlava.

Il ciclista sfrecciò davanti a lei in un attimo. Troppo veloce per avere qualcuno alle sue calcagna, pensò, anche se non capiva il perché di tutta quella fretta.

Fu un attimo. Vide arrivare dietro a lui un gruppo numeroso di persone che correvano a perdifiato per non perderlo di vista. Sante, il suo vicino di casa ,era l’unico che lo seguiva in bicicletta. Ma era ancora dietro alla curva e l’altro era ormai un puntino lontano e irraggiungibile anche per lui. Sante decise di rinunciare. Si fermò poco dopo la curva tirò fuori la pistola e decise che meglio che fare il ciclista, visti i risultati, era mettersi a fare il bandito. Lasciò la bici a terra e rivolse la sua attenzione alla banca che non era troppo lontana.

Quattro cani per strada rischiarono di essere travolti. Impauriti si fermarono appoggiati ad un muro e si misero ad annusare la vita, tanto per fare qualcosa.

Il signor Good/Spinadipesce era fra i più strani di quella strana combriccola. Correva più degli altri con qualcosa in mano. Sembra fosse un canestro di parole e nessuno si chiese mai perché le portasse lì dentro invece di liberarle in qualche modo.

Una signora con la pelliccia e molto rimmel sulle ciglia correva come una matta su dei tacchi da paura. Reggeva in mano 4 assi di un colore solo e cercava, così diceva correndo, lo zingaro che le aveva fatto le carte. Era rimasto a mezzo e non aveva capito se il suo destino era segnato oppure no.

Correvano tutti in mezzo a campi di granturco maturo per evitare il poverone dello stradone .Era bello vederli splendenti nel sole che giocava a  rimpiattino dietro nuvole di panna montata.

Un fiorellino dal bel colore pervinca sonnecchiava fra fiocchi di zucchero filato e foglie di tè.

Lo raccolse un pianista di piano bar che arrancava fra quelli dell’ultimo gruppo. Un bel ragazzo, di poca malinconia e di poche lacrime ma di molto sentimento lo stesso. Aveva visto uno strano tipo di bambina, con le gambette storte e i calzettoni con i volants e uno splendido vestito bianco fatto a nido di vespa ,che stava sul ciglio della strada ed era in cerca di qualcuno che le tenesse un po’ di compagnia. Le regalò il fiore e la prese per mano e lei gli regalò un sorriso.

Il ciclista pedalava a più non posso. Dal piccolo specchio che aveva montato sul manubrio vedeva in lontananza questo strano corteo che galoppava dietro a lui. Riusciva ancora a distinguere chi correva per rabbia e chi per amore.

Non capiva il perché di tutta questa baraonda .Vero che qualche volta lo scambiavano per Girardengo ma era un attimo .Capivano subito che non era lui. Che non poteva essere lui.

Quella mattina chissà cosa era successo e da dove erano usciti fuori tutti quei tipi strani.

Sopratutto quella Donna Cannone che arrancava sulle sue gambe a misura di prosciutto, con quel vestito azzurro tenda che le stava pure male.

Lei si era un vero spettacolo. Una delle donne di Botero, pensò. Era bella tutto sommato. Attraverso lo specchio la vide diventare d’oro e d’argento, prima che un soffio di vento sollevando un gran polverone se la portasse via con sé, nel cielo, sempre più in alto. Là dove avrebbe voluto perdersi fino da bambina, per volteggiare fra nuvole e stelle

Una donna bambina nello specchio di Lucia

Lo specchio – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Una donna bambina o una bambina donna?
Capelli lisci di mamma
Occhi infinitamente tristi che ogni tanto brillano come la luna
Il naso di mio padre severo e arcigno si apre in una risata sulle mie labbra una volta belle davvero
Vedo la bambina e l’adolescente di ieri sempre alla ricerca di incontri, di abbracci, di mani tese alla vita
Non puoi tirarmi nell’abisso mamma 
Ho una voglia pazza di nuovo, di conoscenza e di sorrisi
Una voglia pazza di allargare le braccia e trovare l’accoglienza e accogliere un corpo caldo, uno sguardo d’amore, una parola per me
La forza dell’incontro che aiuta la mia forza a crescere e sbocciare, a uscire fuori come la testa di una tartaruga
E poi c’è il mio corpo con le gambe ben piantate e tozze dei contadini, gambe che vivono a contatto con la terra, che hanno bisogno di terra per spingersi e sollevarsi
E una vita sottile sottile da libellula per volare ad annusare i fiori vicino all’acqua e quelli vicino al cielo
Mi fermo sulle mani
Ho mai guardato le mie mani?
Nelle mani c’è scritta tutta la mia storia!


