Arancio

Contropelo – di Stefania Bonanni

Ti accarezzo sulla testa, ed i capelli morbidi seguono l’indole delle loro onde, la carezza scivola e si arrende sulla fronte morbida.

Molte carezze, tu ti allenti, ti allunghi. Poi inverto il tragitto: dal naso alla sommità della testa, e quei morbidi riccioli, contropelo, si rizzano in una crestina da gallettino di nuova covata.

E ti parlo, e so qual è il verso giusto del pelo, per farmi ascoltare, per farti ridere. Piccolo lupo, già con un bel contropelo.

Nero

Buio assoluto – di M.Laura Tripodi

La villa del ‘400 era immersa nell’oscurità e nella nebbia.

La strada principale, lontana, rimandava echi confusi di auto frettolose.

Sullo sterrato  riecheggiavano passi,  come se milioni di sassolini avessero cadenzato il ritmo di una clessidra.

La luce fioca di lampioni sudici accompagnava sul viottolo un’ombra ingigantita.

Forse una civetta si stava lamentando, chissà dove.

La costruzione apparve all’improvviso, massiccia e poderosa. Tutto intorno era tenebra, ma i cipressi svettavano verso il cielo con le loro sagome scure, ancora più buie del buio.

Solo una luce in quell’immensa facciata.

Sembrava tremolare sollecitata dal calore di un camino acceso.

Quasi  fugace una sagoma si aggirava nella stanza , dolce e inquietante, come una solitudine insufficiente.

Azzurro

Silenzio – di Carla Faggi

C’è un silenzio incredibile. I pensieri sono lenti, molto lenti, non fanno rumore, solo a tratti quando diventano determinati e brevi sembra che sfondino le orecchie. Ma è solo un attimo, poi di nuovo il silenzio, lento.

Attorno alla casa tutto è ovattato, i passi sono come i suoi pensieri, lenti e silenziosi.

I due grandi faggi sembrano sentinelle. Non si muove una foglia, i rami quasi non respirano, ma sono là, tenebrosi e guardinghi.

La casa è grande, negli innumerevoli spazi i suoi passi sembrano sprofondare morbidi. Si muovono incerti, oscillano. I pensieri li guidano, cercano un abbraccio, un silenzioso abbraccio.

Infatti qua solo la gestualità può rompere la quiete, e allora gli si va incontro, attratti, aspirati.

Poi l’abbraccio arriva e con l’abbraccio anche la luce, il respiro, il suono.

È il pianto di un bambino che nasce!

Trasparente

Trasparente – di Simone Bellini

Sbirciò attraverso le finestre in tutto il perimetro della casa, toccando quelle mura gelide e umide della notte.

Niente ! Non la vedeva ! Di lei non v’era traccia, ma era sicuro fosse lì, non sapeva come , ma percepiva la sua presenza.

Le sue mani affondarono nel muro, lo attraversò con tutto il corpo e stanza per stanza la cercò. Seguendo la sua percezione arrivò nella unica illuminata presentandosi difronte a ser Clifford che, frenetico, rovistava nelle cassette della scrivania cercando di cancellare le tracce di sangue in ogni dove.

Oltre la scrivania il corpo di lei !

La sua anima lo chiamava, era lei che lo cercava per colmare la sua solitudine insufficiente.

Bianco

CONTROPELO – di Anna Meli

            Ero molto piccola. Ricordo con piacere l’unico nonno che conosciuto, persona dall’aspetto severo ma con un carattere dolcissimo.

            A quel tempo, faceva venire una volta alla settimana il barbiere a casa perché gli curasse barba e baffi.             Era un’usanza che si ripeteva ogni volta come un rito. Seduto, fermo come una statua di cera, si faceva mettere intorno al collo un grande asciugamano bianco che lo ricopriva quasi totalmente lasciandogli fuori solo la testa rotonda e piccola. Aspettava senza batter ciglio.

