La ficaia di Maremma – di Gabriella Crisafulli
Il ritorno a Vacchereccia al tramonto, dopo aver trascorso tutta la giornata in spiaggia, era davvero duro. Riuscivano solo a fare metà salita poi dovevano scendere di bicicletta. Ma lì, alla seconda curva, avvolta da insetti ronzanti, c’era la ficaia che emanava un profumo intenso dall’ombra della sua nicchia. Mentre lei si asciugava il sudore che entrava fin dentro agli occhi, lui si inoltrava in quell’oasi e ne veniva fuori sempre con qualche fico. Li mangiavano lì prima di riprendere a camminare. Dopo la doccia, a cena, li aspettava il cestino colmo di frutti che raccoglievano di prima mattina, a Spergolaia, dalla Romilda.
Li accoglieva sempre soave e grata perché lei, i fichi, non li poteva dare nemmeno ai maiali: “Gli vengono gli scioglimenti” diceva. “E poi, quando cadono, fanno tanto sporco!”
Li mangiavano con il pane, alla maniera dei contadini, mentre lui si soffermava a mostrare la differenza fra un frutto ed un altro a lei che non distingueva un fico da un fiorone!
La narrazione non aveva mai fine e, come in ogni storia che si rispetti, veniva ripetuta sempre uguale, sempre diversa.
C’era il profumo che veniva fuori dalla fornacetta mentre cuocevano gli involtini di foglie di fico che colmavano il trullo di aromi.
C’era la nonnina Anna alle prese con i graticci per l’essiccazione dei frutti, con la capatura delle mandorle per il ripieno, con l’estrazione del succo, con le spase per l’ultima asciugatura in paese, nel forno a legna.
E poi c’erano i fichi per ogni ora del giorno e per ogni occasione: venivano declinati in marmellate, gelatine, vin cotto, mustaccioli, cartellate, rose, sasanelli, panzerotti, przzid, …
Creavano un sottofondo che sapeva di affetti, di legami, di tradizioni: evocano le radici profonde di un mondo perduto.