Nello specchio, rivolto di lato, alle spalle vedo
Un volto
Il volto del passato
Il volto dolce e spaventoso
di chi mi ha preceduta

Incontro del 13 ottobre 2022 alla Carrozza 10 del Teatro Comunale di Antella: lo specchio di stagnola

foto di Lucia Bettoni e Cecilia Trinci

Ognuno riceve un pezzo di stagnola da accartocciare sui bordi in modo da formare un tondo per specchiarsi dentro.

Volutamente uno specchio “infedele” per osservare da vicino, in profonda concentrazione, qualcosa che appare dentro e che ci chiama o ci attrae.

Lo stesso specchio velato va poi spostato di lato, per guardare alle spalle, dietro di noi, quello che ci accompagna: oggetti, persone o sensazioni……

**

Riflettiamo su: “Si ha per lo più la convinzione di raccontare cose che ci sono accadute, e di farlo in base a come siamo fatti Ma la moltitudine di scelte istintive che facciamo per narrare viene più probabilmente da quel che non siamo ancora e da cose che ancora non sono successe. (….) Chi racconta, diventa. Non si limita a organizzare il passato, ma suscita il futuro.

Mentre apparentemente rilegge pagine già scritte tempo prima, con la parte più animale e istintiva del suo narrare sta scrivendo le pagine bianche che si era lasciato indietro. In questo modo, narrando, completa un lungo andare, e giunge a compimento.” (A. Baricco)

Uno sguardo sul mare

Baratti – di Luciano Giannelli

Baratti così bello da non aver bisogno di essere descritto, coi pini enormi, i lecci e le suvere, il sondro, (lentisco) dalle piccole bacche in grappoli rossissimi, i rovi con le more che sanno un po’ di sale, le tamerici gocciolanti, la sabbia nera a tratti, anche fossile, le tombe nelle falesie ocra o arancio.

Baratti che ti contiene, coi suoi due villosi mostri marini dormienti che ti trattengono, ti assediano, ed al tempo stesso ti accompagnano verso l’ignoto, che ti indicano silenti, alla linea d’orizzonte appena interrotta – quando si vede – dal profilo della Capraia, l’ampio mare. Al tempo stesso ti tengono e ti spingono, proprio nella linea di

Sempre caro mi fu quest’ermo colle

E questa siepe che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude

che il nostro professore di liceo diceva che fosse improbabile che il Leopardi conoscesse Hegel, ma che la dialettica era nell’aria, fino a quel fantasma che si aggirò per l’Europa.

Idilliaco Baratti, anche se quando chiudi gli occhi senti il clangore del lavoro degli schiavi, le cui povere tombe, inframmezzate a quelle di un apparente ceto medio, ritrovi nei boschi, misere buche simili a tane di grossi animali, più rispettate – va detto – delle sepolture dei signori, coperte brutalmente dall’industria siderurgica, fino a dover fare un cimitero nuovo, remoto, difficile dire se meno faticoso a raggiungersi, comunque new look.

L’idillio non nasconde fino in fondo quello che c’è di qua e di là dai mostri immoti, delle basse colline verso dove fu il lago, nelle plaghe che intravedi da Pupluna, dalla montagna dell’Amiata fino alla Corsica: insomma, sfruttamento, guerra, schiavismo, degrado. Col ritorno, dopo cento anni, di chi doveva essere sparito. Con accanto una città rossa con un sindaco nero che neanche lui comunque riesce a fermare lo stupro continuato, dilatato, di Piombino. Ora rigassificatore. Esigenza nazionale, patriottico…

Col vento di terra giungono nel golfo questi sapori, odori, fetori.

