Una pagina tutta per sé – Nadia

Propongo una nuova “paginadove pubblicare i racconti personali, seguendo un filo privato, dove ognuno può esporsi con le proprie caratteristiche più belle.

Le città di Nadia – di Nadia Peruzzi

Per la mia maledetta paura di volare mi sono persa interi continenti. Delle città che ho visitato, grandi o piccole che fossero, porto ricordi così vivi che potrei scrivere all’infinito.
Ma mettere confini è necessario.
Non amo le città verticali tanto più se nate per impressionare con i loro skyline punteggiati di grattacieli dove, camminando per le strade, devi farti venire il torcicollo se vuoi vedere uno spicchio di cielo.
Mi sento schiacciata a terra, pensandomi in una di queste, incapace di volare anche col pensiero e la fantasia.
Città con molto potere di suggestione anche mediatica e con poca, direi pochissima storia rispetto a quella di molti altri luoghi del mondo non fanno per me.
Per capirci forse meglio: fra la V° Avenue e l’Avenida del Darro a Granada con l’Alhambra che osserva i tuoi passi dall’alto del costone non ho dubbi tornerei mille e mille volte nella seconda.
Amo le città orizzontali, piene di verde e punteggiate di monumenti testimoni di un prima di noi che parla di genialità e grande progettualità, di visioni del mondo che hanno gettato ponti verso il futuro superando l’angusto orizzonte delle casupole che li circondavano.
Amo le città in cui puoi trovare quartieri o piazze che assomigliano a piccoli paesi in cui ti senti a casa perché tutto è a misura d’uomo.
Una piccola chiesa medioevale in un vigneto con a due passi una corona di case a graticcio dai colori pastello e le cicogne che fanno capolino dai loro immensi nidi sui tetti e hai trovato il tuo eden. Certo a questo ci siamo arrivati per passi e gradi, inseguendo anche il vino alsaziano, perché la porta di ingresso in Francia è stat,a e non poteva che essere, la Ville Lumière, Parigi.
Parigi culla della Rivoluzione del Terzo Stato, terra di grandi pensatori e di scrittori, punto di incontro di artisti e dei più grandi ingegni che hanno segnato l’avanzamento della cultura e dell’arte in Europa e nel mondo. Avevo 17 anni quando ci sono andata la prima volta, e non fu semplice fare i conti con una dimensione dello spazio che sovrastava di molto quello di qualunque città avessi visitato prima.
Era un perdersi continuo. Doppio , qualche volta, se mi immaginavo a dare l’assalto alla Bastiglia oppure mi vedevo sulle barricate a difesa della Comune di Parigi.
L’emozione più forte dentro NotreDame. Era il 15 di agosto. Entrammo e fummo avvolti dal buio. La cattedrale era stracolma. Gli unici su cui cadeva la luce erano l’arcivescovo e le alte autorità ecclesiastiche. Erano in alto e sospesi sulla folla. Alle nostre spalle l’organo intonò le  note della Toccata e fuga di Bach. Ogni spazio ne fu riempito. Noi senza fiato attraversati da brividi, e trasportati lontano anche da noi stessi.
Era la prima volta in quella città così importante nella storia dell’umanità. Come tutte le prime volte a prevalere fu l’esaltazione, quella vestita di ansia e di voglia di correre per vedere di tutto e di più. La città da prendere a morsi, nel tempo che subito si scopre troppo breve per il tanto che c’è da vedere .
Ci sono voluti altri viaggi, altro tempo dedicato per placare la furia esplorativa e lasciare che fossero le carezze e la leggerezza ad avere la meglio.
Ognuna delle mie 7 volte a Parigi ha portato una scoperta in più, regalandomi angoli e scorci fuori dalle guide e dai percorsi del si deve.
Nei viaggi ho scoperto man mano che sono una da seconde volte, quelle che danno spazio al riconoscere, al ripercorrere, al riassaporare. Quelle in cui ci si può soffermare anche sulle minuzie, sulle stranezze,spostando lo sguardo dalla grandeur della porta accanto.
Al furore adolescenziale della prima volta ci si trova a sostituire un sentimento più adulto e pacato, ed è quello a portare per mano in un territorio che già possiamo sentire come più amico. Il sentimento che prevale è la confidenza dei luoghi che si attraversano e si possono godere al meglio.
La seconda volta a Parigi a pochi anni dalla prima, mi vide cronachista quasi giornaliera in lunghe lettere scritte ad un mio amore di allora.
Amore a senso unico come potei scoprire ben presto. La passione era tale che pensai di regalargli il mio sguardo sulla città, le sue stranezze, i suoi personaggi.
Ho riso ad ogni riga che scrivevo e ad ogni lettera.
