Fantasia natalizia: Luca

Regalo di Natale – di Luca di Volo

(ovvero la stanza che non c’era)

Per Natale aveva ricevuto un regalo. Bonariamente , il suo benefattore gli aveva detto: ”So quanto tieni alla tua intimità e quanto ami gli ambienti accoglienti e molto personali. Allora ti dico: gira un po’ dappertutto, guarda e scegli. . il luogo dove ti fermerai, sarà tuo…e non preoccuparti per il costo o cose del genere…mi conosci”.

Detto fatto. . viaggiò, traversò oceani e montagne…

Su una spiaggetta vicino a Tahiti, in una casetta tra i palmizi, quasi affogata tra le stelle del Sud…credette di aver trovato la sua pace. Fece venire il benefattore che si mostrò contento: ”Allora hai scelto?! Bravo! Allora concludo?!”

Stava per dire di sì quando un pensiero gli trapassò la mente. . oddio. . ma quello era il posto degli tsunami. . dei terribili tornado. . no no. . meglio cercare altrove. .

Lo disse al benefattore che sorrise con comprensione. . ”Allora vai. . alla prossima volta. . ”

Un po’ gli dispiaceva. . ma si rimise in viaggio. .

Questa volta aveva trovato un attico. . su un’immensa terrazza nel mezzo di un’enorme città. . ma il rumore lì non arrivava. . silenzio perfetto. . e poi tutte le pareti erano trasparenti e davano su un terrazzo pieno di piante lussureggianti. . Era sicuro che quello sarebbe stato il suo buen retiro. . quindi fece ritornare il benefattore.

Arrivato, questi si guardò intorno, incantato da quel luogo. . ”Allora ti stabilirai qui?”

“Ma certo…”

“Sicuro? Mormorò il benefattore. . (conosceva i suoi polli. . )

Stava per ribadire il suo sì convinto. . ma    il solito pensiero maligno gli traversò la strada. ”Mamma mia…quassù. . tanto in alto. . posso cadere io o può venirmi sopra un aereo. . l’aereoporto è vicino …”

Quindi tacque. .

Con un sospiro il benefattore rimise in tasca il portafoglio mormorando: ”Vai , ho capito. . cerca ancora. . e, con piglio insolitamente severo aggiuse: ”Ma che sia l’ultima…”

Era stanco ma si rimise di nuovo in viaggio.

Alla fine. . ormai sul punto di abbandonare , trovò quello che cercava: un edificio imponente, immenso…circondato dai picchi dell’Himalaya…poteva dal suo ufficio guardare sopra i tremendi ghiacciai battuti da venti terribili. . rimanendo nel lusso e nel caldo del suo ufficio. .

E non era solo. . con lui c’erano migliaia di persone. . laboratori. . cucine. . biblioteche… Era per questo che l’edificio era stato costruito. . un tempio laico. . votato solo alla conoscenza del mondo e dell’uomo. .

Con sospiro voluttuoso. . chiamò il suo benefattore. . sì . . sì. . questa volta era sicuro. .

Premette il pulsante…

Un dolce buio l’avvolgeva, materno…sapeva che era la notte di  Natale. . ascoltò in silenzio il quieto e regolare respiro di sua moglie assaporò il profumo leggero che trasmetteva…

La sua ricerca era finita…e il benefattore lo sapeva…di sicuro…e  gli parve di sentire l’eco di una bonaria risata. .

Domani sarebbe stato un bel Natale. .

La stanza segreto: Anna

STANZA SERENA E STANZA RIFUGIO – di Anna Meli

            La mia stanza serena non ha pareti né soffitto. E’ immensa e luminosa, piena di voci di persone amiche e di ragazzi allegri. Non ha angoli né spigoli e ognuno trova il suo spazio insieme agli altri sentendosi liberi ma non soli, in una condivisione di pensieri e di sentimenti per lo più positivi.

            Forse non esiste, ma mi piace crederla possibile e il solo immaginarla mi fa sentire bene e la cerco quando pensieri grigi cercano di farsi largo nella mia mente come le nuvole nere dell’inverno.

            Non sempre però ho la meglio e, allora, ho bisogno della stanza rifugio che non è una vera stanza ma parte di essa.

            E’ un angolino fra il tavolo di cucina ed il termosifone dove mi accuccio su una seggiolina impagliata bassa e fornita di un morbido cuscino rosso. Lì mi sento protetta quasi abbracciata nell’angolo alle due pareti. Se è sera, non accendo la luce perché in questi momenti anche l’oscurità può essere compagnia confortante e il silenzio amico dei miei pensieri.

            A volte sono stata sorpresa nel mio angolo rifugio dall’improvviso accendersi della luce da parte di qualcuno che entrava e mi sono alzata gelosa di quel momento per me prezioso; quasi sempre però ho ricevuto un affettuoso abbraccio di comprensione e tenerezza. Mai nessuno mi ha chiesto perché. L’angolo rifugio è rimasto segreto e solo mio.

La stanza sospesa – Stefania

La stanza sospesa – di Stefania Bonanni

C’è una stanza segreta che mi parla da tempo, in silenzio. Una stanza piena di assenza, di trapezisti in bilico, di cose sospese, di se, forse, non so. Vedremo, faremo, apriremo le imposte, accenderemo la luce. “No, non ancora. Lasciami a galla, immobile, ancora un po’. “Forse oggi ce la faro’, forse riusciro’ a riacchiappare il sogno bello che stanotte mi ha fatto ridere. Forse, se chiudo di nuovo gli occhi e stringo forte le palpebre, lo ritrovo li’, dietro l’angolo. Dietro quell’angolo ancora buio ma non piu’ nero di notte, colpito di sbieco da un raggio di luce fioca che filtra da destra, dal fondo della serranda ancora chiusa. La stanza è piena di un chiarore lattiginoso che sembra solido, una via di mezzo tra la notte che non si decide a sparire, ed un giorno che non ha promesse da mettere sul piatto. Una meraviglia di momento senza nome. Non notte, non Alba, non mattino, né giorno, né realta, né sogno. Come una ragnatela che si allarga e si romperà, e costringerà  a muoversi, ad atterrare, ma per ora regge sospesi, fa dondolare. Come l’acqua che culla, come cantilene antiche, e sapere con certezza, e mai certezza fu più certa, che la mia, quella che mi somiglia, è la stanza sospesa. Un momento magico, con il chiarore che si allarga e proietta sui muri ombre bianche, mentre gioca tra le pieghe delle tende chiare e le fa sembrare gonfie, come a nascondere il mondo, come a dire che c’è  un mondo fuori, ed un mondo “dentro”. Ed è un ballo che si può ballare: un passo fuori, un passo dentro. Senza sbagliare. Un passo fuori, un passo dentro.