Allora il buen retiro di Baratti finisce per risultare stretto all’Olimpo turreno. Troppi cicli si son conclusi, nuove deità tremende, feroci, incombono, in testa a tutti Mammone, una nuova barbarie dilaga come il nulla. Tanto che infine Tinia in persona disse agli esausti dei:

«Or riposate nella roggia pietra

E vi cullate con l’onda di mare

Sdraiati accanto alla macchia fitta

Ch’è l’ampio pube di Uni vejente».

Cadde sul petto l’augusta fronte

Assiso in trono sull’ampio mare.

Flebile da meridione rispose un canto sardo:

Nd’ est falada sa turre

Nd’ est falada sa domo

Su balente ch’est mortu

Su zigante ch’est mortu.

Postu a manos in rughe

In sa losa de fresu.

Nd’ est falada sa turre

Nd’ est falada sa domo

Ruja mela granada

T’hana dadu su coru

a sus canes famidus

(trad.: È caduta la torre/ è caduta la casa/ il valente è morto / il gigante è morto / messo con le mani in croce / nella bara di orbace; È caduta la torre/ è caduta la casa/ rossa melagrana / hanno dato il tuo cuore/ ai cani affamati – testo in sardo

da: https://www.lyricsmania.com/melagranada_ruja_lyrics_marisa_sannia.html)

Baratti, 12 ottobre 2022 – 350° anniversario dello sbarco di Colombo alle Bahamas.

Si ringraziano nell’ordine

Anonimi fiorentini

Giacomo Leopardi

Marisa Sannia e Francesco Masala

Vito Pallavicini; Paolo Conte e Michele Virano; Enzo Jannacci

La Matita e il Cielo

nonché Rosangela Lai per la preziosa consulenza.

Le cartine di Gabriella

Gong – di Gabriella Crisafulli

Era una vita che desiderava trovarsi là. Adesso l’emozione che provava le faceva tremare le gambe.

La sua stanza era accogliente, luminosa, con un ampio scrittoio ed un balconcino dal quale poteva affacciarsi. Il cielo, il sole, la luna, le nuvole, il vento, sarebbero stati tutti suoi e se li sarebbe goduti in ogni minuto del giorno e della notte.

Si sarebbe sbizzarrita a scrivere, riscrivere, cancellare, provare e riprovare in un tempo tutto dedicato alle sue fantasie.

Si sentiva come una bambina, quella nascosta dal tempo, dalle avventure della vita, quella bambina che non trapelava davvero dal suo aspetto rigido e severo.

Nella stanza un quadro dipinto nelle gradazioni dall’arancione al rosso si riproduceva nello specchio che rifletteva il mare. Se ne stava lì carico di energia fra le onde spumeggianti del blu che lo cullavano.

Mentre guardava lo specchio un delfino in gara con i compagni del baccello saltò da un bordo ad un altro del quadro mescolando la realtà con l’immagine.

Le sembrò che gli spruzzi arrivassero fino a lei.

Era felice di essere lì.

Si voltò e cominciò a disfare la valigia che aveva appoggiata sul letto.

C’era di tutto.

Tirò fuori il porta occhiali a forma di bulldozer che le avevano regalato anni addietro con intento malizioso e indossò le lenti.

Ecco, aveva portato anche la scacchiera: sembrava un quadro d’arte moderna.

Durante quel viaggio doveva assolutamente studiare le mosse da compiere per realizzare il meglio per sé e la sua famiglia. Brancolava nel buio. Non aveva assolutamente idea di cosa fare né come e si domandava anche se fosse il caso di fare qualcosa o meno.

Si sentiva decerebrata.

Provò a non scoraggiarsi pensando che le notti a venire le avrebbero portato consiglio.

Era stata come la torre, la sua pedina preferita, ma adesso doveva imparare a fare il cavallo fra tutte quelle caselle inclinate, imprevedibili, che le si paravano davanti.

In quel momento le creavano una grande confusione e si sarebbe messa ad urlare: ma non se lo poteva permettere.

Sorrise di sé, della sua confusione, del suo smarrimento, del suo abbattersi tra una difficoltà e l’altra e finalmente cominciò a tirare fuori gli indumenti: si era attrezzata con un abbigliamento pieno di colori.