L’amore non era corrisposto e anche le lettere non fu chiaro che fine possano aver fatto, tuttavia nello scrivere come se lo fosse, mi sono divertita così tanto che questo ebbe la meglio tutto sommato anche sulla delusione successiva e il pensiero, mentre scrivo, riesce a scaldare il cuore ancora oggi.
Per passare dal fare i conti con la nobiltà frivola e fricchettona della Francia, giustamente travolta dagli eventi e da Madame Guillottine, all’austerità e solidità della corte e della nobiltà inglese ci sono voluti anni, inframmezzati di viaggi in macchina alla scoperta della Spagna (ben 6000 km con una 500 blu piena di ogni bendiddio ) e della Yugoslavia percorsa da nord a sud fino nell’interno per strade sterrate di chilometri per poi scoprire che a Sarajevo ci saremmo arrivati comodamente con la strada asfaltata che non beccammo assolutamente eppure correva non distante.
Volevamo attraversare il massiccio del Durmitor con i suoi boschi incontaminati, e Durmitor era stato. Buche e strattoni compresi.
Quando vedemmo il cartello che ci dava a pochi chilometri da Sarajevo tirammo un sospiro di sollievo e fummo vicini a fare una ola da stadio.
Ho incontrato le prime moschee, i primi edifici alla turca e i primi cimiteri con steli coperte da turbanti a biancheggiare nel verde dei parchi, in questa città.
Era allora un’oasi di pace e di convivenza e di intrecci familiari secolari, che di lì a pochi anni sarebbe esplosa in un apoteosi di orrori. Umanità bombardata e offesa, fatta a pezzi.
Come accadde al ponte a schiena d’asino di Mostar e al suo quartiere nelle vicinanze ricco di vita,bar allegri,di tappeti,divani  e cuscini alla turca. Facemmo qui i conti con i danni che il mito della velocità ha introdotto nei nostri comportamenti abituali.
Fu il primo caffè alla turca a darci un sonoro ceffone e una lezione che aveva un che di filosofico visto che apriva una porta su altri mondi.
Non ci fu bisogno di disquisizioni sull’elogio della lentezza. Bastò il caffè. Al primo sorso bevuto di getto, quando mandammo giù anche un bel po’ di fondi che non avevamo avuto la pazienza di lasciar depositare, ci trovammo a maledire tutte le forme di dinamismo che a partire dalla rivoluzione industriale ci sono state buttate addosso per metterci il turbo.
Il fascino del super proibito nel passaggio di un confine invece era stato sperimentato qualche anno prima. Era il 1969. La Germania est , DDR, era scritta sul passaporto insieme ad altri stati (tutti di “oltre cortina”) come territorio vietato. Andarci poteva voler dire vedersi ritirato il passaporto e per anni giocarsela male per altri viaggi anche nei luoghi non vietati.
Ma lo sappiamo,dalle nostre parti le maglie del tutto strette non sono (in questo caso direi anche giustamente). Malgrado fossimo in macchina noi di famiglia e una mia amica,il viaggio era stato organizzato attraverso l’agenzia turistica a latere della CGIL.Insieme ai 5 giorni a Praga e ai 10 a Marianske Lazne ( la Marienbad di un noto film) furono inseriti anche 4 giorni da passare a Dresda. Ci arrivammo dal confine con la Cecoslovacchia, consegnammo i documenti che l’agenzia ci aveva fornito e alla frontiera ci rilasciarono un foglio simile ad una pagina da passaporto. Ci potemmo godere in questo modo le meraviglie, molte di pittori italiani, contenute nel museo Zwinger e un passaggio in battello lungo il corso del fiume Elba fino in Sassonia.
Ovvio che oggi quando sento che solo dopo Schengen si può girare in piena libertà in Europa un po’ da ridere mi viene. In quegli anni , in macchina, di frontiere con quei mondi ne ho passate diverse ma il massimo di negatività che posso ricordare sono, e non sempre, le code al momento del controllo dei passaporti. Per il resto viaggi in libertà e senza che ci accadesse nulla .
Per arrivare alla corte inglese ci voleva l’aereo e come novello Achille non avevo granché voglia di staccare i miei piedi da terra per affidarmi alla perizia di un pilota d’aereo. Questo, malgrado mio padre cercasse di razionalizzare con i dati delle statistiche. Certo lui a Pechino da Mosca c’era arrivato con un bimotore viaggiando ad elica nel 1954, certo che realmente gli incidenti di auto siano più frequenti di quelli in aereo, altrettanto certo però che a Londra ci arrivai inteccherita come un pezzo di legno per la tensione.
Ci volle poco per sciogliere quel legno, in ogni caso.
Il concetto di città mondo l’ho sperimentato per la prima volta a Londra. Nelle sue strade facce dai colori diversi, occhi più o meno neri e inclinati,uomini con turbanti di cui avevo letto solo nei libri di Salgari o di Kipling e che scoprii frequenti quasi quanto gli autobus rossi a due piani. Nei negozi , insegne e mercanzie che erano istantanee di un impero. Il più vasto dopo quello di Roma, e uno dei più longevi prima che lo strapotere dei Gringos arrivasse a surclassarlo.