La stanza salotto – Mimma

SONO IN SALOTTO – di Mimma Caravaggi



Mi trovo in salotto dove passo gran parte della mia giornata. E’ la  stanza che prediligo e dove c’è la mia poltrona preferita ma non riesco a godere appieno sia della stanza che della poltrona poiché l’atmosfera attuale non è delle migliori. Il periodo che sto attraversando è molto complicato e nonostante la  positività del mio carattere non riesco a raggiungere l’umore allegro a cui sono abituata e pur stando nel mio angolo preferito, nella mia stanza preferita, ho un groppo alla gola per tutti i pensieri che si accavallano ma di cui uno in particolare mi rende triste. Dopo oltre trent’anni ho dovuto mettere in vendita la mia casa. Il solo pensare di dovermene andare è così doloroso che a volte mi dico : “non è possibile, la mia casa la mia stanza a breve non le avrò più” Non ci credo e l’idea di ritrovarmi in un condominio mi angoscia. Non sono mai stata in un condominio ed ora mi vedo catapultata non solo fuori di casa senza più la mia stanza dove ricomporre i pensieri e i ricordi, ma in un posto che non mi piace e che non lo vedo adatto a me, al mio carattere. Oltretutto la casa attuale è costata tanti sacrifici e fatica prima di tutti alla mia mamma che mi ha permesso di acquistarla e poi 15 anni per restaurarla e farla mia con le comodità e le mie idee. E’ dura a questa età pensare di doversene andare, sobbarcarsi un grosso ed impegnativo trasloco cercando di ridurre mobili e suppellettili al minimo indispensabile. Attualmente è piena,  anzi strapiena di ninnoli ognuno legato ad un ricordo, ad un viaggio, ad un affetto e se penso che dovrò lasciare anche tutto questo beh allora arrivano le lacrime. Questi pensieri si sovrappongono ad altri mentre sono sulla mia poltrona nella mia stanza , nel mio angolo preferito  e  penso che non ne avrò altri uguali.

La stanza della solitudine – Sandra

La stanza della solitudine – di Sandra Conticini

In questo periodo pieno di incertezze e di cose che è consigliato non fare, il mio posto è nella stanza della protezione e della solitudine. Cerco di fare cose da sola anche se amavo la compagnia. Con grande dispiacere sento che mi sto chiudendo in me stessa sempre più.

Durante il giorno, quando decido di stare in casa o il tempo è brutto, mi metto sul divano a leggere o a fare qualche lavoretto passatempo. Il pomeriggio passa velocemente, ma arrivo a sera che mi sento come se fossi stata in prigione. I  giorni che ho l’opportunità o la voglia di stare in compagnia  a fine giornata sto bene, ma purtroppo  succede raramente, perchè il tempo che passa mi sta cambiando.

Poi riflettendoci questi cambiamenti non dipendono solo da me, perchè la pandemia ha lasciato a quasi tutti qualcosa di negativo,  ci ha tolto la libertà di scegliere ed abbiamo tutti più ossessioni, paure e tanta solitudine.

La Stanza Nonna: Stefania

La stanza-nonna – di Stefania Bonanni

Una stanza luminosa, dove si sta bene, coperta di mobili chiari in contrasto con un pavimento nero.  Una stanza che non si puo’ fare a meno di frequentare perché ci si mangia, ci si cucina, ci si fa il presepe, si disegna, si fanno i biscotti, ci si fa colazione e merenda. Dove si mette a bollire il sugo, mentre si fanno le parole crociate e se c’è un raggio di sole ci si affaccia su un minuscolo angolo di verde giardino, popolato da gatti estranei. Una stanza che si usa perché serve, ma che è piacevole e serena, popolata da strani oggetti frutto spesso di visioni fantastiche, come il cane di legno portato dalla piena dell’Arno, ed il pappagallo di plastica che si poso’ sul lampadario, senza più ripartire. Una stanza che si chiama cucina, ma si potrebbe chiamare Nonna. Che è semplice e molto moderna, ma mantiene pranzi della domenica e delle feste, come da tradizione. Una stanza dove trova posto il seggiolone che tra poco non servirà più a nessuno, ma che aveva trovato una nicchia perfetta e sembrava un arredo. Dove molte cose hanno trovato posto: ne’ troppo, ne’ troppo poco cucina. Ne’ una gran fatica, ne’ una minestrina riscaldata.

La stanza dell’acqua – Cecilia

La stanza dell’acqua – di Cecilia Trinci

Mi sono accorta, ascoltandovi, di non avere una stanza tutta per me, e neppure un angolo speciale dove rifugiarmi. Mi sono accorta anche che la casa non ne ha o forse sono io che non ho cercato.

Le idee migliori mi vengono nell’acqua. Preferibilmente di mare e in mare, ma, in alternativa anche nella vasca da bagno, se di meglio non c’è. Mi lascio trasportare sotto l’acqua, la mattina, dopo che la notte, senza saperlo, ho riflettuto.

Tanto per ribadire è in mare che mi venne la voglia di creare il gruppo delle Matite, dopo aver ben ascoltato le ragioni e le voglie di Stefania, che in quel momento era accanto a me, nell’acqua, appunto.

Nell’acqua vedo quello che in terra mi era sfuggito……

E’ l’elemento primordiale, o forse il più evoluto, dove si sta sospesi, mentre sembra che il cervello si schiarisca e veda più lontano all’orizzonte.

La mia stanza dell’acqua potrebbe essere una stanza quadrata coperta per ¾ di acqua tiepida, perennemente tenuta alla stessa temperatura, con “isolotti” morbidi dove distendersi e zattere di legno dove scrivere e mangiare. Per il resto del tempo vorrei vagare sotto il livello dell’acqua e le pareti dovrebbero essere trasparenti, come quelle di un acquario, per poter vedere cosa succede fuori, per ricevere la visita di persone che mi salutano dal vetro come da uno schermo del PC e che mi parlano con grandi gesti farfallanti. Piante acquatiche esotiche tutto intorno. E silenzio. Il silenzio di quando la vita ebbe inizio.

Dopo i colloqui vorrei volteggiare sott’acqua per ricaricare le batterie cerebrali, per purificare la mia recezione sentimentale, per tornare com’ero.

Vestiti? Grandi parei colorati e coprenti che svolazzano con me, come mantelli, annodati dietro al collo, perennemente bagnati.

Piccoli pasti sulla zattera a base di biscotti.