Mentre fantasticava sugli abbinamenti possibili a seconda delle situazioni, venne fuori da una tasca laterale della valigia una giovane donna e si materializzò magra e luminosa, coperta da un velo trasparente. Si mosse lungo la scia del vento leggero che entrava dalla finestra e si affacciò alla balaustra del balconcino.

La guardava da dietro e si domandava chi fosse, che ci faceva lì, cosa voleva da lei.

Non aveva ancora assorbito la sorpresa quando dal fondo del bagaglio si materializzò una seconda donna esile, fragile, rivestita dai lunghi capelli. Muovendosi a tentoni lungo le pareti della stanza raggiunse il balconcino affiancandosi all’altra sulla cui spalla appoggiò la mano con gesto protettivo. Le due se ne stavano lì silenziose, incluse in un cerchio magico che le univa da cui lei era esclusa.

Comunicavano senza una parola mentre il vento le avvolgeva in un abbraccio.

Le scrutava e si poneva molte domande ma non fece in tempo a proferire parola perché così come erano venute sparirono nel nulla dissolvendosi nelle nuvole.

Restò lì in mezzo alla stanza sbalordita dall’accaduto, priva della capacità di una qualunque reazione.

Venne presa dal vortice del tempo che divenne fluido e indeterminato. Che giorno era? Il 16 o il 19? Mercoledì 19? No, il 19 era domenica. Ma allora che giorno era? Si costrinse a trattenere la mente che andava avanti e indietro dilatandosi mentre i giorni si allungavano e accorciavano tra le due date e i mercoledì e la domenica.

Perse il capo. Lo vide sollevarsi in aria come un palloncino gonfio di elio.

La riscosse il suono del gong: era il modo con il quale veniva comunicato il momento del pranzo ai passeggeri.

Recuperò la testa tirando a sé il filo del palloncino.

Era di nuovo nei suoi panni e si ricompose.

Indossò il vestito verde macchiato da pennellate di rosa e le scarpe in tinta, spazzolò i capelli e si diresse verso la sala da pranzo.

Al tavolo che le era stato assegnato c’erano già la signora Zoppas e il signor Fly: erano stati bene insieme la sera prima. Avevano chiacchierato a lungo facendo le ore piccole.

Le cartine di Carmela

La signora Zoppas – di Carmela De Pilla

C’era ancora la vecchia cucina a legna nella stanza, vecchia per modo di dire perchè in tutti quegli anni era stata curata e lucidata a ricordare quello che fu il suo ruolo di un tempo.

Una  Zoppas bianca con le maniglie cromate e con il nome stampato in bella vista, armoniosa ed elegante tanto da fare invidia alla credenza e al tavolo di formica lucida marrone e verde, ultimo modello di quei primi anni 70.

Si sentiva una regina la signora Zoppas e sfoggiava con civetteria la sua bellezza, gongolandosi in attesa di qualche complimento.

La mamma aveva fatto grandi rinunce per arredare la stanza secondo l’ultima moda del tempo, gelosa delle sue piccole gemme aveva dato un tocco speciale  al tutto.

La  signora aveva sostituito con grande rispetto il vecchio braciere di rame che aveva riscaldato per tanto tempo la casa, ora c’era lei, sofisticata e un po’ vanesia che aveva portato calore nella stanza e nel cuore di tutti dove si intrecciavano innumerevoli colori che sapevano di gioie e dolori, conquiste e fallimenti.

La cartina di Mimma

Un sogno piccolo… piccolo….così – di Mimma Caravaggi

Un giardino pieno di fiori diversi  che abbraccia mente e occhi e arriva al cuore dandoti la sensazione di  star bene con il mondo. Non toppo perfetto ma con tracciati ben definiti che si intersecano tra di loro, quasi un labirinto dove il mio Napo si divertirebbe un mondo a rincorrere lucertole, farfalle ed altri piccoli insetti mentre io, su una comoda poltrona, mi guarderei intorno beandomi di tutto ciò che immagino di vedere ad occhi spalancati mentre mi curo le unghie laccandole con un bel rosso .

