Il saluto di Cecilia

In tutto c’è stata bellezza.

Ricordate? Abbiamo cominciato così. Con qualche perplessità da parte vostra, con qualche timore perché si parlava, quel giorno, anche di morte. La morte dei genitori, la perdita di un amore….Dove sta la bellezza? avete pensato senza dirlo. Poi piano piano abbiamo capito.

La bellezza sta nella vita che si svolge come un filo silenzioso. Sta nei nostri giorni tristi ma veri, nei rimpianti di giorni “altri” ma nostri, nei resti di amori morti, anche se mai risorti…..

Sta nel sorriso dei bambini con cui abbiamo giocato, in certi attimi rosa come i tramonti sul mare. Sta negli amici che ci conoscono tanto bene da non credere ai nostri abbandoni. Sta nel caffè la mattina che non troviamo coraggio, sta nel cuscino dove ritroviamo vecchi sogni.

Sta qui, la bellezza, nelle nostre piccole cose preziose.

Abbiamo dovuto perdere tutto, tutto insieme per sentirlo davvero.

Ma oggi i nostri tramonti sono più rossi e i canti degli uccelli in giardino più intensi. Più verdi le foglie e i fiori nei vasi…. e più dolci le voci che teniamo nel cuore.

Perché nonostante tutto, davvero……… in tutto c’è stata bellezza

Cecilia

Il saluto di Luca

Gentili Muse – di Luca Di Volo

Da voi gentili Muse

Così prendo congedo.

Lascio ciò in cui credo. 

E non avrò più scuse. 

Amore è.. 

Alba.. 

tramonto…

tortura

barocco enfatico

 crudele  inganno …     

 rosso……

violento… 

scioglitore di gambe……

amore è…..

ho finito le parole.   

A settembre forse

ne troverò dell’altre.

I saluti di Nadia

Cara Cecilia e care Matite – di Nadia Peruzzi

Arriviamo in fondo a questo nostro anno particolare che collocherei a mezza strada fra due titoli di film come “Travolti da un insolito destino“ (nel pieno di una pandemia) e “Un anno vissuto pericolosamente”.

Ancora molto spaesati e consapevoli di non essere sbarcati su un’isola deserta in un mare d’agosto, tantomeno precipitati nelle convulsioni dell’Indonesia del 1965, ma semplicemente in questo meraviglioso e contraddittorio paese, l’Italia, nell’anno di grazia 2020 per di più bisesto. 

A tradurlo in funesto oltre al proverbio, ci ha pensato, chissà se per caso, anche un centenario che avremmo evitato proprio volentieri .La maledetta Spagnola è tornata fra noi con altro nome ma con una virulenza altrettanto devastante e globale.

Come le barche su cui ci soffermammo con Cecilia in un bel pomeriggio abbiamo dovuto riposizionare le vele, trovare nuovi ancoraggi e individuare nuove rotte.

Non è stato facile. Per nulla. Eppure abbiamo saputo riadattarci, rigenerarci, andando a cercare fili dorati, spazi di bellezza e di risposta dentro di noi e dentro il nostro gruppo che si sono poi tradotti in racconti, in parole, musiche, suggestioni e atmosfere.

La nottata non è ancora passata, ma averne passata una bella parte in compagnia, in questa compagnia, a me ha fatto bene.

Un sapere che ci siamo che conforta, aiuta, arricchisce e protegge.

La quarantena è stata fattore di ansia ma anche attivazione di contatti diretti, e ricerca di vie per nuove amicizie e incontri.

I nostri pomeriggi comuni pur fra qualche difficoltà tecnica e necessità di aggiustamenti in corso d’opera, hanno significato una svolta che ha ridato vigore e nuovi stimoli.

L’apertura di un tavolo più ampio anche se virtuale  ha allargato il confine e messo in contatto due gruppi che in precedenza si sfioravano solo e semplicemente al cambio di orario. Gran merito di Cecilia e della sua ricerca continua delle vie del nostro stare insieme che ci ha fatto attraversare al meglio questo mare tempestoso .

Sbarcati dentro le nuove tecnologie chi ci ferma più??

Il periodo è stato e continua ad essere non facile. 

Le Matite con le loro scintille hanno portato più di una luce in un momento che da soli avremmo vissuto molto molto peggio!

Grazie di cuore a tutte le Matite!

UN ABBRACCIO DI CUORE A CECILIA E A TUTTE LE MATITE! 

Nadia

Il saluto di Rossella

AMORE MIO di Rossella Gallori

Ci ritrovammo al solito posto, difronte ad un portone immenso e scortecciato, ci aprì il solito signore un po’ stropicciato, l’ aria assonnata gli conferiva un vago senso di mistero, il suo non fu un proprio e vero saluto, un leggero sorriso, nascosto da una barbetta volutamente trascurata, si affacciò sul suo volto, sembrava ospite in casa sua, nessuno o quasi ne ricordava il nome…

Salimmo, chi a piedi, chi nel grande box doccia che poi scoprimmo essere un ascensore, i più agili, optarono per l’ arrampicata, altri ancora andaron sul tetto per calarsi dal camino…le scale erano senza  corrimano, fragili e pericolose, per molti di noi.

La stanza era così grande da sembrare una piazza, al centro un tavolo rotondo gigantesco conteneva tutte le nostre anime comodamente sedute, LEI sbucava da un foro centrale, la sua immagine riflessa nel lucido dell’ebano, appariva nitida… delicata e  forte al tempo stesso, prese la parola, battendo il piede per terra per avere attenzione

Tacque  anche il silenzio: questa sicuramente sarà la nostra ultima volta, quindi che lo vogliate o no, parliamo d’amore…

Ad ognuno di noi mancò il respiro, il cuore accelerò, qualcuno si asciugò il sudore, due o tre coprirono le lacrime…altri tiraron fuori un sorrisetto cretino

Nonostante il tavolo fosse rotondo  non riuscivo a vedere bene in volto i miei compagni…ne percepivo il profumo, indovinavo i loro vestiti : piccole gonne di maglia, morbidi kaftani, camice firmate, pantaloni fantasia a fiori così grandi da vederne solo uno per coscia…un golfino perbene, uno chemisieur troppo sganciato…giacche da lavoro…

Coraggiosamente presi la parola: senza amore non si vive, ho bisogno di amare ed essere amata,  che scopo avrebbe la vita?

Incalzò il compagno seduto accanto a me: ho amato troppo…poi  si interruppe..svogliatamente

Amo più che altro i miei figli

Ho amato solo lui

Io amo me stessa

Lui se ne è andato, non ho saputo fermarlo.

Credevo lei mi amasse

Speravo tornasse

Il cane è il mio unico amore

Ho sofferto troppo

Ho fatto soffrire

L’ AMORE non esiste

Un’invenzione di Dio

Una maledizione dell’ uomo

Un passatempo

Vivo per i miei amici……

 Amore come amicizia

L’amore non è per i vecchi…..