            Il barbiere, tale Giulio, gli insaponava ben bene la faccia, affilava il rasoio e, da consumato artista, iniziava il lavoro con cento mosse studiate e veloci. Io piccola e timorosa avevo il terrore di veder apparire alla superficie della schiuma qualche macchia rossa di sangue. Difficilmente accadeva. Per questa remota possibilità il barbiere aveva a sua disposizione una specie di stick che strofinava in quel punto fino al cessare del sangue. Così poteva riprendere il suo lavoro agitando il rasoio….pelo e contropelo, pelo e contropelo, quasi seguendo il tempo di una musica solo a lui conosciuta.

Bianco e nero

Il diario mai scritto – di Rossella Gallori

…ci sono diari che non  ho saputo scrivere…ed altri che non ho voluto…disegnare…

Marzo 1959 forse i primi giorni di marzo…forse gli ultimi…

È  notte, forse per poco ho anche un po’ paura, il babbo è stato portato via dalla “ misericordia vestita di nero” senza sirena…per non svegliare la bambina…La mamma non si è  accorta che son sveglia ma tengo gli occhi chiusi, strizzati a forza …quando  la porta si chiude mi alzo, il corridoio mi sembra interminabile , mi allontano scalza e spettinata anche nel cervello, davanti alla porta sprangata  della nonna, penso : ma come si fa a dormire quando tuo figlio se ne va …e forse non torna…

Cerco un altro rifugio…  trovo solo un piccolo “ porto” è il letto di mio fratello più grande … mi ci infilo…lui sa di Nazionali senza filtro…mi spinge fuori…d’ altronde non ci voglio stare, voglio il profumo delle Turmac… torno nel lettone, vuoto, abbraccio il cuscino che sa di “ lui”  pianto e moccio sono  una unica lacrima, ho voglia di urlare… non lo faccio, mi metto su un fianco , rannicchio le gambe… a babbuino, penso …o a babbino… non lo so.

25 dicembre 1960

Oggi è Natale, lo so bene, l’ albero è miserello ed è già tanto se c’è, sta ritto per l’appunto, la carta di giornale ficcata a forza nell’orcio, che è un portaombrelli, pende un po’, ho fatto colazione da sola, la mamma è a San Luca, questa storia dura da mesi,  pranzo da quelli di sopra, tanto cibo… nel pomeriggio ascolto la radio, adoro le commedie, quelle voci mi fanno compagnia, mi accoccolo sulla poltrona gigante di “pelle  sbucciata”  ritrovo la mia posizione fetale, ho perso il cordone ombelicale, e forse non l’ ho mai avuto….più che a “babbuino” sono a scimmia persa.

Pasqua  1961

Oggi son riuscita a fare diverse cose, nell’ordine: rompere lo specchio della toilette della mamma…tagliare tutti i capelli alla mia bambola preferita…vomitare…piangere… rifugiarmi nel vecchio tappeto polveroso abbandonato in cantina, mi ci sono arrotolata dentro, ho respirato forte, starnutito tanto, trovato il mio albero che non c è , ed abbracciata a quel tronco immaginario sono   diventata una “ babbuina orfana” più orfana che scimmietta.

1964 un giorno che non so

Oggi quando torna la mamma glielo  dico, giuro che glielo dico: basta lavoretti fatti di buio, con quella raphia che ti taglia le mani…la scuola è finita vado io a lavorare fuori….spero di trovarlo più tardi possibile, mi piace stare allo Stibbert a scribacchiare  appallata sull’ erba….

1968 estate

Sono innamorata, in modo più fisico che mentale adoro abbracciarlo, attaccarmi a lui,  non importa se non vedo il suo viso, sento il suo calore e mi basta annuso la sua nuca, siamo un corpo solo…non importa che sia per sempre.

1974 maggio? Si maggio

 Sono 10 anni che lavoro, ho respirato più polvere qui, il cascame, il fioretto, il kapok han riempito il mio naso spero poco i miei polmoni…ripenso al tappeto sudicio della mia infanzia e forse un po’ lo rimpiango, oggi mangio con la mamma siamo due commesse di corsa, una frittata e nel lettone a babbuino, anche solo per 20 minuti, i sottabiti neri  identici, le gambe nude sotto la coperta di piquet  trapuntato che pesa più di un coltrone…ci accomuna la solitudine, i miei fratelli son sposati da tempo …penso:  domani le dico che mi sposo a settembre, così mi levo di torno.