Libri e racconti sempre umidi da leggere sopra gli isolotti, confondendo lacrime e acqua, senza distinguere.

Starei bene, credo.

In assenza di questo l’unico angolo di casa che posso farvi vedere e dove riesco a concentrarmi (oltre alla postazione computer che resta la mia preferita) è il tavolo dove scrivo il diario, dove aggiorno l’agenda, dove i rumori di sottofondo si spengono e riesco a rimanere sola con il racconto, con le parole, con le persone, con i loro dialoghi, che fermo sulla carta per non perdere niente……

Stanza del sogno – Rossella

Stanze…distanze – di Rossella Gallori

Casa è cose, le cose sono case…io vivo nella torre, spesse tende di velluto viola, tappeti di pelliccia, il letto è altissimo, ha immensi cuscini di Sangallo…niente maschi fissi, né mocci da asciugare, niente cani che abbaiano, niente uccelli cafoni, gioielli finti e veri mescolati in immense ciotole di cristallo, opulente e colorate, gioie sfacciate. Due telefoni gettati sulla dormeuse avorio/ sale, uno per il cuore, l’ altro più utile per il cervello, spesso uno dei due è staccato, una parete immensa ospita uno schermo gigante, musica e film, ritmo e luce. Cioccolato fondente dal cuore liquoroso, straborda dalle ciotole d’argento e libri, libri per terra, sul letto, sulla libreria, segnalibri preziosi d’oro zecchino, foto di me giovane ed in salute, sola mai, anche se gli altri non si vedono.

La porta è una portapersona, di legno laccato color glicine segnata dagli anni, una  barriera pensante che non sa se aprirsi o no…

Ogni tanto mi affaccio dal merlo medioevale, guardo e non vedo, scaldo l’olio bollente, non lo getto….ma lo scaldo. Qualcuno canta una canzone e là nel laghetto un cigno di plastica galleggia.

Poi mi sveglio  in un tinello piccolo piccolo e stento a rialzarmi dal divano rosso fuoco troppo basso, una volta tanto moderno, ed ora solo scomodo, il bracciolo con il buco fatto dalle mie mani incazzate è ora protetto da un plaid natalizio,  cuoricioso e colorato, una gatta artereosclerica  mi ignora.

La libreria ora è Natale incasinato, normalmente è caos, gatti di tutti i tipi e libri: letti, non letti, capiti e no, la finestra grande mi porta fuori su piante  di cui non sempre conosco il nome, la mia casa scatola non ha merli né guelfi, né ghibellini, non è un castello è una casacosa.

Con la pace dentro potrei stare teoricamente da qualunque parte, senza torri antiche…nel mio disordine totale di falsi gioielli appesi ai sogni.

La stanza dello stare insieme – Carla

La stanza dello stare insieme – di Carla Faggi

Apatia.

Sono nella stanza in cui si sta insieme.

Nella sala tinello si sta sempre insieme.

Marco ed io, con le amiche un tempo, con le matite ora.

Sono davanti alla stufa a legna, e quindi sono nella stanza in cui si sta insieme al caldo, perchè stare insieme significa scambiarsi calore.

Il calore è energia buona e quindi stare insieme significa scambiarsi energia buona.

Come sto?

In questo momento bene perchè sono nella stanza dello stare insieme e sto insieme nel calore.

Come starei? Insomma!

Come starò? Mah!

Più tardi sarò occupata nella stanza cucina a creare.

È gialla, colore perfetto per creare.

È piccola, ma io da una parte e Marco nell’altra ci entriamo.

Avvolta nel verde delle verdure, lava, taglia, cuoci, sono costretta ad occuparmene io.

Marco si diletta di più con i cibi proteici, magari rossastri.

Poi tornerò nella stanza dello stare insieme per mangiare.

Qui predominano il rosso con il lilla, colori adatti per lo stare insieme, il rosso ti appassiona, il lilla ti raddolcisce.

Come starò? Mah!

Sarò occupata a mangiare.

Poi accendendo la televisione sparapanzati sul divano rosso nella stanza dello stare insieme, sentiremo di nuovo del covid ed allora come starò?

Incazzata perchè non ne posso più! Triste perchè vorrei che finisse!

La stanza del tavolo – Lucia

La stanza del tavolo – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Sono nella stanza del grande tavolo:
un tavolo enorme di vecchio legno
Il tavolo da “contadini”, il tavolo della casa dove sono nata
Era al centro della grande cucina di fronte  al focolare e aveva due lunghe panche che potevano accogliere almeno dodici persone.
Con il passare del tempo mio padre lo aveva messo in cantina con sopra i caratelli del vin santo; il peso aveva piegato le sue assi e i tarli lo stavano sciupando, stava per andare.
Con tutta l’energia di ancora una giovane donna (avevo trentadue anni) ho voluto che quel tavolo fosse restaurato contro il parere e la volontà di tutti
Un giorno un falegname è venuto a prenderlo e ho visto il mio tavolone sistemato sul suo camioncino  e partire, ricordo la mia emozione!
Qualche settimana più tardi era di nuovo a casa: bello, luminoso, sorridente.
Io mi sentivo una donna felice perché ce l’avevo fatta! Avevo salvato qualcosa di importante, avevo salvato il luogo delle minestre di pane, delle pappe con il pomodoro, della polenta gialla tagliata con un filo di spago sottile e condita solo con l’olio, quello buono
Avevo salvato il tavolo dove ogni anno veniva macellato il nostro maiale dalle mani esperte di Aldo, il macellaio del paese
Avevo salvato il tavolo dove la mamma cuciva e stirava , dove io facevo i compiti e dove cercavo di insegnare a scrivere a mio nonno analfabeta.
Il tavolo  intorno al quale si riuniva tutta la mia famiglia per recitare il rosario nel mese della Madonna , dove la domenica si sedevano spesso anche i parenti che venivano a trovarci e dove veniva servita la minestra con il lesso ( solo la domenica) e poi c’era, ma non sempre, il pollo arrosto dei nostri o il coniglio in umido sempre dei nostri.
Tutti insieme al tavolone con il fuoco che scoppiettava alle nostre spalle e che scaldandoci ci attendeva a veglia nel “ canto di foco “ fino all’ora di dormire
Questo è il tavolo della mia storia e di chi mi ha preceduta e ogni giorno mi aspetta e mi saluta quando torno a casa: è lì subito dopo la porta.

La stanza trasparente: Laura

La stanza trasparente – d Laura Galgani

La mia stanza vola, è un enorme cubo trasparente, di vetro sottile e resistentissimo.