Accanto a me un  laghetto  con  pesci rossi e qualche ranocchietta gracidante. Il  mormorio dell’acqua accompagna il mio bel sogno dove appare un bel marito accanto pieno di premure che condivide con me gioie e dolori. Insieme si può affrontare tutto il meglio ed il peggio. Mi porge un fiore e mi guarda con occhi pieni d’amore e…poof… il sogno scompare facendomi rientrare nella realtà.

Le cartine di Tina

LE CARTE RACCONTANO – di Tina Conti

Ci andrò sicuramente, niente me  lo impedira’, ho studiato questo nuovo trucco che mi e’ costato un sacco di tempo e pazienza.

Queste scarpe mi fanno un male terribile, ma sono del colore della linea dell’ombretto e hanno un tacco che mi sfila e me le lascio.

Devo far colpo, lo guarderò intensamente dal mio posto in prima fila, non vi dico che macchinazione ho dovuto fare per averlo, addetta stampa di FAMIGLIA CRISTIANA, mi hanno creduto anche con quello straccio di documento che ho mostrato.

Il montaggio su una vecchia carta universitaria è venuto bene.

Quella musica non la capisco, ma quel secondo violino  mi intriga.

Qell’uomo mi sconvolge, mi elettrizza, provo emozioni impensate.

Quei capelli di un argento sfumato, con lampi e striature scure, il corpo asciutto e scattante, si muove con il ritmo delle note.

Quando scuote la testa per scacciare le  ciocche che coprono gli occhi, sento un fremito, un grande calore salire di piedi fino al collo.

Ho fatto una visita dalla mia consulente maga, mi fido di lei, i suoi consigli si sono sempre rivelati adeguati, come salati sono sempre i compensi

ho fatto spruzzare nel camerino sulla sua sedia, l’essenza che lo imbambolerà’, quanto mi è costato corrompere il custode, cosa avrà mai infranto nei suoi doveri per spruzzare un po’ di elisir.

Questa volta non posso fallire.

La serata di luna piena, il vento caldo ed il mio corpo vibrante, tutto promette bene. Andrò davanti all’uscita degli artisti, avanzerò con passo suadente, il mio mantello cadrà ai suoi piedi e quei colori lo incanteranno,

mi vedrà.

Lo quadrerò intensamente languidamente, rimarrà colpito.

Mentre fantasticavo e sbirciavo il portone del teatro, un grande macchina

nera con l’autista in livrea rossa si precipitò ad aprire la portiera.

Fra gli svolazzi del corto abito uscì fuori una morona prosperosa, e appariscente con tacchi vertiginosi e scollo profondo dal quale i seni saltellavano liberi. I fianchi fasciati da corti pantaloncini sui quali frusciava

una specie di abito da can can.

Era proprio il mio uomo che incontrava, si baciarono con passione e sparirono dentro la vettura nera.

Le cartine di Vanna

Lo specchio – di Vanna Bigazzi

Percorrendo il sentiero nel folto bosco verde e fresco, intravidi un laghetto: uno specchio d’acqua limpida e brillante. Vi giunsi potendolo osservare nella sua interezza e, non lontano, intravidi il corpo bello e seminudo di una giovane donna dal lungo collo e i capelli raccolti. Voltava le spalle al lago, coperta sui fianchi da un leggero lino. Era intenta a guardarsi in uno specchio, in simpatia col riflesso del lago, sembrava pensasse: “Voglio vedere me stessa attraverso questo strumento piuttosto che rimandare al lago le mie sembianze, comunque non potro` mai avere un’immagine reale di me, vedermi dall’esterno”. Ma in fondo al suo cuore avrebbe desiderato vedere se stessa e non la sua copia. Il dilemma la inquietava. Nella sua ingenuita` non capiva quanto, nella vita, l’inganno, l’apparenza, oltre la vanita`, avessero a che fare con la verita`, l’eternita`, la realta`, poiche` legati dal tema del “doppio” del “rovescio”, contraddizioni appartenenti alla psiche di ogni uomo.

Le cartine di Rossella B.