Comunque l’abbraccio, in fondo  non ha fatto una buona vita, forse senza di me le sarebbe andata meglio, forse.

Aprile 1983

Ho sempre mal di stomaco, vomito spesso, non amo più il caffè,  che è sempre stata la mia passione, ho il viso coperto di bolle…qualcuno mi dice: mica sarai incinta? Chi io? Sieeeeee

Fine aprile

Si sono incinta ! Dopo quasi 10 anni non ci pensavo più, saremo in due su questa barca, pardon in  tre, rifletto: sarà un maschio e lo chiamerò Daniele…

Dicembre 1983

È una femmina!  l’ ho chiamata Alice, nelle numerose ecografie mi voltava le spalle….Speriamo non sia per sempre.

Giallo

Farfalle – di Vanna Bigazzi

Nel pomeriggio mi sono incontrata con un’amica da sempre. Scambi interessanti. Confidenze. Incontri che lasciano una traccia particolare: uno di quegli appuntamenti dai quali ne esci sempre un pochino modificata: tante parole ma anche pause in un equilibrio di espressione e silenzio. E’ bello parlare, far crescere qualcosa che possa volare. Quando ci sentiamo chiusi nel nostro bozzolo, può darsi che debba venir fuori una farfalla. Il tormento nasconde sempre una metamorfosi e spesso il linguaggio ha questo potere. Bisogna rinascere, se necessario, per questo cercare l’oblio: dimenticarci del passato, per far riaffiorare le farfalle che esistono in noi.

Rosso

PELO E CONTROPELO ovvero: a ognuno il suo verso – di Elisabetta Brunelleschi

Se mi accarezzi in contropelo

io mi irrito,

ma quando vai per il verso giusto

io mi distendo.

Se ti accarezzo in contropelo

io mi pungo,

ma la mano che segue il tuo verso

ne gode la pace.

Nel tuo verso c’è spesso il silenzio

che cerca riposo.

Nel mio verso ci sono i bisogni

di strade sicure.

Insieme andiamo per onde ribelli

per ore,

per giorni.

Insieme andiamo in lisci velluti

per ore

per giorni.

Sete fruscianti presa avvolgente

sempre cercando

il verso più giusto.

Grigio

CONTROPELO – di Nadia Peruzzi

Ci siamo rivisti in una mattina di neve, di grigio e di nebbia da tagliare a fette.

È bastato un attimo e tutto il non detto, il non risolto è tornato ad alzarsi fra noi come un muro invalicabile.

Sei sempre il solito, non sei cambiato.

Non è mai stato facile vivere con uno che prendeva tutto contropelo.

Qualunque cosa dicessi o facessi, sempre lì a spaccare il capello in quattro con ostinazione, supponenza indisponente, insofferenza verso gli altri, me compresa.

Il contropelo mi va stretto ormai.

L’ho superato .

Mi piacciono le stoffe fru fru e clocloanti.

Cerco leggerezza, emozioni positive. Tu non sapresti proprio dove andare a trovarle.

Sono stata fortunata ad accorgermene in tempo.

Istantanea

Corse tra gli agrumi – di Patrizia Fusi

Il cucciolo corre veloce nella viottola fra gli agrumeti, Marco gli corre dietro facendo finta di prenderlo, gettandogli un legno. Dietro di loro c’è nonno Mario che li segue lentamente, magro e curvo come un chiodo usato, si appoggia al bastone; essere in quel campo con suo nipote e Lampo, vederli giocare insieme, sentire l’aria tiepida che avvolge tutto, odorare il profumo degli agrumi in fiore, gli fa pregustare il piacere del miele che verrà e che già   fa sentire in bocca il suo profumo d’oro.