La Londra dei monumenti è nota. Così come la loro solidità e essenzialità senza fronzoli. Del primo viaggio porto con me il ricordo dei primi barboni visti a dormire fra i cartoni e in pieno centro. Fu uno schiaffo diretto e colpì duro. Eravamo dietro il Covent Garden e nella zona dei teatri. Era novembre e c’era una umanità condannata a passare la notte fuori al freddo. Fa ancora male a pensarci. Qualche anno dopo il quadro era cambiato. Non in meglio se un turista poteva accorgersi di quello che un articolo che lessi quando ero già rientrata a casa definiva come un “fenomeno preoccupante”. L’età di coloro che si aggiravano come barboni per le strade della città luccicante si era abbassata fino ad arrivare ai giovani di poco più che 20 anni. Era il 1999 con l’era della globalizzazione che stava mettendo il turbo e nelle città si approfondivano disparità e disuguaglianze.
Sarà anche per questo che ho fotografato di malavoglia i nuovi quartieri verticali che fanno corona alla Torre e al Ponte di Londra. Anzi per meglio dire ho fotografato con più di un filo di rabbia e un piglio da documentarista di ciò che proprio non amo e non mi va giù.
Frotte di archistar si sono date un gran da fare creando emblemi dello strapotere economico di compagnie di assicurazione, grandi banche e catene alberghiere. Simboli e totem per chi il cielo lo ha scalato davvero, ha vinto e stravinto la lotta di classe. E da lassù guarda con disattenzione e fastidio, se le guarda, alle masse brulicanti che quello strapotere ha messo in un angolo e in condizione di marginalità e stanno dentro sacche ben visibili anche nelle città sfolgoranti dell’Occidente ben pasciuto. 
Ci sono città in cui ho sperimentato come sia possibile fare viaggi diversi in tempi diversi.
Vienna dove la prima volta ho inseguito i Bruegel fino dentro il Kuntistorische Museum per ritrovarmi di fronte due quadri di piccolo formato che confliggevano con la grandiosità che avevo immaginato vedendone le riproduzioni in un libro magnifico dedicato alle gesta epiche dell’eroe nazionale delle Fiandre che aveva guidato la lotta per l’indipendenza dalla Spagna. Till Ulenspiegel il coraggioso, il buono, il saggio, il ragazzo del popolo, contro il sanguinario Filippo secondo re di Spagna.
Il resto fu visto seguendo le guide di allora e i percorsi suggeriti allora. Era il 1973 , l’anno del viaggio di nozze, e molte cose non le conoscevamo ancora e non erano entrate nelle nostre corde. Nel 2014 fu tutta un’altra Vienna. I monumenti erano sempre lì a raccontarla come nel 1973 ma a guidare i nostri passi e a tenerci per mano c’erano Klimt e gli artisti della Secessione e dello Jugend Stil di cui al tempo del primo viaggio non sapevo granché.
E’ accaduto lo stesso per motivi diversi con Leningrado/San Pietroburgo.
In questo caso non si è trattato di artisti o di scrittori a determinare lo scarto. Si è trattato proprio di due storie completamente diverse vissute e sentite raccontare così, dalle guide nel 1971 e poi nel 2006.
Quella del 1971 seguiva il corso di una rivoluzione nata nel paese che anche i “testi sacri” avevano considerato il meno probabile perché si determinasse. Aveva avuto luogo dal cuneo tragico introdotto dalla prima guerra mondiale e resa possibile dalla distrazione delle potenze imperialiste in lotta fra loro. I luoghi e i monumenti che visitammo erano raccontati come tasselli di quella epopea rivoluzionaria e di quei 10 giorni che avevano sconvolto il mondo secondo il racconto cronachistico del giornalista americano John Reed che li visse da vicino.
Alla fortezza Pietro e Paolo visitammo le segrete dove era morto il fratello di Lenin e dove molti anni prima erano stati imprigionati i Decabristi e Dostoevskij. E l’Istituto Smolnji lo potemmo vedere, dopo averlo letto sui libri, come luogo in cui Lenin aveva installato il quartier generale di Bolscevichi durante la rivoluzione.
Nel 2006 invece anche l’incrociatore Aurora , quello del colpo di cannone che aveva dato il via alla rivoluzione, aveva perso il suo smalto. Veniva raccontato come un inciso, un si deve ma trascurabile. E’ ancora alla fonda nello stesso punto ma trattato come parte di una storia che si deve raccontare sottovoce, come se non fosse mai avvenuta. Quindi alla Fortezza Pietro e Paolo nel 2006 ci hanno portato a visitare la chiesa con le tombe degli zar, e allo Smolnji l’attenzione la si è puntata sull’Educandato per le nobili fanciulle. Roba tranquilla e del tutto poco compromettente.
