Giallo….chiedo perdono

Giallo e basta – di Rossella Gallori

Prendo una  gomma  gigante, una di quelle robuste, che sanno cancellare le cose tristi…la impugno come una spada, come un coltello, come un qualcosa che mi difenda, dai sogni brutti, dalle stelle gialle senza cielo, ma con un buio pesto….che ti fa star ferma con il fiato sospeso ed il moccio che cola giallognolo e salato.

Prendo una matita blu e un po’ cialtrona scarabocchio a bestia, fino a che il giallo non diventa verde.

Prendo la preziosa salsa di pomodoro, frutto di mani volenterose ed abili, ed agitando  un vecchio mestolo spruzzo quel sole “gialloimpertinente” per farlo diventare un patetico ovetto occhio di bue, che in un secondo sparirà tra le mie labbra.

Ricordo con stupida rabbia che mi vestii di giallo al matrimonio di mio fratello, per stare male, non volendo far andar via da casa quel surrogato di babbo….ricevetti molti complimenti, per l’ inconsueta scelta, ne uscii ancor più incazzata.

Ho lottato, influenzata e convinta,  con rose gialle, timide pansè ed imponenti girasoli, ho gettato campanule dorate.

Ho imbastito strane battaglie con il Vov, con il risotto con lo zafferano, pure con la fricassea ho lottato….

Ho litigato a volte anche con i limoni, non guardandoli….

Ho perso inutili guerre, privandomi di un qualcosa che mi spettava, quasi cieca e muta difronte ad un colore bello, che sa di vita, di caldo, di cibo, di profumo, che sta bene alle more, quando è vivace, alle bionde quando sfuma all’ arancio…e dona un brio inatteso alle teste grigie, cancellando, se pur per illusione ottica, qualche ruga…

Chiedo perdono, senza inginocchiarmi, non esageriamo, ad un colore, chiedo venia ….e se poi non merito l’ assoluzione, mandatemi un mazzo di gerbere  gialle, che non so se esistono, ma, lo ammetto, son sempre un bel vedere.

Giallo insieme

Parete gialla – di Patrizia Fusi

Nuvole in movimento come soffitto, ghiaia di diversi colori come pavimento, nel giardino vagone del treno, trasformato in bar fantasioso, le ruote del vagone ferroviario sembrano due facce con occhi bianchi.

  Parete gialla del teatro, le persiane marroni delle due stanze dove ci trovavamo per i nostri incontri, tanti ricordi belli di quei pomeriggi. Le stanze è come mi chiamassero e mi chiedessero quando torneremo, anche a loro manchiamo, ora si sentono sole e vuote, lo sentono strano che siamo in giardino e non da loro, non hanno saputo del virus.

Stefania verde.

Tina chiara.

Anna viso triste.

Sandra colorata.

Rossella riccioli vivaci.

Cecilia calda rassicurante.

Io triste.

Laura colori autunnali.

Mimma blu.

Lucia rosso a fiori.

Daniele capelli bianchi.

 Pensiero gentile di Daniele e di Tina per tutti noi, Daniele ha portato un cestino con piccole mele colorate, Tina bastoncini di legno colorati e profumati

Due grosse ruzzole di legno.

 Dietro di me uno schermo in muratura, ricordi di film visti nelle notti estive di tanti anni fa. Colombi sfrecciano su di noi, rumore di una granata che spazza delle foglie, leggero fruscio di traffico, un raggio di luce tiepido ci accarezza per pochi minuti, dal campanile la campana suona la mezz’ora, leggere voci di bambini in ricreazione nel giardino della scuola della parrocchia.

Bello essersi ritrovati in presenza e aver conosciuto Lucia e Daniele

Sole giallo

Sole di carta – di Carmela De Pilla

foto di Carmela De Pilla

È una delle tante storie che aveva lasciato lungo il sentiero della sua vita, ogni tanto guardava indietro e la vedeva lì, come poter dimenticare? Alla fine però aveva capito, doveva lasciarla andare quella storia, liberarsene, se voleva credere ancora nel futuro.