Stoffe come matite

Raccontarsi avvolti di stoffe – di Laura Galgani

Raccontarsi avvolti di stoffe è un sogno che dura una vita.

Le stoffe ti vestono, ti accarezzano, ti danno una forma e dei colori, parlano di te anche quando non vuoi. Ti descrivono direttamente e indirettamente: come Albertine, a cominciare dalle punte dei suoi capelli, più scure della chioma, come un tessuto sfumato in fondo che fa la gonna vagamente zingaresca, e forse nemmeno le piace granché. Ma tant’è, Albertine è lì, coi suoi tessuti ora lisci ed evanescenti come seta, ora corposi come lana, ora ruvidi come il saio di un frate francescano, ora impalpabili come lo strascico di un abito da sera color grigio perla, morbidissimo. Cosa possono raccontare di lei tutte queste stoffe, se non la sua voglia di sognare, di raccontarsi, di stupire…

Anche la sua maestra di cui conservava con cura un netto ricordo, avrebbe voluto stupire e raccontare con le stoffe come faceva coi gessetti, ma non poteva. Il suo mestiere le imponeva di obbedire alla decenza di un’uniforme prestabilita, decisa dal preside e passivamente indossata da tutte le insegnanti: gonna di flanella blu, camicetta bianca dal colletto tondo, golfino grigio di lana che le dava il pizzicore e fiocchino rosso sotto il colletto. Coi gessetti invece creava meraviglie e chiedeva ai suoi bambini di fare altrettanto con le matite. E allora erano paesaggi, fiori, nuvole, case, vestiti, animali a più non posso, e i volti dei bambini ridenti e soddisfatti. Tanto che a ricreazione molti, in cortile, si lasciavano andare ad una corsa senza meta, così, solo per sentire il proprio corpo gioire del movimento sospinto inconsciamente dalla vita che esplodeva nei colori usati in classe con la maestra e i suoi gessetti. 

Se il Principe non bacia più Cenerentola

Dare forma al vuoto – di Gabriella Crisafulli

Amava camminare da sola nelle stradine isolate, alla ricerca di quelle emozioni che all’improvviso donano il caso e la natura.

Un po’ ingobbita, con la pelle plissettata dall’età, il colorito spento dalle troppe medicine e quel corpo che reggeva a fatica un’andatura regolare, si muoveva con la gioia di godere nuovamente del suo passo.

Non era contenta, no, non lo era, ma si sentiva felice: era entrata nel quarto tempo. Doveva coglierlo come un dato di fatto.

È vero, non faceva una corsa da tanto e la bicicletta era un miraggio forse impossibile, ma fermarsi sarebbe stato come cancellare tutto quanto.

Camminare l’accompagnava verso uno stadio di meditazione sempre più profondo in cui la mente si alleggeriva dei ricordi.

Nel terzo tempo aveva raggiunto la nota più alta del pentagramma: era stato allora che il colpo improvviso l’aveva precipitata a terra.

Cadendo si era trascinato dietro il castello di carte costruito negli anni, vivendo sopra le righe.

Era arrivata lassù grazie a lui: l’aveva presa cenerentola e ne aveva fatto una regina. 

Adesso però si trovava a terra, nel fango e non sentiva suonare i campanelli alle briglie dei cavalli che venivano a portarla via. Non c’era nessuna fata cicciottella e bonaria che trasformava la melma in oro zecchino. Non c’erano i topini solerti e chiacchierini che si davano da fare per aiutarla. Era sola: tentava di rialzarsi ma scivolava. Non sapeva come mettere in equilibrio tutti i pezzi sparsi dentro e fuori di lei. 

Le passava davanti agli occhi il film di quella villa del 500 al cui interno due ordini di arcate incorniciavano il salone centrale. A testa in su, aveva ammirato quella corte, girando a tutto tondo. Le prese l’antica vertigine da cui era stata avvolta e trasportata nel mondo dell’inimmaginabile dove tanti sogni diventavano realtà.