Eppure , con un po’ di immaginazione, da dentro le regge sfarzose e ridondanti di specchi , ori e broccati se lo sguardo oltrepassava le finestre perdendosi nei parchi e nelle tenute che li circondano non era difficile scorgere il volgo disperso, straccione, analfabeta , affamato e fiaccato dentro la tragedia e le distruzione della prima guerra mondiale, immedesimandosi nel suo punto di vista di escluso. Dato lo scarto di condizioni e la ferita delle disuguaglianze manifeste non era stato impossibile per un manipolo di uomini coraggiosi e determinati fornire ragioni per un rivolgimento di portata mondiale e rendere protagonista quel volgo disperso .
Le tre motivazioni di fondo valevano in quella terra come l’aria e l’acqua per ogni essere umano. Pace, pane e terra ai contadini. Parole semplici ma in grado di innescare un effetto dirompente che ispirò un movimento di portata planetaria. Mi chiedo adesso come raccontino questi stessi luoghi. Se esista una terza versione che tenga conto degli eventi per come si sono manifestati. Oppure si continui a evitare di fare i conti con una delle storie, anche ovvio per criticarne aspramente le storture, durata comunque per quasi un secolo. Non so se riuscirò a scoprirlo. Mentre scrivo forse sento che potrebbe diventare ragione per un terzo viaggio da quelle parti.
A fare contorno alle grandi città le tante piccole visitate. Fra queste le cittadine dell’Olanda costruite su terra così ostile e fragile da aver messo a dura prova l’ingegno e la fatica dei loro abitanti. Grandi i contrasti pur nell’assenza di rilievi. Terra e acqua senza quasi soluzione di continuità e una luce che solo lì si può trovare. Le case merletto sempre troppo piegate in avanti o all’indietro, a destra o a sinistra. E la birra bionda in boccali invitanti e generosi che pensavi causa di quelle visioni un po’ sghimbesce, non c’entrava nulla, era proprio così a causa del terreno poco stabile.
In Italia Vicenz . Ci sono andata per visitare una mostra di Van Gogh pensando che tutto ruotasse e finisse con la Basilica palladiana. Invece è lo stupore a guidare i passi dentro una città che scopri pensat , frutto di una concezione del mondo e figlia di una architettura non fine a sé stessa o fatta di frammenti e segmenti a sé stanti e privi di senso compiuto.
Palazzi e quartieri del centro si percepiscono sorretti da un piano,da una visione filosofica e dalla gran voglia di lanciare un segno forte anche verso il futuro.
La mia città natale Roma volutamente lasciata per ultima. Non ci sono cresciuta, visto che a due anni e mezzo son venuta a Firenze con mia nonna, mentre i miei per qualche mese ancora hanno continuato a lavorarci. Una città di cui non ho ricordi miei. Impossibili i dejà vu che uno si porta fissati nel dna. Per me era la capitale del paese non la “mia” capitale per sentimenti, sensazioni da poter far riemergere percorrendo strade, ascoltando voci o sedendosi ai tavoli con le tovaglie a quadri bianchi e rossi delle trattorie di Trastevere.
Per lunghi anni e non saprei dire perché nemmeno l’ho visitata da turista. I miei percorsi romani sono stati quelli delle manifestazioni a cui ho partecipato. Gli anni da turista sono arrivati dal 1990 in poi. Nessuna parola può descriverla o condensarla, Roma. Troppa storia e troppe stratificazioni di storie per poter trovare il verso di un racconto.
Sono i flasches degli ultimi anni e le scoperte più recenti a illuminare il ricordo. San Luigi dei francesi con I tre capolavori assoluti di Caravaggio dedicati a San Matteo che non trascuro mai nemmeno nei miei viaggi di un solo giorno.
Santa Costanza con la sua pianta circolare e i suoi mosaici. Il quartiere Coppedé con i suoi palazzi in stile eclettico e Liberty e con spaccati che portano, in qualche caso, a angoli di palazzi genovesi.
Delle notti romane una su tutte. Era il 2015. Era caldo,fin troppo, in quell’estate romana. Nemmeno il ponentino riusciva a mitigarlo. Malgrado le buone intenzioni da turiste ci trovammo ad anticipare il viaggio di rientro. Irene aveva già una bella pancia e il giro in quell’afa sarebbe stato faticoso e ci avrebbe messo alla prova.
Ce ne tornammo a casa senza troppa delusione per questo anticipo di orario di rientro. Il clou del viaggio lo avevamo già vissuto la notte prima. Alle Terme di Caracalla Elthon John aveva tenuto il suo concerto. Cantammo e ballammo avvolte da una magia che durò quasi due ore, i 35 anni di differenza fra madre e figlia si dileguarono a ritmo di rock! 