Le parole si inseguirono, senza mai  scontrarsi, gridarono, risero, piansero, si sfracellarono al suolo come  velivoli in avaria, molte volarono in cielo…

Fuori intanto si faceva buio

Al centro del tavolo LEI non c’era più, in punta di piedi era uscita,   molti di noi si accorsero del rosso fiore poggiato al centro , della delicata scia di profumo che riscaldava l’ aria, un po’ mughetto, un po’ limone.

Ci guardammo e  ci scoprimmo uguali, un gioco di specchi magici mi rivelò un unico volto, un solo sguardo…forse un unico pensiero…parlammo d’amore mentre  scendevamo  le scale tenendoci per mano…..il campanile dell’ Antella scandiva 2020 ore…..

La Matita per scrivere il cielo comincia a salutare

I saluti di Gabriella Crisafulli con le parole di Primo Levi:

Agli amici

Cari amici, qui dico amici

Nel senso vasto della parola:

Moglie, sorella, sodali, parenti,

Compagne e compagni di scuola,

Persone viste una volta sola

O praticate per tutta la vita:

Purché fra noi, per almeno un momento,

Sia stato teso un segmento,

Una corda ben definita.

Dico per voi, compagni d’un cammino

Folto, non privo di fatica,

E per voi pure, che avete perduto

L’anima, l’animo, la voglia di vita.

O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu

Che mi leggi: ricorda il tempo,

Prima che s’indurisse la cera,

Quando ognuno era come un sigillo.

Di noi ciascuno reca l’impronta

Dell’amico incontrato per via

In ognuno la traccia di ognuno.

Per il bene od il male

In saggezza o in follia

Ognuno stampato da ognuno.

Ora che il tempo urge da presso,

Che le imprese sono finite,

A voi tutti l’augurio sommesso

Che l’autunno sia lungo e mite.

(Primo Levi,  6 dicembre 1985)

Parole d’amore per il fico patriarca

Il fico – di Tina Conti

Noi siamo discendenti del patriarca, lui ha avuto una vita piena di gratitudine.

 Nato Fico dottato di qualità suprema, apprezzato  e stimato  per le sue doti

A fine maggio regalava i fico-fiori più belli che si potesse immaginare.

In quantità  esuberante, si potevano consumare con abbinate le perine o il salame, fare  le prime marmellate di stagione, visto che la scorta nella dispensa stava esaurendosi.

Quando le foglie  si spandevano sui rami sotto  la sua  ombra si aveva una sensazione  di benessere e pace, il venticello  si intrufolava fra i rami   provocando un dondolio frusciante.

La produzione vera iniziava a fine luglio, gli amici si informavano e aspettavano i cesti  ricolmi in  regalo, graditi anche per le feste di matrimonio e compleanni.

Quando la produzione era sovrabbondante, ci si sentiva stufi, poi con le prime piogge, moscerini a non finire, frutti a terra,  vicino alle sedute del forno..con l’autunno,si cercavano gli ultimi frutti, piu piccoli e rinsecchiti. Come si gustavano in bocca, assaporando quel piacere che avrebbe dovuto  aspettare un anno per farsi  risentire!

Un temporale estivo aveva abbattuto un grosso ramo, ma poi era rinvigorito in uno strepitoso risveglio.

Per il solleone con i frutti più belli si preparavano  graticci  di picce da seccare al sole.

Impacchettati con alloro e finocchio, aspettavano le feste di Natale per primeggiare con quel profumo unico delle cose desiderate e aspettate. Poi,  gli ultimi anni, qualche frutto bacato, marciume e alla fine tante infestazioni di cocciniglia.

Si è deciso per una potatura drastica, aspettando che con la primavera ci fosse una rinascita. Invano. Adesso te ne stai scheletrito con rami  tristi, neppure un ributto, solo al pedano un piccolo ciuffetto.

E’ vero che ti avevano piantato per l’ombra non pensando che i tuoi frutti avrebbero impiastrato le sedute in pietra, ma  ti abbiamo amato nonostante questo.

Oggi che, forse  impiegherai anni per rinascere  da quel tenue rametto ricordiamo tutte le tue doti.

Che previdenza, aver trovato una buona collocazione a quelle creature che con i tuoi semi, erano nate nei posti più strani: dentro la griglia di scolo del viale, nei vasi dei gerani, fra le pietre delle scale.

I tuoi discendenti  si sono  riprodotti con esuberanza e oggi vengono bene nella scarpata  dove hanno trovato  una buona terra.

Sandro, il mio agronomo di fiducia, ultimamente mi ha scioccato con una notizia a cui non voglio credere e con la quale mi confronterò: non ci saranno più  piante  di fico sul nostro territorio per una infestazione  tenace che colpisce le piante al pedano, provocandone la morte.

Racconti di conoscenti  mi avevano insospettito, narrando la scomparsa delle loro amate piante, poi, qualche giorno fa, ho saputo di una strategia per evitare questi attacchi: panni di lana  avvolti alla base delle piante impregnati in una sostanza  arginano la catastrofe.

Ecco, mi sono rasserenata, anche io non potevo accettare che questa pianta così importante, che ha sfamato generazioni  di popoli, scomparisse.

Devo sapere ora con esattezza come procedere  per  il patriarca e i discendenti.

A proposito di parole d’amore

Alla notte – di Luca Di Volo

Notte, tenera amica,

in abito di stelle rilucente,

ti aspetto ansioso

allor che i dardi oltraggiosi

del giorno mi feriscono.

Vieni dunque e liberaci

L’anima dalle ferree leggi

Che tristi governano la veglia.

Ma appena il tuo manto ricopre

L’universo arido e pietroso,

col piede leggero

si librano liberi gli spiriti degli uomini.

Ed è allora che sciolto

Da spazio e tempo

In forma di tiepida nuvola

Da te io volo, e tu da me.

E finalmente uniti

Due vortici d’amore solo avvinti

Si mescolan segreti e turbamenti.

E sorvolano insieme

Dove tu dolce riposi

Luna su Luna

Luce su luce

E così ci colga il giorno

E così il tempo ora si fermi.

La scintilla fuori dal conto

Questa prima parte del 2020 sta sgocciolando verso le ultime battute, almeno per quanto riguarda le nostre “scintille”.

Riprenderemo presto. Intanto vorrei salutarci con l’eco dell’incontro virtuale di ieri, ispirato all’intervento di Chiara Gamberale, registrato in occasione dei “Dialoghi sull’uomo” di Pistoia, tenuto in questi giorni. Il tema era, come lei ama dire, “parlare l’amore“, cioè osservare il linguaggio che gli scrittori (di ogni secolo) usano per parlare dell’innamoramento.