Allo stesso tempo però è permeabile, e io attraverso la realtà a bordo della mia stanza.

Le nuvole bianche e leggere, a batuffolo, ci passano attraverso senza nemmeno accorgersi che io sono lì.

A volte sto seduta alla scrivania e lavoro al computer, altre volte sto per terra, a gambe incrociate, e guardo il cielo tutto intorno a me.

Anche il pavimento è trasparente e il mondo, tutto il mondo, mi scorre sotto, dolcemente.

Non so per quale misterioso motivo la vita venga a cercarmi lì dentro. Io attraverso la vita ogni giorno, in ogni istante, a bordo della mia nave di cristallo, dove niente si frappone fra la vita e me.

Anche io sono trasparente come la mia stanza.

La vita mi passa dentro e si veste di me, e io vesto di me la vita.

Non c’è separazione fra me e ciò che vivo.

Tutto è dentro di me dall’eternità e lo riconosco quando mi attraversa, senza farmi alcun male, e dopo averlo riconosciuto lo lascio andare, guardandolo andar via.

Osservo ciò che mi ha lasciato: forse una goccia d’acqua, forse un germoglio di rosa, o magari un pezzetto di carbone. Tutto diventa parte di me: ne faccio tesoro in una sorta di digestione senza commenti.

Al mattino mi vengono incontro persone, tante.

Sono le persone con cui lavoro: le lascio entrare nella mia stanza trasparente rispondendo al loro sorriso.

Ma non solo: poco dopo si affacciano altre dieci, cento, a volte innumerevoli persone che non ho mai incontrato prima. Sono quelle di cui ci occupiamo e delle quali, in qualche modo, determiniamo la vita.

Alcune tornano ogni giorno e sono quelle che ci preoccupano di più, perché non sappiamo se per loro andrà a finire bene. Ma anche loro a sera passano, e mi lasciano un nutrimento importante in dono.

Poi ci sono tutti gli altri che passano a trovarmi: i miei figli, i miei genitori, tutta la mia grande famiglia, enorme come il cubo trasparente. Anche con loro rimango un po’, senza volerli fare miei. E li ringrazio.

Ma non basta; poi ci siete voi, le Matite colorate, che quando entrano tirano fuori grandi pennelli e si mettono a dipingere le pareti di cristallo con tutti i miei sogni, che si fondono con i loro. E la mia stanza trasparente diventa ancor più gigante, colorata, festosa e calda di amicizia e di vita.  

Incontro 15 dicembre 2021 – Le stanze

con Cecilia Trinci

L’ispirazione è legata alle “12 stanze” di Ezio Bosso che dice:

“La parola stanza significa fermarsi, ma anche affermarsi. E una parola così importante eppure non ci pensiamo mai. La diciamo e basta. Le abbiamo inventate. Le abbiamo costruite quando abbiamo trovato finalmente un posto dove fermarci. E gli abbiamo dato nomi, numeri e significati, a volte poetici: la stanza dei giochi, la stanza della musica, la stanza dei sogni. La stanza della luce o la stanza cieca. Altre volte pratici: la sala, il salone, la stanza da bagno, la cucina. Sono infinite le stanze, ma non ci pensiamo mai”.

Le stanze rappresentano le fasi della nostra vita ed i sentimenti che le accompagnano. Il dolore, l’amore, la rabbia, la felicità, la serenità, la pace.

E voi in quale stanza siete?”

E voi Matite, in quale stanza siete?

Intanto, in attesa di riflessioni, ecco i nostri angoli preferiti, dove ci piace trovare rifugio:

Una pagina tutta per sé – Nadia

Propongo una nuova “paginadove pubblicare i racconti personali, seguendo un filo privato, dove ognuno può esporsi con le proprie caratteristiche più belle.