Era accaduto tutto per  caso, a volte il destino ti aiuta a scoprire la verità senza che tu vada a cercarla.

Era una brava moglie Ninuccia, aveva affrontato ogni difficoltà con la forza che la povertà ti obbliga a trovare dentro e quando Giuseppe aveva deciso di partire per Milano in cerca di lavoro lei lo incoraggiò, sapeva che era l’unica via d’uscita per sperare in una vita migliore.

Si occupò della sua famiglia che ormai aveva perso il senso della famiglia e si dedicò ai tre figli perché non mancasse loro niente del necessario.

Giuseppe ritornava a casa due volte l’anno, per Natale e per il 15 d’agosto e ogni volta era una festa, per i figli che ricevevano in dono qualche giocattolo e per Ninuccia che poteva gioire di quell’unione familiare a cui teneva tanto.

Era già sera inoltrata e pensò che ormai sarebbe arrivato l’indomani, faceva caldo quella sera e la porta di casa posta al piano terra era aperta, improvvisamente se lo vide davanti, con la piccola valigia e la giacca sulle spalle, nel suo aspetto fiero e sorridente, mille emozioni entrarono in circolo e il sangue incominciò a scorrere senza alcun freno.

Era un bell’uomo Giuseppe, i capelli neri incorniciavano il suo viso dai lineamenti marcati e il naso greco, come amava definirlo lui, metteva in risalto il suo sorriso smagliante, ma ciò di cui si era innamorata Ninuccia erano i suoi occhi carbone, sempre vigili e curiosi che non nascondevano una spiccata intelligenza.

Si abbracciarono con contegno e le labbra si sfiorarono appena, a quei tempi non era dignitoso manifestare sfacciatamente i propri sentimenti, anche i bambini rimasero un po’ in disparte, quasi intimiditi poi Giuseppe prese in braccio il più piccolo e abbracciò con impeto gli altri due.

A Ninuccia era ritornato il buonumore, i suoi occhi erano radiosi, finalmente…

Prese la valigia, la giacca e andò in camera, nella concitazione la giacca le cascò in terra e dalla tasca uscì un foglio di carta ripiegato in quattro, lo aprì e vide il disegno di un sole giallo splendente con una scritta “Sei per me il sole che illumina la mia vita” e tra le piegature una piccola foto di una donna dai capelli biondi come il grano e dagli occhi azzurro mare.

Una lunga lama le trafisse la pancia e rimase senza fiato, rimise il tutto nella tasca e ritornò in cucina, i suoi occhi non erano più radiosi, ma seppe ben nascondere  la ferita che aveva appena subito.

Aveva deciso di non parlarne con nessuno, nemmeno con Giuseppe, era abituata a convivere con la sofferenza, non poteva permettere che quella donna distruggesse la sua famiglia.

Per qualche anno l’aveva tenuta ben nascosta questa ferita e la sera, sola nel letto, una folla di fantasmi si impossessavano della sua anima e le impedivano di trovare pace.

Aveva nevicato quella notte e la mattina seguente era andata nel boschetto alle spalle di casa sua, le piaceva immergersi in quella natura selvaggia quando si sentiva prigioniera dei suoi pensieri,  camminava avvolta nel suo cappotto con la sciarpa che le copriva quasi del tutto il viso, l’unico rumore era quello della neve stropicciata dalle scarpe con ritmo lento e pesante.

Guardava i fitti alberi spogli e infreddoliti i cui rami si spingevano con forza verso l’alto quasi a volersi liberare dai pesi che altrimenti li avrebbero costretti a  ripiegarsi, Ninuccia rimase incantata da quell’architettura che la natura aveva costruito così sapientemente e s’innalzò anch’essa smaniosa di liberarsi dai pesi che si portava dentro.

Alzò lo sguardo e intravide tra i rami la luce di un sole giallo pallido che via via diventava sempre più accecante, la donna si sentì avvolta dal flebile calore e lentamente lasciò che la sua ferita come farfalla volasse verso quell’energia, la lasciò lì, lungo quel sentiero.

La neve, gli alberi, il sole, la natura tutta l’avevano accompagnata verso la libertà.