Si cita Natalia Ginzburg, con Lessico Famigliare:

“era necessario scrutare le parole per capire se davvero avessero ancora radici“,

riferendosi alla necessità di adeguare anche il linguaggio secondo le fasi delle relazioni che viviamo, senza cadere, con l’evolversi del rapporto, nella monotonia e nella mancanza di dinamicità, sentimentale e verbale.

Le parole dunque si adeguano inconsapevolmente, dice Chiara, quando viviamo periodi di svolta che sconvolgono le nostre esistenze. Può essere per una nascita, o per una malattia, o meglio ancora, quando ci si innamora.

Innamorarsi significa ascoltarsi al di là delle parole, confidarsi le nostre zone “segrete” e il riferimento va alla finestra di Johari, schema inventato dagli psicologi Joseph Luft e Harry Ingham.

La divisione è apparentemente semplice: ci sono quattro zone, quella conosciuta, quella cieca, quella privata e quella inconscia, ossia, quello che io so di me, quello che io non so di me, quello che gli altri sanno di me, quello che gli altri non sanno di me.

Di Chiara Gamberale è il libro, “La zona cieca”, appunto.

Ma un’altra simpatica citazione è quella riferita al poeta surrealista Gherasim Luca

da La fine del mondo (1969)

prendere corpo

Io tu flora  
tu io fauna  

Io tu pelle  
io tu porta  
e finestra  
tu io osso  
tu io oceano
tu io audacia  
tu io meteorite  

Io tu chiave d’oro  
io tu straordinario  
tu io parossismo  

Tu io parossismo  
e paradosso  
io tu clavicembalo  
tu io silenziosamente  
tu io specchio  
io tu orologio

Tu io miraggio  
tu io oasi  
tu io uccello  
tu io insetto  
tu io cateratta

Io tu luna  
tu io nuvola  
tu io alta marea
Io tu trasparente  
tu io penombra  
tu io limpido  
tu io castello vuoto  
e labirinto  
Tu io parallasse
e parabola  
tu io in piedi  
e disteso  
tu io obliquo  

Io tu equinozio  
io tu poeta  
tu io danza
io tu particolare  
tu io perpendicolare  
e soppalco  

Tu io visibile  
tu io silhouette
tu io infinitamente  
tu io indivisibile  
tu io ironia  

Io tu fragile  
io tu ardente  
io tu foneticamente  
tu io geroglifico  

Io tu spazio
tu io cascata  
io tu cascata  
a mia volta ma tu  

tu io fluido  

tu io stella filante  

tu io vulcanico  

noi noi polverizzabile  

Noi noi scandalosamente
giorno e notte
noi noi oggi stesso
tu io tangente
io tu concentrica

Tu io solubile  
tu io insolubile  
tu che mi asfissi  
e io liberatrice  
tu io pulsante

Tu io vertigine
tu io estasi
tu io appassionatamente
tu io assoluto
io tu assente
tu io assurdo

(prendere corpo)
Io tu narice io tu capigliatura
io tu anca
tu mi ossessioni
io tu petto
io busto tu petto poi tu volto
io tu corsetto
tu io odore tu io vertigine
tu scivoli
io tu coscia io ti accarezzo
io tu fremito
tu mi scavalchi
tu io insopportabile
io tu amazzone
io tu gola io tu ventre
io tu gonna
io tu giarrettiera io tu calze io tu Bach
sì io tu Bach per clavicembalo seno e flauto

io tu tremante  
mi seduci mi assorbi  
ti contendo  
ti rischio ti scalo  
mi sfiori  
ti navigo
ma tu mi agiti  
mi sfiori mi racchiudi
tu io carne cuoio pelle e morso  
tu io slip nero  
tu io ballerine rosse  
e quando tu niente tacchi alti sui miei sensi  
tu i coccodrilli  
tu le foche tu le affascini  
mi copri  
ti scopro t’invento  
talvolta ti abbandoni

tu io labbra umide
ti libero ti deliro
mi deliri e mi seduci
io tu spalla io tu vertebra io tu caviglia
io tu ciglia e pupille
e se io scapola non prima dei polmoni
anche lontana tu io ascelle
ti respiro
giorno e notte ti respiro
io tu bocca
io tu palato io tu denti io tu unghie
io tu vulva io tu palpebre
io tu fiato
io tu inguine
io tu sangue io tu collo
io tu polpacci io tu certezza
io tu guance e vene

io tu mani
io tu sudore
io tu lingua
io tu nuca
io ti navigo
io tu ombra io tu corpo e fantasma
io tu retina nel mio soffio
tu tu iride

io ti scrivo
tu mi pensi

Fichi di mare

La ficaia di Maremma – di Gabriella Crisafulli

Il ritorno a Vacchereccia al tramonto, dopo aver trascorso tutta la giornata in spiaggia, era davvero duro. Riuscivano solo a fare metà salita poi dovevano scendere di bicicletta. Ma lì, alla seconda curva, avvolta da insetti ronzanti, c’era la ficaia che emanava un profumo intenso dall’ombra della sua nicchia. Mentre lei si asciugava il sudore che entrava fin dentro agli occhi, lui si inoltrava in quell’oasi e ne veniva fuori sempre con qualche fico. Li mangiavano lì prima di riprendere a camminare. Dopo la doccia, a cena, li aspettava il cestino colmo di frutti che raccoglievano di prima mattina, a Spergolaia, dalla Romilda. 

Li accoglieva sempre soave e grata perché lei, i fichi, non li poteva dare nemmeno ai maiali: “Gli vengono gli scioglimenti” diceva. “E poi, quando cadono, fanno tanto sporco!”

Li mangiavano con il pane, alla maniera dei contadini, mentre lui si soffermava a mostrare la differenza fra un frutto ed un altro a lei che non distingueva un fico da un fiorone! 

La narrazione non aveva mai fine e, come in ogni storia che si rispetti, veniva ripetuta sempre uguale, sempre diversa.

C’era il profumo che veniva fuori dalla fornacetta mentre cuocevano gli involtini di foglie di fico che colmavano il trullo di aromi.

C’era la nonnina Anna alle prese con i graticci per l’essiccazione dei frutti, con la capatura delle mandorle per il ripieno, con l’estrazione del succo, con le spase per l’ultima asciugatura in paese, nel forno a legna.

E poi c’erano i fichi per ogni ora del giorno e per ogni occasione: venivano declinati in marmellate, gelatine, vin cotto, mustaccioli, cartellate, rose, sasanelli, panzerotti, przzid,  …

Creavano un sottofondo che sapeva di affetti, di legami, di tradizioni: evocano le radici profonde di un mondo perduto.

Il fico di Notre Dame

Il fico in cattedrale – di Carla Faggi

Tutti continuano a dire che è stato un corto circuito ma la vera storia è questa:

Rufolando tra vecchi manoscritti fra les bouquinistes de la rive gauche de Paris, lui e lei chiusero gli occhi e mano nella mano scelsero a caso uno di questi.

Qui ci sarà il nostro destino, decisero.