Le città di Nadia – di Nadia Peruzzi

Per la mia maledetta paura di volare mi sono persa interi continenti. Delle città che ho visitato, grandi o piccole che fossero, porto ricordi così vivi che potrei scrivere all’infinito.
Ma mettere confini è necessario.
Non amo le città verticali tanto più se nate per impressionare con i loro skyline punteggiati di grattacieli dove, camminando per le strade, devi farti venire il torcicollo se vuoi vedere uno spicchio di cielo.
Mi sento schiacciata a terra, pensandomi in una di queste, incapace di volare anche col pensiero e la fantasia.
Città con molto potere di suggestione anche mediatica e con poca, direi pochissima storia rispetto a quella di molti altri luoghi del mondo non fanno per me.
Per capirci forse meglio: fra la V° Avenue e l’Avenida del Darro a Granada con l’Alhambra che osserva i tuoi passi dall’alto del costone non ho dubbi tornerei mille e mille volte nella seconda.
Amo le città orizzontali, piene di verde e punteggiate di monumenti testimoni di un prima di noi che parla di genialità e grande progettualità, di visioni del mondo che hanno gettato ponti verso il futuro superando l’angusto orizzonte delle casupole che li circondavano.
Amo le città in cui puoi trovare quartieri o piazze che assomigliano a piccoli paesi in cui ti senti a casa perché tutto è a misura d’uomo.
Una piccola chiesa medioevale in un vigneto con a due passi una corona di case a graticcio dai colori pastello e le cicogne che fanno capolino dai loro immensi nidi sui tetti e hai trovato il tuo eden. Certo a questo ci siamo arrivati per passi e gradi, inseguendo anche il vino alsaziano, perché la porta di ingresso in Francia è stat,a e non poteva che essere, la Ville Lumière, Parigi.
Parigi culla della Rivoluzione del Terzo Stato, terra di grandi pensatori e di scrittori, punto di incontro di artisti e dei più grandi ingegni che hanno segnato l’avanzamento della cultura e dell’arte in Europa e nel mondo. Avevo 17 anni quando ci sono andata la prima volta, e non fu semplice fare i conti con una dimensione dello spazio che sovrastava di molto quello di qualunque città avessi visitato prima.
Era un perdersi continuo. Doppio , qualche volta, se mi immaginavo a dare l’assalto alla Bastiglia oppure mi vedevo sulle barricate a difesa della Comune di Parigi.
L’emozione più forte dentro NotreDame. Era il 15 di agosto. Entrammo e fummo avvolti dal buio. La cattedrale era stracolma. Gli unici su cui cadeva la luce erano l’arcivescovo e le alte autorità ecclesiastiche. Erano in alto e sospesi sulla folla. Alle nostre spalle l’organo intonò le  note della Toccata e fuga di Bach. Ogni spazio ne fu riempito. Noi senza fiato attraversati da brividi, e trasportati lontano anche da noi stessi.
Era la prima volta in quella città così importante nella storia dell’umanità. Come tutte le prime volte a prevalere fu l’esaltazione, quella vestita di ansia e di voglia di correre per vedere di tutto e di più. La città da prendere a morsi, nel tempo che subito si scopre troppo breve per il tanto che c’è da vedere .
Ci sono voluti altri viaggi, altro tempo dedicato per placare la furia esplorativa e lasciare che fossero le carezze e la leggerezza ad avere la meglio.
Ognuna delle mie 7 volte a Parigi ha portato una scoperta in più, regalandomi angoli e scorci fuori dalle guide e dai percorsi del si deve.
Nei viaggi ho scoperto man mano che sono una da seconde volte, quelle che danno spazio al riconoscere, al ripercorrere, al riassaporare. Quelle in cui ci si può soffermare anche sulle minuzie, sulle stranezze,spostando lo sguardo dalla grandeur della porta accanto.
Al furore adolescenziale della prima volta ci si trova a sostituire un sentimento più adulto e pacato, ed è quello a portare per mano in un territorio che già possiamo sentire come più amico. Il sentimento che prevale è la confidenza dei luoghi che si attraversano e si possono godere al meglio.
La seconda volta a Parigi a pochi anni dalla prima, mi vide cronachista quasi giornaliera in lunghe lettere scritte ad un mio amore di allora.
Amore a senso unico come potei scoprire ben presto. La passione era tale che pensai di regalargli il mio sguardo sulla città, le sue stranezze, i suoi personaggi.
Ho riso ad ogni riga che scrivevo e ad ogni lettera.
L’amore non era corrisposto e anche le lettere non fu chiaro che fine possano aver fatto, tuttavia nello scrivere come se lo fosse, mi sono divertita così tanto che questo ebbe la meglio tutto sommato anche sulla delusione successiva e il pensiero, mentre scrivo, riesce a scaldare il cuore ancora oggi.
Per passare dal fare i conti con la nobiltà frivola e fricchettona della Francia, giustamente travolta dagli eventi e da Madame Guillottine, all’austerità e solidità della corte e della nobiltà inglese ci sono voluti anni, inframmezzati di viaggi in macchina alla scoperta della Spagna (ben 6000 km con una 500 blu piena di ogni bendiddio ) e della Yugoslavia percorsa da nord a sud fino nell’interno per strade sterrate di chilometri per poi scoprire che a Sarajevo ci saremmo arrivati comodamente con la strada asfaltata che non beccammo assolutamente eppure correva non distante.
Volevamo attraversare il massiccio del Durmitor con i suoi boschi incontaminati, e Durmitor era stato. Buche e strattoni compresi.
Quando vedemmo il cartello che ci dava a pochi chilometri da Sarajevo tirammo un sospiro di sollievo e fummo vicini a fare una ola da stadio.
Ho incontrato le prime moschee, i primi edifici alla turca e i primi cimiteri con steli coperte da turbanti a biancheggiare nel verde dei parchi, in questa città.
Era allora un’oasi di pace e di convivenza e di intrecci familiari secolari, che di lì a pochi anni sarebbe esplosa in un apoteosi di orrori. Umanità bombardata e offesa, fatta a pezzi.
Come accadde al ponte a schiena d’asino di Mostar e al suo quartiere nelle vicinanze ricco di vita,bar allegri,di tappeti,divani  e cuscini alla turca. Facemmo qui i conti con i danni che il mito della velocità ha introdotto nei nostri comportamenti abituali.
Fu il primo caffè alla turca a darci un sonoro ceffone e una lezione che aveva un che di filosofico visto che apriva una porta su altri mondi.
Non ci fu bisogno di disquisizioni sull’elogio della lentezza. Bastò il caffè. Al primo sorso bevuto di getto, quando mandammo giù anche un bel po’ di fondi che non avevamo avuto la pazienza di lasciar depositare, ci trovammo a maledire tutte le forme di dinamismo che a partire dalla rivoluzione industriale ci sono state buttate addosso per metterci il turbo.
Il fascino del super proibito nel passaggio di un confine invece era stato sperimentato qualche anno prima. Era il 1969. La Germania est , DDR, era scritta sul passaporto insieme ad altri stati (tutti di “oltre cortina”) come territorio vietato. Andarci poteva voler dire vedersi ritirato il passaporto e per anni giocarsela male per altri viaggi anche nei luoghi non vietati.
Ma lo sappiamo,dalle nostre parti le maglie del tutto strette non sono (in questo caso direi anche giustamente). Malgrado fossimo in macchina noi di famiglia e una mia amica,il viaggio era stato organizzato attraverso l’agenzia turistica a latere della CGIL.Insieme ai 5 giorni a Praga e ai 10 a Marianske Lazne ( la Marienbad di un noto film) furono inseriti anche 4 giorni da passare a Dresda. Ci arrivammo dal confine con la Cecoslovacchia, consegnammo i documenti che l’agenzia ci aveva fornito e alla frontiera ci rilasciarono un foglio simile ad una pagina da passaporto. Ci potemmo godere in questo modo le meraviglie, molte di pittori italiani, contenute nel museo Zwinger e un passaggio in battello lungo il corso del fiume Elba fino in Sassonia.
Ovvio che oggi quando sento che solo dopo Schengen si può girare in piena libertà in Europa un po’ da ridere mi viene. In quegli anni , in macchina, di frontiere con quei mondi ne ho passate diverse ma il massimo di negatività che posso ricordare sono, e non sempre, le code al momento del controllo dei passaporti. Per il resto viaggi in libertà e senza che ci accadesse nulla .
Per arrivare alla corte inglese ci voleva l’aereo e come novello Achille non avevo granché voglia di staccare i miei piedi da terra per affidarmi alla perizia di un pilota d’aereo. Questo, malgrado mio padre cercasse di razionalizzare con i dati delle statistiche. Certo lui a Pechino da Mosca c’era arrivato con un bimotore viaggiando ad elica nel 1954, certo che realmente gli incidenti di auto siano più frequenti di quelli in aereo, altrettanto certo però che a Londra ci arrivai inteccherita come un pezzo di legno per la tensione.
Ci volle poco per sciogliere quel legno, in ogni caso.
Il concetto di città mondo l’ho sperimentato per la prima volta a Londra. Nelle sue strade facce dai colori diversi, occhi più o meno neri e inclinati,uomini con turbanti di cui avevo letto solo nei libri di Salgari o di Kipling e che scoprii frequenti quasi quanto gli autobus rossi a due piani. Nei negozi , insegne e mercanzie che erano istantanee di un impero. Il più vasto dopo quello di Roma, e uno dei più longevi prima che lo strapotere dei Gringos arrivasse a surclassarlo.