Caccia al pinolo – di Rossella Bonechi

Il rumore delle onde mi culla ipnoticamente mentre il materasso di aghi di pino mi accoglie rilassandomi. Apro gli occhi e intravedo l’azzurro attraverso le fronde. Se sposto lo sguardo riesco a scorgere le bianche cime dei monti, il cui marmo mi rimanda il riflesso del sole. Alla fine penso solo ai colori (1° carta): l’azzurro, il bianco, il verde, il marrone e mi ci immergo riuscendo per un attimo a fermare i pensieri, cosa rara e difficilissima per me. E così anche un altro senso riesce a farsi strada: respirando a fondo percepisco il profumo di piccoli fiori colorati (2° carta) che forse mi sono vicini, o sopra la testa o a portata di mano. Odori lievi, che vanno e vengono col vento.                                                                                Ma qualcosa disturba, si insinua nell’incanto: un profumo sgradevole, acre, che risuona ai miei sensi come una nota stonata. Non sono più sola??? Lentamente mi costringo a “riemergere” e a prendere atto che  il solo pensare ad un’invasione di questo mio luogo, ne ha stravolto l’atmosfera e la serenità. Ora è niente più che una striscia minacciosa di pineta (3° carta) tra mare e monti.

Un rumore guida il mio sguardo e intravedo il visetto sudato e polveroso di un bambino che cerca di nascondersi o scappare. “Mi scusi signora, cercavo solo i pinoli cascati in terra” mi dice temendo una sgridata. Gli sorrido con tenerezza alzandomi e mentre mi scuoto i vestiti mi sento così stupida per aver permesso alle mie paure di distorcere una piacevole realtà! Mi avvio verso il campeggio, augurando al piccolo disturbatore una buona Caccia al Pinolo.

Le cartine di Daniele

Il bosco di bamboo- di Daniele Violi

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Tanti anni fa, trenta sicuramente, ho avuto il piacere di entrare dentro un grande bosco di Bamboo. Territorio di Montecarlo, Lucchesia. Un luogo che mi solletica sempre la fantasia per il fascino e la scenografia che agli occhi appare come al pensiero quando talvolta ricordo questa delizia protettiva del mio immaginario.

Il bosco di Bamboo riesce a far entrare i raggi solari e il tappeto che si trova ai piedi delle svettanti canne  viene condiviso da piccole piante che riescono a trovare la forza della vita, si riproducono e con i fiori che come occhi puntati riescono a farsi notare (carta 1). Spazio che piace pensare di visitare e con gioco rincorrere o farsi rincorrere dalla mia compagna (carta 2) che giovialmente partecipa alla voglia di correre in mezzo alle canne di Bamboo, alte e slanciate.

Nel mentre una ragazza, curiosa di tutto ciò, appare dietro fila di grandi e larghe canne che riescono a coprire il suo volto per metà (carta 3).

Le carte di Anna

IL FIORE, L’OCCHIO, IL PAVIMENTO – di Anna Meli

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            I raggi del sole illuminarono la casa sulla collina e fecero risaltare la semplice e luminosa bellezza delle sue vetrate e del loggiato adorno di edere e altre piante rampicanti.

            Chiara uscì come ogni mattina. Non si stancava mai di ammirare quel poggio ricco di fiori e erbe spontanee che crescevano in libertà donando all’aria bei riflessi dorati. La sua mente si riposava e spaziava leggera.

           Socchiudendo gli occhi respirava profondamente e percepiva buoni odori che legava ad indelebili ricordi. In quei momenti si sentiva viva come non mai e pervasa da sottili e  piacevoli brividi.

            Camminando si era spinta al margine del grande prato presso la cipressaia fino alla casetta che il giardiniere usava per per riporre gli attrezzi. La porticina semiaperta sembrò volerla invitare ad entrare. C’era aria di mistero.

            Un forte odore di terra umida e di concimi le arrivò d’improvviso al naso e il passaggio dalla luce al buio gli impedirono di vedere chiaro; poi l’occhio si abituò e si posò sui vari attrezzi ammonticchiati e sul pavimento di mattonelle rettangolari di colore diverso ma disposte in un certo ordine.

            Un immotivato senso di paura le fece richiudere in fretta la porta sgangherata e… nuovamente respirò libera nei colori, nei profumi, nel sole.