Aprirono gli occhi ed esplorarono curiosi, il manoscritto era titolato “La dodicesima scintilla”.

Sulla copertina vi era disegnato un grande fico con delle foglie enormi che sembravano mani.

Lui e lei si guardarono negli occhi entusiasti, decisero che quello era un bel titolo e che lo avrebbero letto e raccolto tutti i suoi saperi e suggerimenti.

Vennero così a sapere che nella Ile de la Citè un tempo c’era un grande fico e sotto quel fico seppellito un tesoro, un grande tesoro! Che tutt’ora era lì.

Dopo aver trovato il posto esatto dove era esistito quel fico bastava creare una grande scintilla luminosa e calda come il fuoco ed il tesoro sarebbe venuto alla luce. Allegato c’era una mappa.

“Partire dal punto più a nord della Ile e quindi continuare…” seguirono tutta la mappa, non fu facile perchè tutto era cambiato, ma ce la fecero e arrivarono al punto prescelto.

Erano all’interno di una grande Chiesa, anzi disse lui, una Cattedrale! Va bè fa lo stesso! Qui ci dovrebbe essere il fico ed il tesoro! E qui faremo la grande scintilla!

Si nascosero e appena soli accesero un focherello. Usarono legno di castagno, perchè quando brucia fa le faville. Tanto fa lo stesso, pensò lei, sembrano scintille!

Non si sa se lui e lei abbiano trovato il tesoro, ma si sa per certo che il 15 aprile 2019 nel tardo pomeriggio la cattedrale di Notre Dame fu devastata da un violento incendio.

Il gioco delle immagini – diciassette

NELLA STANZA DEL CAOS – di Mimma Caravaggi

Apro la stanza e dò un’occhiata in giro. Eccole lì tutte le mie cose, i miei ricordi. Belli, brutti, avventurosi, malinconici. Ma … chi ha lasciato in giro quei piatti sporchi? Io no di certo, chi può essere stato mi chiedo. “Te lo diciamo noi, carina. Ci hanno lasciati qui i tuoi nipoti l’ultima volta che sono venuti a trovarti. Parliamo di almeno 6 mesi fa” Chi mi sta parlando ? Sento delle vocine ma non vedo nessuno in giro “Siamo noi i piatti lasciati qui su tavolo con tutti i residui e dimenticati come tutti gli altri oggetti” Rimango strabiliata, sconvolta. Cerco di non farci caso, non è possibile che due piatti mi parlino e con questo tono arrogante. Ricordo che mesi fa ho detto alla Cate e a Francy che potevano entrare e dare un’occhiata alla stanza che per loro era molto misteriosa. Non l’avevano mai vista ed erano molto curiosi di andare in avan scoperta. Li avevo lasciati liberi e richiamati solo all’ora del pranzo ma prima di finire mi chiamarono al telefono e loro, evidentemente, sono sgaiattolati su di nuovo. Chissà cosa li ha incuriositi cosi tanto dal farli tornare e addirittura terminare il loro dolce su in quella stanzetta così in disordine e polverosa. “Te lo diciamo noi. Dopo aver gustato il loro dolce ci hanno abbandonati qui sul tavolo e si sono messi a girare intorno toccando ogni oggetto e chiedendosi “”ma che ci farà la zia con questo vecchio giubbotto? E con questa padella? Cate la più grande ha cercato di spiegare al fratello che erano vecchie cose appartenute alla zia ed ora inservibili, infatti non credo se li ricordi più e rivolta al fratello gli ha detto “Guarda Francy questo è il primo zaino che mi regalò la zia quando babbo e mamma ci portarono in montagna per la prima volta. Quante gite ha sopportato. Poi l’ho perso di vista ed ora eccolo qui di nuovo. Vedi ci sono le mie iniziali sopra C.R.. La camicia a quadretti, invece, è la mia me la regalò la nonna diversi anni fa ma come sia finita qui non so proprio. Chissà se ritrovo anche i miei pattini, vedi il caso …Cosi i tuoi nipoti hanno continuato ad esplorare ogni oggetto finché non sono stati richiamati di sotto lasciandoci qui sporchi e solitari per così tanto tempo” Ok penso non credo che due piatti possano parlare, non ci credo proprio, o sono impazzita … ma dato che ci sono li prendo e li porto giù così li lavo e li rimetto a posto. “ Hei bellina….” “lascia stare non polemizzare almeno ci lava e ci rimette insieme agli altri faremo una chiacchierata con loro !!!”

Il fico sovrano

LE SCINTILLE DEL FICO – di Mimma Caravaggi

L’ho trovato circa 30 anni fa nel giardino della mia nuova casa. Ce n’erano più di uno in giro ma questo era un albero imponente e maestoso che dimostrava senza vergogna la sua grande età, e sembrava ne andasse molto fiero. Un albero di fico tenace che ha continuato per anni e, ancora continua senza stancarsi, a produrre fichi di una bontà unica. Il fusto e abbarbicato dentro un piccolo muretto sembra senza terra ma è cresciuto come lo avessero rifornito con tanto di quel concime e farmaci da farlo crescere smisuratamente. Eppure nessuno gli ha mai dato nutrimento se non la terra stessa. Lo abbiamo “decapitato” più volte affinché non si allargasse troppo disturbando le piante vicine, ma ogni anno si estende sempre di più e produce fichi instancabilmente. A fine agosto è un piacere mettersi sotto le sue grandi ed ombrose foglie e godere dei suoi frutti. Chiunque capiti da noi nel giusto periodo gode della sua bellezza e bontà, cogli e mangi a sazietà. Mio marito a fine estate si mette sotto la pianta e pazientemente, dopo averli colti, li taglia a metà e li sistema in una grande teglia che poi mette nel vecchio forno a legna appena riscaldato e gli fa prendere il caldo per tutto il giorno. Il mattino seguente li mette nei barattoli di vetro che chiude accuratamente e poi li lascia in forno per giorni finché lo stesso non si raffredda. D’inverno si gode il sapore e la bontà di un fico non troppo secco, morbido e quasi succoso, dolcissimo e con un leggero sapore di fumo dovuto alla cottura nel forno a legna. In questi ultimi anni ha un pò risentito degli effetti del cambiamento climatico come tutta gli altri alberi da frutta ma loro purtroppo non producono più come prima ma sempre di meno ogni anno. Lui invece, è ancora lì bello imponente, grandioso e mi fa pensare al re della foresta il leone. Si proprio il leone della frutta nella sua magnificenza la sua risolutezza e arroganza sembra guardare gli altri “alberelli” con distaccata regalità come si addice ad un re del verde. Anche il mio cane Napoleone lo apprezza sia per mangiare i frutti che per avere ombra nei momenti più caldi. E’ un albero grandioso.