La Londra dei monumenti è nota. Così come la loro solidità e essenzialità senza fronzoli. Del primo viaggio porto con me il ricordo dei primi barboni visti a dormire fra i cartoni e in pieno centro. Fu uno schiaffo diretto e colpì duro. Eravamo dietro il Covent Garden e nella zona dei teatri. Era novembre e c’era una umanità condannata a passare la notte fuori al freddo. Fa ancora male a pensarci. Qualche anno dopo il quadro era cambiato. Non in meglio se un turista poteva accorgersi di quello che un articolo che lessi quando ero già rientrata a casa definiva come un “fenomeno preoccupante”. L’età di coloro che si aggiravano come barboni per le strade della città luccicante si era abbassata fino ad arrivare ai giovani di poco più che 20 anni. Era il 1999 con l’era della globalizzazione che stava mettendo il turbo e nelle città si approfondivano disparità e disuguaglianze.
Sarà anche per questo che ho fotografato di malavoglia i nuovi quartieri verticali che fanno corona alla Torre e al Ponte di Londra. Anzi per meglio dire ho fotografato con più di un filo di rabbia e un piglio da documentarista di ciò che proprio non amo e non mi va giù.
Frotte di archistar si sono date un gran da fare creando emblemi dello strapotere economico di compagnie di assicurazione, grandi banche e catene alberghiere. Simboli e totem per chi il cielo lo ha scalato davvero, ha vinto e stravinto la lotta di classe. E da lassù guarda con disattenzione e fastidio, se le guarda, alle masse brulicanti che quello strapotere ha messo in un angolo e in condizione di marginalità e stanno dentro sacche ben visibili anche nelle città sfolgoranti dell’Occidente ben pasciuto. 
Ci sono città in cui ho sperimentato come sia possibile fare viaggi diversi in tempi diversi.
Vienna dove la prima volta ho inseguito i Bruegel fino dentro il Kuntistorische Museum per ritrovarmi di fronte due quadri di piccolo formato che confliggevano con la grandiosità che avevo immaginato vedendone le riproduzioni in un libro magnifico dedicato alle gesta epiche dell’eroe nazionale delle Fiandre che aveva guidato la lotta per l’indipendenza dalla Spagna. Till Ulenspiegel il coraggioso, il buono, il saggio, il ragazzo del popolo, contro il sanguinario Filippo secondo re di Spagna.
Il resto fu visto seguendo le guide di allora e i percorsi suggeriti allora. Era il 1973 , l’anno del viaggio di nozze, e molte cose non le conoscevamo ancora e non erano entrate nelle nostre corde. Nel 2014 fu tutta un’altra Vienna. I monumenti erano sempre lì a raccontarla come nel 1973 ma a guidare i nostri passi e a tenerci per mano c’erano Klimt e gli artisti della Secessione e dello Jugend Stil di cui al tempo del primo viaggio non sapevo granché.
E’ accaduto lo stesso per motivi diversi con Leningrado/San Pietroburgo.
In questo caso non si è trattato di artisti o di scrittori a determinare lo scarto. Si è trattato proprio di due storie completamente diverse vissute e sentite raccontare così, dalle guide nel 1971 e poi nel 2006.
Quella del 1971 seguiva il corso di una rivoluzione nata nel paese che anche i “testi sacri” avevano considerato il meno probabile perché si determinasse. Aveva avuto luogo dal cuneo tragico introdotto dalla prima guerra mondiale e resa possibile dalla distrazione delle potenze imperialiste in lotta fra loro. I luoghi e i monumenti che visitammo erano raccontati come tasselli di quella epopea rivoluzionaria e di quei 10 giorni che avevano sconvolto il mondo secondo il racconto cronachistico del giornalista americano John Reed che li visse da vicino.
Alla fortezza Pietro e Paolo visitammo le segrete dove era morto il fratello di Lenin e dove molti anni prima erano stati imprigionati i Decabristi e Dostoevskij. E l’Istituto Smolnji lo potemmo vedere, dopo averlo letto sui libri, come luogo in cui Lenin aveva installato il quartier generale di Bolscevichi durante la rivoluzione.
Nel 2006 invece anche l’incrociatore Aurora , quello del colpo di cannone che aveva dato il via alla rivoluzione, aveva perso il suo smalto. Veniva raccontato come un inciso, un si deve ma trascurabile. E’ ancora alla fonda nello stesso punto ma trattato come parte di una storia che si deve raccontare sottovoce, come se non fosse mai avvenuta. Quindi alla Fortezza Pietro e Paolo nel 2006 ci hanno portato a visitare la chiesa con le tombe degli zar, e allo Smolnji l’attenzione la si è puntata sull’Educandato per le nobili fanciulle. Roba tranquilla e del tutto poco compromettente.
Eppure , con un po’ di immaginazione, da dentro le regge sfarzose e ridondanti di specchi , ori e broccati se lo sguardo oltrepassava le finestre perdendosi nei parchi e nelle tenute che li circondano non era difficile scorgere il volgo disperso, straccione, analfabeta , affamato e fiaccato dentro la tragedia e le distruzione della prima guerra mondiale, immedesimandosi nel suo punto di vista di escluso. Dato lo scarto di condizioni e la ferita delle disuguaglianze manifeste non era stato impossibile per un manipolo di uomini coraggiosi e determinati fornire ragioni per un rivolgimento di portata mondiale e rendere protagonista quel volgo disperso .
Le tre motivazioni di fondo valevano in quella terra come l’aria e l’acqua per ogni essere umano. Pace, pane e terra ai contadini. Parole semplici ma in grado di innescare un effetto dirompente che ispirò un movimento di portata planetaria. Mi chiedo adesso come raccontino questi stessi luoghi. Se esista una terza versione che tenga conto degli eventi per come si sono manifestati. Oppure si continui a evitare di fare i conti con una delle storie, anche ovvio per criticarne aspramente le storture, durata comunque per quasi un secolo. Non so se riuscirò a scoprirlo. Mentre scrivo forse sento che potrebbe diventare ragione per un terzo viaggio da quelle parti.
A fare contorno alle grandi città le tante piccole visitate. Fra queste le cittadine dell’Olanda costruite su terra così ostile e fragile da aver messo a dura prova l’ingegno e la fatica dei loro abitanti. Grandi i contrasti pur nell’assenza di rilievi. Terra e acqua senza quasi soluzione di continuità e una luce che solo lì si può trovare. Le case merletto sempre troppo piegate in avanti o all’indietro, a destra o a sinistra. E la birra bionda in boccali invitanti e generosi che pensavi causa di quelle visioni un po’ sghimbesce, non c’entrava nulla, era proprio così a causa del terreno poco stabile.
In Italia Vicenz . Ci sono andata per visitare una mostra di Van Gogh pensando che tutto ruotasse e finisse con la Basilica palladiana. Invece è lo stupore a guidare i passi dentro una città che scopri pensat , frutto di una concezione del mondo e figlia di una architettura non fine a sé stessa o fatta di frammenti e segmenti a sé stanti e privi di senso compiuto.
Palazzi e quartieri del centro si percepiscono sorretti da un piano,da una visione filosofica e dalla gran voglia di lanciare un segno forte anche verso il futuro.
La mia città natale Roma volutamente lasciata per ultima. Non ci sono cresciuta, visto che a due anni e mezzo son venuta a Firenze con mia nonna, mentre i miei per qualche mese ancora hanno continuato a lavorarci. Una città di cui non ho ricordi miei. Impossibili i dejà vu che uno si porta fissati nel dna. Per me era la capitale del paese non la “mia” capitale per sentimenti, sensazioni da poter far riemergere percorrendo strade, ascoltando voci o sedendosi ai tavoli con le tovaglie a quadri bianchi e rossi delle trattorie di Trastevere.
Per lunghi anni e non saprei dire perché nemmeno l’ho visitata da turista. I miei percorsi romani sono stati quelli delle manifestazioni a cui ho partecipato. Gli anni da turista sono arrivati dal 1990 in poi. Nessuna parola può descriverla o condensarla, Roma. Troppa storia e troppe stratificazioni di storie per poter trovare il verso di un racconto.
Sono i flasches degli ultimi anni e le scoperte più recenti a illuminare il ricordo. San Luigi dei francesi con I tre capolavori assoluti di Caravaggio dedicati a San Matteo che non trascuro mai nemmeno nei miei viaggi di un solo giorno.
Santa Costanza con la sua pianta circolare e i suoi mosaici. Il quartiere Coppedé con i suoi palazzi in stile eclettico e Liberty e con spaccati che portano, in qualche caso, a angoli di palazzi genovesi.
Delle notti romane una su tutte. Era il 2015. Era caldo,fin troppo, in quell’estate romana. Nemmeno il ponentino riusciva a mitigarlo. Malgrado le buone intenzioni da turiste ci trovammo ad anticipare il viaggio di rientro. Irene aveva già una bella pancia e il giro in quell’afa sarebbe stato faticoso e ci avrebbe messo alla prova.
Ce ne tornammo a casa senza troppa delusione per questo anticipo di orario di rientro. Il clou del viaggio lo avevamo già vissuto la notte prima. Alle Terme di Caracalla Elthon John aveva tenuto il suo concerto. Cantammo e ballammo avvolte da una magia che durò quasi due ore, i 35 anni di differenza fra madre e figlia si dileguarono a ritmo di rock! 