… ma era passata dalla fortezza alla reggia. C’era qualche problema, è vero, nel prima e nel dopo: la vita sociale aveva delle regole e dei cerimoniali di cui non si curavano. Credevano di bastare a sé stessi.

Così la realtà aveva presentato un conto pesante: non serviva più dire “Abra- cadabra”.

Nella melma era e nella melma rimaneva.

Il vento d’autunno che si faceva sentire nella stradina stretta e solitaria, con una folata più forte delle altre si portò via quei pensieri sgorgati dal fardello e si sentì più leggera.

Adesso era arrivato il momento di trovare un’idea che l’aiutasse a coniugare i passaggi della sua storia con quella che era adesso. Le ci voleva uno di quei colpi di genio che le avevano risolto tante situazioni di vita pratica e che adesso doveva servire a dare forma al vuoto.

Sentiva aleggiare intorno la figura di quel ragazzo bello, dalle mele sode, che odorava di sottobosco.

Ma era il momento di tornare nella casa abbandonata a intrecciare scuro e chiaro, lana e seta, morbido e ruvido, … per lasciar andar via in pace il suo amore.

Un quadro d’autore

LE RICAMATRICI – di Anna Meli

            Era bellissimo e pittoresco il borgo medievale che si offriva alla vista del visitatore dopo aver percorso quel lunghissimo ponte che lo univa alla “terra ferma”. Non si finiva mai di camminare per arrivare fino a là. Procedendo, si aveva l’impressione che quel gruppo di case attaccate le une alle altre su quella rocca, si spostassero come a dispetto, rimanendo unite in un abbraccio, quasi a difesa di un geloso segreto.

            Lì, fra quelle stradine strette in salita, interrotte da scalette che conducevano alle abitazioni adorne di gerani e bouganville, il tempo sembrava essersi fermato come per magia.

            I giovani avevano preferito la città, più comoda e con più opportunità di lavoro. I pochi artigiani rimasti vivevano principalmente sul turismo e i vecchi non volevano assolutamente saperne di muoversi dalla loro terra.           

            In un angolo riparato da spifferi di vento ed esposto al sole, nelle giornate tiepide, si riunivano le ricamatrici. Erano tre vecchie compagne e quasi ogni giorno si ritrovavano in quel cantuccio a lavorare. Le dita scorrevano veloci sulle stoffe leggere e per incanto davano forma a fiori intagliati, ghirlande variopinte, smerli di rifinitura. E parlavano senza quasi mai alzare la testa raccontandosi storie passate e chiacchiere del paese.

            La signora che tutti chiamavano Nanda, la più brava fra loro, era quella che insegnava. Le capitava spesso di pungersi con l’ago e in quelle occasioni per non macchiare la stoffa si portava il dito alla bocca e succhiava la goccia di sangue; si accertava di non macchiare e riprendeva il lavoro. In quei momenti mostrava il viso in tutta la sua espressività: i capelli divisi sulla testa e raccolti in una treccia ben stretta, magistralmente appuntata dietro, gli occhi scuri piccoli ridenti e furbi segnati da rughe sottili, il naso appuntito e affilato, la bocca con labbra appena accennate in un ovale quasi perfetto. Le altre due lavoravano a testa bassa: sicuramente più giovani  sembravano essere sorelle, ma, di certo, meno espressive e importanti.        

            Il gruppo nel suo insieme, visto sullo sfondo luminoso dai caldi colori settembrini, poteva essere ispirazione per il quadro di un pittore.

Pillole sul comodino

Richiami – di Chiara Bonechi

Ogni tanto partivano, di domenica, da mattina a sera per andare a trovare i parenti di Arezzo, così chiamavano quel gruppo di persone legate da legami diversi, un po’ zii, un po’ cugini, fratelli, nipoti e nonni.

Abitavano in casette vicine, per lo più terra tetti, l’agglomerato in quel piccolo paese nella campagna di Capolona apparteneva praticamente a loro.

Erano molto attesi i due fidanzatini, un diversivo in quella domenica che altrimenti sarebbe stata uguale agli altri giorni.