Fico fico boccon boccone

Fico fico boccon boccone – di Cecilia Trinci

Il cestino pieno di fichi lo vedevo solo in campagna, dalla mia nonna, che  un giorno se n’era andata ad abitare a Castelfiorentino, lasciandoci orfane, me e mia sorella piccine, di quella sua costante presenza consolante. D’estate avevamo ottenuto come risarcimento, di stare da lei per diverse settimane e tutto diventava stupore: la vasca da bagno con lo scalino per starci seduti, la veneziana in cucina che la divideva dal tinello, le scale di pietra per andare nell’orto dove le tartarughe andavano in amore e si mettevano a correre tra le dalie.

La spesa la portava a casa un certo “procaccia” con la bicicletta e accanto alla sporta di rafia, infilata sul manubrio, non mancava mai il corbellino dei fichi. Erano avvolti come neonati in fresche foglie grandi, pelose ma morbide, erano frutti soffici, fragilissimi, umidi, con un picciolo spesso e lattiginoso da cui mia nonna li acchiappava, uno dietro l’altro, per mangiarli subito.

Per mangiarli si fa così diceva: lo tieni per il picciolo, da sotto in su e poi lo sbucci, piano piano, partendo dalla piccola apertura che si apre proprio verso di te, lasci cadere la buccia in giù, verso il picciolo, a piccoli lembi, che ti copriranno la manina quasi come veli verdi leggeri….il fico ti apparirà così, tra le dita,  bello nudo, con la sua  camicina bianca pronto per essere mangiato…. in un solo boccone!

Mia nonna aveva il potere di rendere incredibile qualsiasi cosa fosse commestibile. Dopo un temporale raccoglieva le chiocciole tra i fiori, in certe passeggiate verso la Pieve,  le spurgava poi  per giorni in un mastello bianco di farina abbondante, dove infilavo continuamente gli occhi per curiosare su cosa mai potesse succedere a quella strana combriccola di antenne e poltiglia. Le cucinava poi con un sugo di cui ricordo il profumo, pieno di spezie, erbe dell’orto e sapori inediti, girando il tutto di frequente, con un mestolo rigorosamente di legno e raccontando ad alta voce quello che dentro si stava tramutando. Apparecchiava sempre come per pranzi regali, riempiva i piatti religiosamente e poi le gustava una ad una come capolavori del creato e della pentola.

Non ho più mangiato chiocciole e non amo particolarmente i fichi, ma mi accorgo ora, pensandoci, che questi piccoli pezzi  sono conficcati nelle istantanee virtuali di casa mia. Chiocciole e fichi sono mia nonna, ma sono anche l’eredità di lei, che toccava ogni cosa lentamente, in profondità, osservandole con tutti i sensi, conoscendole nell’essenza. Pensandoci, faceva così con tutto il creato che la circondava.

Pensandoci faceva così anche con le persone. E con le parole.

Il fico stava a guardare…

FOGLIA DI FICO – di Rossella Gallori

Giornate sempre uguali, percorse in punta di piedi per non disturbare l’equilibrio incerto di ore piatte come sogliole e inutili, come un coltello senza lama…..

Forse non era uscita di casa con quella idea, era già stanca all’alba, bisogna aver fiato e voglia, per concretizzare pensieri seri, molto seri…eppure si era vestita in fretta…più coperta che vestita, roba vecchia, consumata ma decorosa…ed era uscita, prendendo chiavi e cellulare…

Mi butto, pensò, poche bracciate e mi lascerò andare, nessuno a quest’ora avrà voglia di cercar corpi galleggianti in un Arno melmoso.

Si tolse le scarpe  e scese giù per il viottolo, intorno solo silenzio interrotto dal rumore dell’acqua e da qualche uccelluccio assonnato che aveva voglia di farsi sentire…

Doveva decidere se buttarsi  dal lato “ comune di Fiesole o di Firenze” dilemma di breve durata dal momento, che l’acqua era scarsa e così bassa da non permettere  nemmeno un pediluvio…

Si sedette, più delusa che rassegnata: manco so farla finita….pensò…le uscì  quasi un sorriso di compassione per se stessa, un po’   cogliona lo era sempre stata. Non era mai riuscita a guardare oltre a cercare di capire, elaborare, perdonare, già perdonare…come se fosse facile non soffrire…

Quando il suo sguardo si posò sull’ enorme foglia…tra le rocce umidicce fu curiosa ed un pò meravigliata, non era mai stata attratta dal “ verde”  la natura era, vento, pioggia, colore, fresco, caldo, fiori, frutta…..immagini. Eppure quella piccola pianta di fico era lì, ospite inattesa di un mondo di papere, rospi, pesci siluro, rifiuti galleggianti ma non troppo, si avvicinò traballante, strano aver paura di cadere, per una che decide di morire ”teatralmente affogata”

Quando scorse il grosso fico, ciondolante, all’ombra della sua mammafoglia, scoppiò in una risata vagamente isterica, che ci faceva li quella pianta? Perchè un frutto così dolce tra le rocce di un fiume indeciso, che gira a gomito, sotto gli  occhi distratti dei più….?

Un segno, un regalo, un monito…

Due passi incerti per arrivare a lui, al suo ammiccante “spaccosorriso” che gridava e grondava  zucchero…

Lo  succhiò, non ebbe il coraggio di morderlo, lo gustò come un dono del cielo…un segno dall’alto…Che forse non seppe interpretare…

Si avviò un po’ più avanti…li l’acqua era più alta…molto più alta…

Riportò la cronaca di Firenze due giorni più tardi: ritrovato corpo di donna, al Girone, l’Arno ha avuto….l’ennesima vittima…l’autopsia ha rilevato…tracce di fico, maldigerito…..

Il fico di Torino

Il fico e la tenacia – di Nadia Peruzzi

Il fico era lì nel giardinetto dietro casa. Lui amava da sempre quelle larghe e strane foglie con la loro ombra a forma di grandi mani che ogni volta sembravano stringerlo in un abbraccio. Quando il sole era accecante e il caldo più soffocante si stendeva lì sotto, sulla coltre erbosa che ne circondava il tronco quasi a proteggerlo e si lasciava andare alle sue fantasticherie e ai suoi sogni di bambino.

Galleggiavano note in quei sogni.

Molto prima di sapere cosa fossero le vedeva danzare e comporsi in mirabili armonie.

Aveva scoperto presto che la musica era la sua dimensione. La sentiva ovunque si voltasse e qualunque cosa facesse. Quelle note ballerine lo prendevano per mano portandolo lontano.

Le pareti della casa modesta nella quale viveva con i genitori, una delle tante case di ringhiera della Torino operaia degli anni 70, si dissolvevano e così lo sguardo poteva puntare direttamente in alto, verso il cielo, là dove il sogno poteva diventare realtà e tutto poteva diventare possibile.

La musica in quella casa era entrata in modo strano. Non c’erano strumenti, c’era la vita difficile di un lavoratore che stava fuori tutto il giorno e tornava a casa stanco la sera dopo una faticosa giornata di lavoro.