Anni: il 1951 – Patrizia

Un ricordo del 1951 – di Patrizia Fusi

Ero in prima elementare.

In quel periodo mia mamma dovette essere ricoverata in ospedale per un intervento, io fui mandata dalla zia Gina, sorella del babbo.

Mi pesava molto non essere a casa mia.

La prima mattina la zia mi preparò con cura, perché andassi a scuola, io ricordo non ne avevo voglia, per tutta la strada andavo piano piano a piccoli passi come una formica, quando arrivai davanti alla scuola girai il sedere e tornai a casa da zia.

Gli dissi che c’erano degli scolari dentro al giardino della scuola, che erano vicino alla piccola vasca con una fontana al centro che zampillava l’acqua, che non mi avevano fatto entrare.

Mia zia intelligentemente non mi brontolò, fece finta di credermi.

Mi mancava tanto mia madre e la mia casa.

Quasi Natale

E’ quasi Natale, Raga…….! – di Rossella Gallori

Incontro

Uscita presto, imbacuccata, un cappello che mi copre la fronte, un golf che pizzica, le calze di lana, che erano anni che non mettevo, stentano a star su, elastico molle, ciccia superflua….cammino lentamente, per più motivi: la fatica, la mancanza di voglia, la paura di scivolare su questa poltiglia giallastra, che prima della pioggia era un magnifico (o quasi) tappeto di foglie autunnali, croccanti e molto meno pericolose, la sensazione che anche il contapassi si sia rotto le palle di accompagnarmi in queste escursioni così brevi ed inutili per salute e sport.

Mi fermo un attimo, il naso gronda, frutto maturo di un -2, regalo di oggi, mi cadono i guanti vezzosi e poco pratici, alzo gli occhi al cielo, ma non proprio, la sciarpona  artigianale immobilizza,   in parte, il collo…..ti vedo, un tuffo al cuore mi scalda, quasi cado, mi nascondo dietro un camion del Covi, poco profumato, ma protettivo…

Stento quasi a riconoscerti: invecchiato appesantito, accartocciato, non seduto, sulla panchinetta bronzo, alla fermata del bus Rocca Tedalda 3, la barba ingiallita, trascurata ed esageratamente lunga, anche la giacca che ricordavo, sembra non appartenenti più,  lisa e stretta, bottoni ciondolanti e precari, il cappello che tanto amavo è solo un fungo senza vita, che dispiacere vederti così, certo da lontano non colgo il tuo sguardo e ringrazio i mie occhi astigmatici che non colgono i tuoi occhi spenti e tristi. Ricordo che viaggiavi con zaini meravigliosi firmati e capienti, ora scorgo un misero trolley con una ruota sola, dall’aspetto vuoto….

Dietro di te, una vecchietta curva e malmessa, pezzola in capo, gonna spiegazzata, forse  non siete insieme ma sicuramente vi conoscete.

Che delusione stamani, i ricordi, spesso, son più belli della realtà, ti ricordavo forte, pimpante, dalla voce poderosa, nel tuo oh oh oh…invece, due anni di merda ti han distrutto, spiaggiato tra gente che fugge da se  stessa.

Se frugo nella memoria, ricordo  perfettamente il periodo in cui ti ho odiato, non fu reato, semplicemente rancore, rammento voci: Babbo Natale…..Non porta niente, non ci sono soldi!!

Il mio  primo pensiero su di te fu : vestito di velluto rosso, occhi buoni…..pieno di doni…e a me nulla..?? Stronzo e classista, ciccione inutile…fascista camuffato. Non si fa così!