Il primo parente che incontravano era di solito lo zio Ampelio, lo scorgevano seduto sulla panchina di fronte alla porta di casa lungo la strada.

Era alto e magro, pochi capelli, il volto solcato da profonde rughe dovute agli anni, alle fatiche, al sole, alle troppe pillole che da tempo decoravano il suo comodino, ma la cosa che più colpiva di lui era lo sguardo.

Gli occhi così profondi con le ciglia ancora lunghe da cerbiatto e le sopracciglia folte e scure difficilmente resistono fino a quell’età.

Passavano a salutare da un parente all’altro, li incontravano tutti ed era divertente osservare quei volti dove ritrovare elementi di somiglianze lontane.

Poi il desiderio di vedere la zia Poldina si faceva prepotente, non era necessario suonare il campanello in casa sua, salite le scalette bastava spingere la porta e chiamare, lei appariva.

La tavola apparecchiata e il profumo di pollo arrosto annunciavano che presto tutti si sarebbero seduti per condividere quel pranzo domenicale non prima però di aver incontrato anche lo zio.

Erano questi giovani nipoti a dare un po’ di gioia a quella coppia da tempo afflitta da silenzi e solitudine, erano le loro voci a tirare fuori dalla camera lo zio e a sentire che ancora qualche interesse aveva per la vita.

E la zia era felice, raccontava della sua settimana di lavoro da insegnante in una scuola elementare fuori Arezzo, delle confidenze fra colleghe, di curiosità sugli alunni, poi l’interesse era per lo zio, chiedevano della nuova cura e delle medicine, forse solo lo sport e le corse in bicicletta  lo facevano sorridere e ricordare.

Ed eccoli a tavola, si sedevano ma lo zio non partecipava al pranzo, rientrava in camera, si sentiva stanco, avrebbe mangiato più tardi.

I sorrisi dei due giovani si affievolivano, sulle loro labbra un’ombra di imbarazzo ma la zia Poldina, quella piccola donna dalla grande forza, aveva tessuto trame di seta e lana talmente strette e resistenti che difficilmente si sarebbero sgranate e dopo un sospiro riusciva a servire il pranzo col sorriso.

Ed erano, come le altre domeniche nel tempo, tagliatelle al sugo, pollo arrosto e zuppa inglese.

Pagliuzze dorate

I suoi occhi dorati – di Mimma Caravaggi

Non ricordo il suo nome, ma ricordo lei, i suoi occhi particolari, chiari e brillanti con pagliuzze dorate che ricordavano la coperta country della nonna con tutti i colori vivaci un po’ autunnali e la stoffa liscia come la seta, morbida ma a tratti rugosa, per il merletto applicato. Ricordo il suo carattere altrettanto eclettico ma di persona semplice e gran lavoratrice. Era con noi da tantissimi anni e, guardandola bene, quel giorno fantastico, si vedeva che era ingobbita ma il suo sguardo, i suoi occhi non erano cambiati. La sua dedizione di tanti anni passati con noi non l’avevano resa arida e nervosa o insensibile anzi, il suo carattere seppur fermo si era addolcito e noi eravamo tutti li presenti a festeggiarla e, come al solito, lei ci era molto riconoscente.

L’Omino carbon fossile

L’omino risecchito – di Stefania Bonanni

In quella casa abitavano l’omino e la moglie annuvolata. Sordo lui, sorda lei, avevano smesso di parlare,  tanto era inutile. Rumori però se ne sentivano tanti, grandi sbatacchiamenti di porte e finestre, rotolanti che anziché rotolare franavano sulle serrande, quando venivano chiusi. Smozzichi di bestemmie  biascicate, quando lei spingeva l’omino sulla sedia, in giardino, dove lui rimaneva a giornate intere, con la faccia raggomitolata intorno alle fessure che un tempo erano occhi. Stava lì,  dall’autunno in poi con una copertina sulle gambe, per il resto dell’anno sembrava non sentire ne’ il sole feroce, ne’ quelle pioggerelline  uggiose che a volte duravano giorni, si spostava solo un po’ più sotto la tettoia.