Le note erano entrate prepotenti con le opere che spesso i suoi ascoltavano alla radio, e molto molto prima erano risuonate nei canti partigiani intonati da suo padre e sua madre, con occhi sempre lucidi alle manifestazione del 25 Aprile.

Erano arrivate poi insieme ai canti della lotta e della riscossa operaia della fine degli anni 60 e dei primi anni 70 che avevano visto diventare Torino protagonista di una stagione di cambiamenti.

I primi abbozzi di volontà di dirigere un’orchestra si erano palesati per puro caso. Aveva visto in tv  il Coro dell’Armata Rossa e non aveva resistito. Si era alzato in piedi armandosi di una matita e aveva iniziato ad accompagnarlo, ad occhi chiusi, ma con gesti rapidi e decisi quasi si trovasse su quel palco e in mezzo a quella moltitudine.

Era buffo quel bambino col suo ciuffo nero e ribelle, con quegli occhi vivi che bucavano il velo della realtà e puntavano direttamente ad un futuro da conquistare fatto di musica e di note.

La incontrò una mattina, sulle scale mentre se ne tornava a casa sconsolato da scuola insieme a sua madre. Era triste, quel giorno, come non mai.

Al colloquio, una condanna senza appello, che era risuonata quasi come un ergastolo.

La mamma l’aveva tradotta con parole sue, in semplicità, ma suonava crudele come i professori gliel’avevano detta.

“Suo figlio è bravo. Ha un gran carattere. Si impegna molto. Si vede che la musica per lui è vita, ma si renda conto il figlio di un operaio non può aspirare a fare il musicista. Dia retta, lo convinca. È una strada nella quale  solo chi ha possibilità economiche e conoscenze può sopravvivere e pensare di andare avanti!”

La musica era roba da ricchi e per i figli di ricchi, insomma, e per lui non c’era alcuna speranza.

Piangeva senza ritegno quando incrociò la signora Amelia, quella del terzo piano. Era una donnina dolce e distinta, che sembrava uscita direttamente da un romanzo di De Amicis. Di solito erano solo dei buongiorno e buonasera, ma quel giorno e di fronte a quelle lacrime disperate lei volle sapere  quale ferita le avesse provocate.

Ne rimase schiantata perché a distanza di anni erano la stessa ragione con cui anche lei aveva dovuto fare i conti. Lei, in più, aveva dovuto aggiungerci il carico da 90 negativo di essere pure donna.

Eppure ce l’aveva fatta a diventare primo violino, realizzando il suo sogno di bambina. Si rivide in quelle lacrime, in quella delusione cocente rispetto ad un mondo che escludeva per condizione sociale e non per qualità e capacità. Un mondo che inchiodava alla condizione di nascita e spegneva ogni voglia di cambiamento e ogni sogno se non sorretto da tenacia e volontà incrollabile.

Iniziò così fra loro. Il bambino con il ciuffo ribelle e la vecchia signora che ormai si dedicava ad insegnare musica dopo i lunghi anni passati a suonare nell’orchestra del teatro cittadino.

La maestra mise a disposizione la sua casa, i suoi strumenti, le sue conoscenze e competenze musicali, il bambino ci mise la sua volontà di apprendere tutto il possibile di quel campo cimentandosi col mondo delle note e prendendo man mano confidenza col piano forte cui si era accostato inizialmente, con timore e profonda soggezione.

In breve da quello strumento fantastico era riuscito a trarre accordi e melodie al limite dell’innovativo e dell’ardimentoso. Non era un mero esecutore, era un interprete vero. Quelle sue mani si muovevano a velocità strabiliante sulla tastiera, sembrava che volassero mentre passavano da un adagio a un andante con brio, passando attraverso un allegretto.

Non ci volle molto perché la maestra lo indirizzasse verso luoghi e scuole in cui lui avrebbe potuto consolidare la sua tecnica e sperimentare novità.

Dal piano forte e dai primi concerti fece il grande passo verso lo studio della direzione dell’orchestra. Divenne molto bravo anche in quello.

Con la sua energia e determinazione, la  passione per la musica trovava la strada per accompagnare anche ogni componente del gruppo che stava dirigendo proprio lì dove aveva intenzione di trascinarlo. Dentro quel suono assoluto che faceva scomparire il reale e metteva  a nudo la perfezione delle note ballerine che lo avevano accompagnato fin dai suoi sogni di bambino.

Pochi cenni bastavano per creare magia.

I successi cominciarono ad arrivare.

Le tv cominciarono ad accorgersi di lui. Anche i giornali che pure citavano con un pizzico di disprezzo quei suoi inizi fanciulli alle prese col Coro dell’Armata Rossa come fossero uno stigma negativo, furono costretti a dedicargli pagine e pagine.

Non se ne curava più di tanto. Gli premeva solo che facessero cassa di risonanza per raccontare quanto la musica fosse vita, quanto fosse in grado di sanare ferite e accompagnare gli amori accendendo la passione, raccontandone alti e bassi, giocando fra scale, acuti, sibemolle e fa diesis.

Le folle impararono ad apprezzarlo. Stravedevano per lui. La sua proverbiale modestia sabauda ne era uscita scalfita. Se ripensava a quanto aveva dovuto penare per arrivare a quel punto non poteva che provare orgoglio e soddisfazione.

Soprattutto pensando ai gran sacrifici che suo padre e sua madre avevano dovuto fare per accompagnarlo in quel percorso. I loro occhi lucidi, la prima volta che erano andati a sentirlo in teatro lo avevano ripagato di tutta la fatica. Quasi intimoriti in quel contesto che non era per loro abituale, quasi persi dentro i velluti delle poltrone della prima fila nei loro vestiti buoni, quelli delle feste, avevano seguito ogni passaggio quasi senza respirare e immobili, come se un loro movimento anche piccolo potesse far svanire quanto stava loro di fronte.

E di fronte avevano il loro ragazzo appassionato, con quel suo ciuffo ribelle, tenace e combattivo che aveva faticato tantissimo per realizzare il suo sogno da bambino.

Le sue radici e la sua storia gli erano sempre state compagne, anzi erano state le ragioni principali della sua perseveranza.

Come quel fico sotto il quale amava nascondersi da bambino per fuggire ai raggi impietosi del sole battente, aveva vinto la sua sfida contro i limiti e le avversità.

Il fico era cresciuto anno dopo anno, aveva fatto i suoi frutti succulenti, nonostante il clima talora inclemente, la poca terra e la scarsa cura che riceveva. Nasceva e rinasceva sempre e ogni volta più forte e sempre più grande.

Lui aveva respirato la forza umile, da combattenti della quotidianità, di suo padre e di sua madre. In quella casa di ringhiera modesta e amorevole aveva sentito aleggiare la voglia di cambiare il mondo e di non piegarsi all’esistente scritto sempre da qualcun altro.