Ora, dopo due, tre vite, ho fatto pace con te, ed il vederti così mi intenerisce, prendi il bus, forse ti sei mangiato le renne e venduto la slitta, nella valigiuccia porti bollette, tamponi e richiami….finiti i bei tempi eh Natalino?

La Befana che è con te forse è tua moglie da sempre, anche lei non mi sembra messa bene, ma colgo in lei meno traumi, lei è sempre stata “un passo indietro” e chissà che non ti superi, come merita ogni donna, che non compri una crema miracolosa, due cenci alla Upim, un body che la raddrizza un po’ per poter camminare fiera per strade comode senza cercar scorciatoie del c……o in camini stretti e puzzolenti. Porgendo la mano a donne sole, infangata di cattiverie…

……il camion del Covi, ha acceso il motore, strano ero così assorta, che manco ho sentito chiuder lo sportello e visto la tuta bleu accessoriata di occhi in tinta, spalle forti, sorriso sfacciato….una volta avrei fatto la ola per tutto questo…

Mi muovo, è arrivato il tuo 14/ Santa Maria Novella…sei salito con difficoltà,  la Befana è stata aiutata da un giovane palestrato, che sia segno di cambiamento?

Mi muovo verso un caffè caldo, in piazzetta di Rovezzano, dove c’ è un albero senza palle offerto dal comune, che fa notizia…l’ hai visto? Ma l’ anno scorso che c’era? Quanti soldi buttati via! “o unnera meglio se riparavan due o tre buche…”

Entro al calduccio, tolgo il cappello, spero di non aver preso il puzzo di bottino dal camion ….qualcuno nota la mia aria più stravolta del solito:

Che ti è successo Madama?

Ho visto un fantasma!

Ma chi, il vecchio Galli?

No, rispondo incerta ed ancora frastornata.

Allora, qualche vecchio fidanzato (e qui ridacchia il barista)

No, ho visto Babbo Natale, alla fermata del tram, c’era anche la Befana..

Il silenzio mi colpisce, cosa ho detto di male?…perchè mi guardano così?.

Qualcuno mi porge una sedia, la brioche ed un caffè….una voce alle mie spalle gracchia: oggi unnè giornahaaaaaa!!

Il rumore di un’Ape del Comune di Firenze, piena di palle mi impegna in altre considerazioni, è l’inizio di un giorno….ed è quasi Natale…..

Anni: 2016 e 1966 – Anna

Cinquanta anni (e oltre) di amore – di Anna Meli

2016      1966

            Il 2016 fu per me anzi, per noi due, un anno di arrivo. Passo dopo passo, sempre per mano, eravamo arrivati al 50° anniversario di matrimonio senza accorgersene.

            Due figli ormai grandi con la loro vita, cresciuti insieme. Mille impegni da dividere con il lavoro e preoccupazioni alle quali non eravamo abituati uniti anche a gioie e a voglia di farcela insieme.

            Quel giorno 22 settembre fu gran festa di amici e parenti che si congratularono con noi  rendendo il tutto bello ed emozionante. I nostri nipoti resero particolarmente vivace l’atmosfera e ci regalarono tutto il loro affetto con quella gioia leggera e spensierata propria dei ragazzi, scherzando  ed improvvisandosi in varie macchiette.

            Ricordo poi che finita la festa, rientrammo a casa felicemente stanchi e frastornati da tutti quegli auguri, baci, abbracci. Sedendoci  sul divano ricordammo alcuni episodi della nostra vita , e fu come tirare una riga alla fine di una lunga somma di anni. Da lì saremmo ripartiti. Purtroppo non è stata la ripartenza che volevamo. Unica consolazione l’amore che ci aveva sempre unito.

            Ci sposammo il 22 settembre 1966. Eravamo giovanissimi 20 anni io e 25 lui e, quell’anno di gioia per noi non lo fu altrettanto per Firenze. Ricordo che rientrati dal viaggio di nozze, incominciò a piovere per giorni e giorni, sembrava non voler smettere più.

            A noi non dispiaceva più di quel tanto perché vivevamo come in una bolla di spensieratezza, anzi il ticchettio della pioggia e il vento rendeva più intimo il nostro stare insieme nel silenzio della nostra casa.

            Poi improvvisamente un mattino di festa (4 novembre), colpi forti e ripetuti alla porta d’ingresso ci svegliarono dal sonno

– Chi sarà a quest’ora? – Accendo la luce, ma la stanza rimane buia. Non c’è corrente elettrica. Mio marito, infilate le ciabatte si precipita ad aprire e…

            I miei parenti che abitavano alla Nave a Rovezzano erano lì stravolti , bagnati e infreddoliti con le lacrime agli occhi. L’Arno aveva superato gli argini invadendo tutto e loro avevano fatto appena in tempo a scappare. Tutte le loro cose erano rimaste sott’acqua.

            E fu così che per un breve periodo, casa nostra divenne anche casa loro.

Anni: 2016 e 2017 – Sandra

Anni difficili – di Sandra Conticini

Faceva ancora parte di quegli anni molto impegnativi che ho trascorso. Divisa tra lavoro, casa, figlia, badanti, spesa. Ero sempre con le lacrime a fior di pelle, agitata, l’ansia da telefono…quando suonava avevo paura a rispondere.

Raramente prendevo  qualche spazio per me, ma il senso di colpa mi divorava.

Quell’estate non finii neppure i miei pochi giorni di ferie che negli ultimi anni facevo e  tornai in fretta e furia dal mare perchè la mamma da giorni non mangiava e non parlava. Ricordo che avevo fretta di tornare, ma quel viaggio diventò un’apocalisse, perchè trovai un incidente ed arrivai da lei alle due di notte, ma naturalmente dormiva. La mattina quando ritornai a casa sua aprì gli occhi e iniziò a parlare solo con me, ed allora capii che lei si era accorta della mia assenza anche se telefonavo tre o quattro volte al giorno.

Verso fine anno arrivò la notizia che dovevo scegliere, si fa per dire, se andare o meno in pensione. Comunque la scadenza era a fine gennaio, quindi l’anno nuovo mi avrebbe portato consiglio.

2017

Il 2017 iniziò il mese di gennaio con questa decisione che mi torturava, qualunque cosa avessi deciso, non ero contenta. Il 31 gennaio, giorno di scadenza per la domanda, decisi per la pensione, perchè rimanere non mi avrebbe fatto sentire a mio agio.

Poi arrivò febbraio e la mia mamma mi lasciò e, mentre all’inizio mi sembrò una liberazione, ancora mi manca.

A marzo si laureò mia figlia, e lì cominciò un po’ di discesa.