Stava all’angolo della casa, così non gli sfuggiva né  chi passava dalla strada in salita, ne’ chi arrivava da dietro. E a tutti, proprio a tutti, riservava un grugnito, un biascichìo che, anche a non sapere cosa significasse, faceva capire benissimo il senso cattivo e di malaugurio.

I bambini avevavo paura. Tutti giravano la testa dall’altra parte, nella speranza di evitare di incontrare quegli occhi di tartaruga.

Quanti anni avrà avuto? I bambini di sotto dicevano più di cento. Un highlander, a un certo punto era  diventato un sasso, un pezzo di carbon fossile, un immortale. Giravano leggende: che avesse fatto la marcia su Roma era sicuro, ma a farsi prendere un po’ la mano si poteva anche credere avesse fatto le guerre “di’ Risorgimento”.

Occhi grandi

Occhi grandi – di M.Laura Tripodi

Aveva occhi grandi e nerissimi. Il signore del piano di sopra diceva che erano così scuri perché non se li era mai lavati. E lei scoppiava a piangere umiliata.

Seduta davanti alla finestra del salotto si osservava le mani un po’ raggrinzite e percorse da vene violacee.

Adesso i suoi occhi erano piccoli e avevano perso tutta la loro luminosità.

Rifletté che da  giovane erano stati forse la sua unica attrattiva. Peccato non essersene accorta.

Occhi neri, occhi belli che avevano guardato tanto, ma cosa avevano realmente visto?

Si ricordò di sua madre seduta proprio dove era lei in quel momento. Rammendava o cuciva o ricamava e lei si alzava sulla punta dei piedi per guardare fuori, attratta dal  rumore  di qualcosa che strusciava contro l’asfalto. Bimbi si lanciavano urla di sfida rannicchiati su una specie di tavola montata su quattro ruotine. Volava anche qualche parolaccia mentre ognuno di loro cercava di arrivare per primo in fondo alla strada.

I suoi occhi però raggiungevano a mala pena il davanzale e la scena si esauriva in un cerchio ristretto, senza conclusione.

Invece sentiva l’arrivo delle signorine che andavano a prendere il filobus. Sì, le sentiva proprio nel senso che oltre al rumore dei loro tacchi alti le giungeva anche l’aroma del loro profumo.

Era passato tanto tempo. La casa era molto diversa e allo stesso tempo uguale.

Pensò a tutte quelle stagioni trascorse, alle persone che erano salite e scese dal suo treno.

Si sorprese  a preoccuparsi che quegli spazi e quelle cose  dovevano essere sistemati con ordine, per quelli che sarebbero venuti dopo.

Un’ambulanza si annunciò con il suo ululato e lei pensò alla sirena della FIVRE che suonava alle tredici in punto e somigliava stranamente all’urlo sguaiato della signora del piano di sopra che dal balcone richiamava il figlio.

Massimooooooo! Vieni a mangiareeeeeee!

Un giorno dopo l’altro

Un giorno dopo l’altro – di Carla Faggi

Chiamiamolo così: “Pippo”…..e la storia cominciò.

Il Pippolotto peloso si alza dal divano con la solita espressione stanca e annuvolata, si avvia ed esplora. Annusa l’aria, un profumo di polpette gli indica la via, scodinzola veloce e sembra dire: “arrivo!”

E infatti arriva!

C’è Sanà la vicina che sta cucinando le falafel, polpette di ceci, ma qualche decina di quelle prelibatezze sono di carne, e Pippoletto sa che sono per lui.

Con Sanà infatti c’è intesa, lei lo guarda, sorride, difficile indovinare chi fra i due scodinzola di più! Insieme sembrano formare un tappeto di fibre incrociate, seta e lana. Pippetto è la lana.

Poi, dopo gli abbracci, le coccole e la giusta impolpettata, i due, dopo essersi guardati negli occhi come a cercare l’intesa della partenza, scattano in avanti e si tuffano in una corsa liberatoria. Via di corsa verso i prati, gli alberi, i cespugli. Via verso la gioia di una amicizia profonda, verso la spensieratezza e la vita.