Ogni sera nasceva e rinasceva su ogni palcoscenico su cui si esibiva, sapendo che il suo traguardo era stato raggiunto.

Contro tutto e contro tutti, contro le convenzioni e le convinzioni, contro l’esclusione e la selezione basata sul denaro e sulle origini.

Si, il figlio di un operaio era riuscito a diventare un musicista. Anzi, a quanto si diceva, un grande musicista! 

I fichi e la paura

I fichi di Biagio – di Anna Meli

Se guardo indietro nel tempo, mi rivedo bambina quando, in compagnia dell’unico nonno che ho conosciuto, muniti di un piccolo paniere e di una specie di pertica ad uncino, andavamo a raccogliere fichi. Quasi tutte le piante erano forti, quasi imponenti direi; io mi sentivo bene sotto l’ombra di quel fogliame fatto da grandi mani aperte a ripararmi dal sole e gustavo volentieri quei frutti morbidi e succosi.

            I fichi dottati li raccoglievamo per farli seccare e mangiarli per Natale e, in questo il nonno era un grande maestro, li faceva buonissimi, “grumati” come diceva lui. Prima toglieva a tutti la buccia poi, coperti con un velo di tulle messo a protezione per le vespe golose, li esponeva al sole per vari giorni perché si prosciugassero bene senza però indurirsi troppo. Alcuni li lasciava interi, altri, spaccati in due, servivano per le picce con varianti di noci, mandorle o anici. Una vera prelibatezza!

            Mi ricordo che, come tutti i nonni, amava raccontare brevi favole che non sono sui libri perché tramandate di generazione in generazione e una di queste riguarda proprio un fico. La racconto così come la ricordo dopo tanto tempo.

            Viveva in un casolare non molto lontano da un paesello, un uomo di nome Biagio. Era solo e anche un po’ scorbutico. Aveva vicino casa, ma non troppo, un bellissimo orto in mezzo al quale troneggiava un grande fico che produceva frutti straordinari. Arrivati a settembre, stagione di raccolta, non riusciva mai a prenderne più di una decina perché i monelli del paese, nottetempo andavano là e facevano man bassa. Decise allora di mettersi di guardia con la finestra aperta munito di fucile da caccia. Avrebbe sparato solo per aria per metterli in fuga difendendo come diceva lui “ la sua roba”.

            Per la prima sera tutto andò bene perché, una volta udito il rumore dello sparo, i ladruncoli si dileguarono velocemente pensando però a come poter fare per tornare a far razzia di fichi.

            La sera seguente Biagio li aspettò quasi impaziente  e fra sé e sé  rimuginava “ Ora tu vedi, se riappaiono ancora come li accolgo. Stasera tre spari e vedrai che se la fanno addosso!”…

“ Ma cosa c’è laggiù che avanza dondolando? Sembrano fiaccole accese! Cosa succede?”

I monellacci avevano indossato delle lenzuola bianche e così, simili a fantasmi, procedevano cantilenando e muovendo le torce rese incerte e tremolanti da un leggero venticello.

Biagio tese le orecchie e ascoltò immobile per lo spavento.

“ E quando s’era vivi, si mangiava di questi fichi

E or che siamo morti, si passeggia per quest’orti,

Si va su adagio, adagio a prender l’anima di Biagio”

Lo spavento per Biagio fu tale, che credendole anime del purgatorio venute a prenderlo fuggì in cantina dove rimase nascosto finché quei monellacci, che in fondo in fondo non erano del tutto insensibili, andarono a scovarlo spiegandogli lo scherzo. E lui ci rise così tanto ma così tanto che non la finiva più. Da quel giorno nacque un’amicizia che dura ancor oggi e tutti, proprio tutti mangiarono fichi insieme a Biagio addolcito nel carattere dopo questo spavento.

Fichi secchi

FICHI SECCHI – di Elisabetta Brunelleschi

Con il settembre i contadini preparavano i fichi secchi.

Dopo averli raccolti, li tagliavano per lungo, facendo attenzione a lasciare unite sul fondo le due parti, poi li distendevano per bene sui graticci di canne. Un giorno dopo l’altro il sole di fine estate li asciugava e quando erano pronti facevano le picce, cioè prendevano due fichi tagliati a metà e li appiccicavano facendo combaciare la polpa, non prima però, di averli farciti con noci o semini di anice. E per Natale si cominciava a mangiarli: buoni, morbidi, zuccherini.

Una vera ricchezza che anche i pigionali non volevano perdere e nei primi giorni di settembre, in paese c’erano graticci appoggiati su ogni spazio baciato dal sole, sui davanzali, sui muri che recintavano i campi, su due seggiole addossate all’uscio di casa e perfino sui tetti.

In paese ci si industriava per poter avere un panierino di fichi. C’era chi se li poteva comprare, chi li otteneva in cambio di un qualche lavoretto e chi se li andava a cercare  zitto zitto, piano piano in qualche campo dei dintorni.

Bardo Bardi, era uno dei pochi, che non aveva bisogno di chiedere o cercare, lui il fico ce l’aveva nell’orto. Era un albero enorme, frondoso, che ogni anno produceva frutti in abbondanza. Accanto al tronco aveva sistemato una panchina e nei giorni più torridi se stava lì seduto all’ombra con accanto la moglie Derma che rammendava o ricamava.

Dalla fine d’agosto controllava mattina e sera il procedere della maturazione e ai primi di settembre iniziava a raccogliere, tagliare, distendere sui graticci e poi … saranno state quelle finestre dell’ultimo piano mai abbandonate dal sole, sarà stata la qualità del frutto o anche l’attenzione che lui metteva nel prepararli e conservarli, alla fine i suoi fichi secchi risultavano sempre squisiti. I migliori del paese.

Anche all’Alfredina, donna semplice che sbarcava il lunario facendo la garzona, piacevano tanto i fichi secchi. Anche lei distendeva con amore i pochi frutti guadagnati andando ad aiutare i contadini, posizionava i graticci sul muro della strada e li ritirava la sera, prima del tramonto. Ma alla fine i suoi fichi secchi non venivano mai bene. A Natale alcuni erano muffiti, da altri svolazzavano farfalline! E così più della metà finivano nella concimaia!

“Bardo -disse un giorno d’inizio settembre l’Alfredina- a voi i fichi secchi vengono sempre buoni, come fate a farli così!”

“Bisogna tenerli al sole!” le rispose asciutto, continuando a cogliere i pomodori.

“Io ho provato anche l’anno scorso, ma non mi vengono! Mi muffano! Come si fa a mantenerli bene”.

Dovete sapere che Bardo Bardi era un gran burlone, gli piaceva scherzare e il tono lamentoso con cui l’Alfredina aveva pronunciato quelle ultime parole fu per lui come un trampolino di lancio.