Autore: lamatitaperscrivereilcielo

Lamatitaperscrivereilcielo è un progetto di scrittura, legata all'anima delle persone che condividono un percorso di scoperta, di osservazione e di ricordo. Questo blog intende raccontare quanto non è facilmente visibile che abbia una relazione con l'Umanità nelle sue varie espressioni

8 pensieri riguardo “Una pagina tutta per sé – Nadia”

  1. Che bella cronaca di viaggi Nadia…si legge tutta d’un fiato e si vola sopra i luoghi così appassionatamente visitati.Condivido l’entusiasmo per Parigi dove anche io conobbi i primi entusiasmi e i primi dolori d’amore.Anche S.Pietroburgo ..e l’incrociatore Aurora che ho visitato da cima a fondo mi hanno emozionato non poco..curiosità:forse tutti non sanno che il famoso incrociatore non ha mai sparato il famoso colpo😂😂😂…Una sola cosa :attenti a non sottovalutare le nostre bellezze:Firenze,unica città che i Parigini considerano alla pari(e vorrei vedere) ,Roma…basta la parola..Grazie!!

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  2. Nadia grazie, ho rivisto con i tuoi occhi molti luoghi che anche io conosco… La tua descrizione è ricca e particolare, davvero ognuno “vede” la realtà attraverso il proprio unico e originale sguardo. In ciascuno risuona ciò che di più simile si presenta all’osservazione e non esiste niente che sia “bello davvero” in assoluto. Ci hai presi per mano e ci hai portati a vedere le città insieme a te… Quando si riparte?

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  3. Viaggi…Viaggi…
    Di quei pochi che ho fatto ricordo sensazioni,ma mai nomi ed anni, quelli che vorrei fare, mi sembrano impossibili,
    Stamani ero con te, ogni tanto un caffè” ma come lo fanno in Italia, mai”
    Non mi sono stancata, ho ballato rock e non solo….grazie Nadia, grazie
    Ps: ma siamo sicuri che x certi scritti sia sufficiente un ” mi piace”???

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  4. Alcuni dei tuoi viaggi sono stati anche i miei.Il tuo entusiasmo e il tuo modo speciale di raccontare il viaggio rafforza il mio desiderio: desidero viaggiare!
    I viaggi vicini o lontani sono e lo saranno sempre il mio respiro
    Grazie Nadia…al prossimo viaggio!

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  5. Non esistono città di per sè ma esse nascono dagli occhi di chi le guarda. Questa pagina ne è la prova. Proprio come pensavo, quello che Nadia sceglie di guardare, di far vivere, balza su e si mostra. Gli sguardi cambiano nel tempo e ogni volta lo stupore incanta e contagia

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  6. Attraverso i viaggi e i vissuti diversi, si fa strada una visione del sociale e un desiderio di uguaglianza con sprezzo dello spreco e delle ostentazioni. Si ritrova la vera Nadia, genuina e combattiva che anche con un racconto porta avanti la sua battaglia per la giustizia sociale.

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