Poi la giornata finisce. Pippetto rientra, si sprofonda sul divano. E poi…domani vedremo.

L’ indomani arriva e Pippolo con il suo solito fare annuvolato si alza stancamente dal divano. Annusa l’aria e…latte, biscotti…si! si può fare.

Eccomiiii! La vecchia signora lo accoglie festosa, sembra lo stia aspettando.

Slurp, slurp, tra una leccata al latte (si sente tanto gatto in quel momento) ed una alle mani della signora si prepara alla giornata. I due con tacita intesa si avviano a passeggio. Pippolino per stare al passo usa sempre la scusa di una annusatina ad una aiuola o una demarcazione del territorio.

Reprime la sua curiosità e l’istinto all’esplorazione pur di non staccarsi mai dal fianco della sua signora. Ogni tanto una sosta ad una panchina perchè gli acciacchi (non suoi naturalmente) sono tanti. Ma poi si riparte. Lui lo sa, la vita è fatta così, ogni tanto ci si riposa e poi si riparte.

La vita è una trama di tappeto, e lui oggi si sente più seta che lana.

Anche oggi la giornata finisce, Pippetto si risprofonda sul divano, e poi… domani vedremo a chi toccherà…..

Non mi vedo con niente!

Le brutte figure – di Sandra Conticini

Aveva sempre quella paura: fare brutta figura e non essere all’altezza.

Non era diversa dagli altri. Io glielo ripetevo continuamente, ma non capiva. Ogni volta che invitava qualcuno a casa,  puliva e lucidava sul pulito. Le cose sparivano e non si ritrovavano per giorni, sempre con l’idea di far trovare la casa in ordine. Per non parlare poi  di pranzi o cene. Non sapeva mai cosa preparare e la frase storica era: – Questo sugo è venuto proprio male!

Naturalmente non era vero.

Stessa cosa se doveva andare a trovare amici o dal medico. Pensava di non avere vestiti adeguati,  di dover andare dal parrucchiere, insomma spesso penso passasse da asociale, cosa assolutamente non vera.

Anche quando invecchiando era diventata curva, e sempre di più, perchè la colonna vertebrale aveva ceduto al peso degli anni, il suo pensiero era sempre quello, e diceva: -Ma non posso andare, non mi vedo con niente, non mi sta bene niente e poi ormai, anche i capelli sono tutti bianchi e non ce la faccio ad andare dal parrucchiere, non ho fiato.

Io le dicevo che non si doveva preoccupare, andava bene così. Lei rispondeva sempre nello stesso modo:  – Sapessi quanto è brutto invecchiare!!!

Lasciare le cose a posto

La signora – di Nadia Peruzzi

Tutti la chiamavano “la signora” per quel suo atteggiamento altero e distaccato.

Si aggirava in quella casa spoglia di orpelli, essenziale ma viva.

Era una donna anziana quella che la abitava, eppure la casa trasudava energia e vigore da ragazza, non certo una patina polverosa da storia che si avvicinava alla fine.

Il computer di ultima generazione campeggiava sulla scrivania vicina alla finestra.

I raggi del sole che stava per tramontare colpivano sbiechi una pagina fitta di parole.

Lei attenta rileggeva e si commuoveva per ciò che le era venuto in mente di scrivere.

Era un segreto che si era portata con sé in quel lungo viaggio.

Leggeva con pena, tristezza e forse anche un po’ di vergogna per non aver saputo affrontare le cose nel modo giusto.

Era passato troppo tempo per poter rimediare. Le persone che aveva ferito non c’erano più.

Nel cercare di rimettere in fila e dare un senso ai pensieri e alla sua versione della storia, era doveroso che almeno fosse la verità ad essere centrale nel suo racconto.

Sapeva di non avere molto tempo davanti a sé.

Sapeva che avrebbe dovuto provare a rimettere finalmente le cose a posto.