Lasciò cadere nel cesto un pomodoro mezzo verde, si mise sull’attenti e con espressione seria disse:

“Signora bisogna saperli fare! Sa cosa ci vuole per non farli ammuffire? Un po’ di naftalina! Ne basta poca, messa bene dentro le picce!”

“Davvero?” Esclamò l’Alfredina spalancando gli occhi.

“Sì, vedrà come le arrivano a Natale!”

Concluse Bardo con voce ancor più ferma e sicura.

La semplice Alfredina se andò quasi convinta.

La naftalina? Certo se ammazza le farfalline della lana … nell’armadio ce ne dev’essere qualche pallina!

Bardo salì in casa ridendo a crepapelle, la Derma, che lo conosceva da più di quarantanni, lo puntò con un’occhiataccia d’interrogazione. Egli, in cinque minuti, le raccontò tutto, sghignazzando alle spalle di quella credulona.

La Derma, moglie buona e paziente, sempre pronta a ridere alle burle del marito, quella  volta ebbe uno scatto:

“Ma che sei grullo! Se questa ci mette davvero la naftalina, poi come si fa? Quella roba è veleno!!”

Due giorni dopo si decise, scese al primo piano e bussò alla porta dell’Alfredina: 

“O Alfredina il mi’ marito voleva scherzare! I fichi vanno seccati bene e tenuti in un posto asciutto! L’abbia pazienza, non ci vuole la naftalina ci vuole il sole!”

L’Alfredina si rabbuiò in volto, poi piegò la testa, sorrise e si strinse nelle spalle, avanzò in avanti con il busto e stava per aprir bocca … ma non fece in tempo perché la Derma continuava:

“Venga, si va nell’orto a coglierli”

Bardo le aspettava sul pianerottolo con due panieri in mano:

“Ma lei li deve solo mangiare, a Natale quelli secchi glieli do io!”

Scesero e lentamente lo sguardo dell’Alfredina si sciolse in un sorriso.

Il fico in giardino

Il fico – di Sandra Conticini

Quella del fico è una delle prime piante, insieme al diospero, che ho conosciuto, perché erano nel giardino del nonno, ma anche tutti i giardini intorno avevano il suo fico. Dicevano che era dottato e faceva molti frutti buonissimi ma, quando arrivava fine agosto-settembre il nonno diceva che quello era l’ultimo anno che li avremmo mangiati  perché lo avrebbe tagliato…quando era il momento lo potava  sempre più in basso ma la pianta sembrava rinvigorisse e ricresceva più alta dell’anno precedente. Riuscì a sopravvivere anche alla nafta e alla melma dell’alluvione del 66. Mi ricordo quella mattina quando, mettendomi in piedi sul letto, lo vidi là in fondo all’orto, e sopra un  ramo, in bilico, c’era il gatto della mia amica che non riusciva a tornare a casa. E’ una pianta che non muore mai e anche quando credi di averlo ucciso come per miracolo rinasce. E’ considerato umile e semplice, ma forte, perché la trovi sulle rocce, in riva al mare, sotto il sole cocente della Grecia, della Sicilia,  ha sempre le sue belle foglie verdi grandi,  sembra che dica: – Signori, pensate che io sia deboluccio ma la mia tenacia mi terrà vivo per tanti secoli ancora –

Rappresenta  la vita, che da quando si nasce è tutta una lotta fatta di tanti bassi e pochi alti e per viverla ci vuole tenacia ed ogni volta  si devono cercare  soddisfazioni ed essere positivi per poter andare avanti.

Le campagne toscane hanno tanti alberi di fichi di tutte le qualità e di tutti i tipi e, quando vado in campagna a fine estate, spero sempre di trovare qualche fico sull’albero, perché mi piacciono “colti e mangiati” e se li devo comprare preferisco non mangiarli.

Il fico e la vita

Un albero e il suo contrario – di Luca Di Volo

Ai tempi della mia infanzia, durante le elementari, ogni anno venivamo portati a far visita ai “vecchini” (così si diceva allora), ospitati in un convento tenuto dalle “Povere sorelle dei poveri”.

Il grande edificio dava proprio sul retro di quella che allora era la mia casa, il cui muro del giardino confinava proprio col cortile dell’ospizio.

Quindi lo vedevo, immenso e triste, tutti i giorni.

Ma stavo dicendo delle visite che eravamo costretti a fare, anno dopo anno, e ancora adesso mi chiedo perché.

Quei poveri vecchietti ci sembravano, ai nostri occhi di fanciulli, ormai al di là del bene e del male..in un attesa paziente e quasi salvifica dell’inevitabile fine.

 Noi ragazzi invece quelle visite ci rattristavano, un sentimento che ora comprendo, ma allora non ne sapevo nulla, per fortuna.

Però quel grigio, muri, tavolini, sedie..tutto di un insopportabile non-colore.

Un limbo, né vita,  né morte..tutto sospeso ..fuori del tempo. Dante avrebbe detto: ”La morta gora..” anche se, teologicamente, sembrava che non avesse nulla in comune con l’Inferno.

Mi accorgo di divagare. In realtà, in stridente contrasto, mi sono apparsi, vivi e tenaci come non mai, i due (due!) fichi che crescevano nel giardino, quasi appoggiati al muro di confine.

Uno era un fico “dottato” (e mi chiedo ancora perche’ si chiamasse così). Faceva frutti dolcissimi e rosei all’inizio dell’Estate, esplodendo al sole di Giugno.

L’altro era un fico “verdino”, così detto perché i suoi frutti maturavano verso Ottobre, alla stagione calante, quasi a volerci consolare con quei magnifici fichi rosso sangue della stagione che ci aspettava.

Da quello che precede, non è difficile immaginare che, nel mio immaginario, i due alberi e la sagoma tetra dell’ospizio formassero un tutt’uno, un immenso contrasto che ancora nel mio intimo non ha perso per nulla la sua incredibile forza.

E ora, col senno della mia vecchiaia, posso anche farci un po’ di filosofia.

I due fichi: la vita. L’ospizio: la morte.

Semplice, no?!

Per niente.

Perché anche il fico ti tradisce, a volte, proprio come la vita. E ben lo seppi io quando, per cogliere un frutto particolarmente carnoso, appoggiai il piede su un ramo per alzarmi. E il fico “si scosciò”..si fessurò..ed io caddi di schiena battendo la spina dorsale. Una grande preoccupazione, ma tutto finì bene. Però non prima di sentirmi dire: ”O non lo sai che il fico è traditore?!”.

Ci rimasi male..mi avevano distrutto uno dei miei idoli.

Scoprii più tardi tutte le leggende nere sul fico. La sua maledizione nei vangeli…l’albero a cui s’impiccò Giuda.

Povero fico..ma continuai a gustare dei suoi frutti generosi, e continuai ad essergli grato per il dolce che ci dava.

E poi sono sicuro che, se ritornassi, loro sarebbero là, ad aspettarmi, tenaci e risorti.