Occhi sulle nuvole

IN AGOSTO SULL’APPENNINO TOSCO – EMILIANO – di Elisabetta Brunelleschi

La città è immersa nell’afa dell’agosto.

Rino e Paolina sono alla ricerca di una pausa di fresco, decidono che l’unica possibilità di refrigerio è andarsene verso la montagna.

Cercano, tra gli amici rimasti in città, qualcuno che abbia voglia di una camminata sugli Appennini.

Ci sono Gabri e Alex, basta una telefonata! Anche loro in città, anche loro oppressi dall’afa, anche loro con la voglia di scappare!

Infatti Alex ha già pronto un itinerario: due giorni tra la Doganaccia e la Capanna Tassone,   con sosta al lago Scaffaiolo.

Partono la mattina del 14 agosto, la città è ancora addormentata.

In quattro in un’auto, con gli zaini ben stipati nel portabagagli, imboccano la Firenze-Mare.

Procedono tranquilli, i pochi mezzi che transitano sono per la maggior parte diretti in Versilia.

Escono al casello di Pistoia e la salita verso Cutigliano quasi si trasforma in un viaggio in solitaria.

Curva dopo curva raggiungono la Doganaccia. Qui i gitanti del Ferragosto hanno già iniziato a sistemare i tavolini da picnic e a impossessarsi delle aree attrezzate per la grigliata. 

I nostri quattro parcheggiano e appena scesi dall’auto, si lasciano accarezzare dall’aria fresca della montagna.

Le donne s’infilano prudentemente le felpe, gli uomini affrontano invece a braccia nude il leggero venticello.

Zaino in spalla e via, un piede davanti all’altro, contenti del cammino, seguono la segnaletica bianco\rossa che li condurrà al passo della Croce Arcana.

La strada, all’inizio un comodo sterrato, lentamente s’inerpica, si avvolge come una spirale e a tratti è scomoda e sassosa. I faggi da alberi dritti e svettanti diventano bassi e contorti, sino a disporsi in radi cespugli striscianti che si mescolano coi sorbi montani e via via cedono il passo ai prati erbosi dei crinali.

La giornata è serena, il sole scalda le membra, verso l’alto il panorama si allarga e sul crinale sembra di dominare il mondo. 

Giunti al valico, si fermano per alcuni minuti di fronte al memoriale che ricorda le vittime dell’ultima guerra mondiale e poi ripartono, su per le brughiere appena ingiallite dal sole dell’estate.

Il sentiero ora è più stretto e i quattro amici camminano in fila indiana, accompagnati dal fruscio del vento e dal parlottio lontano dei pochi escursionisti che si avventurano in alta quota.

Paolina dice che solo salendo in alto si può capire e gustare la montagna, gli altri concordano, ma la conversazione muore lì, preferiscono la magia dei silenzio. 

È mezzogiorno passato e lo stomaco reclama una sosta.

Si siedono in uno spiazzo erboso appena fuori dal sentiero. Dallo zaino ognuno trae il proprio panino. E si divertono a indagare il contenuto.

“Pomodoro e tonno”. 

“Frittata di zucchini”. 

“e qualcosa anche per domani..”

“ Una scatoletta di tonno?”

“ No, del formaggio”.

“ Noi anche le barrette”.

Intanto Alex distende sull’erba la cartina e controlla il percorso:

“C’è ancora un bel tratto, ma, ci rassicura, sarà tutto in discesa e all’ombra. Inizierà una bellissima foresta di faggi, una zona protetta”.

Commentano, osservano la carta, rammentano rifugi e paesi visitati in passato e concordano su come certi tratti dell’Appennino tosco-emiliano assomiglino alle Alpi.

“ Sì, soprattutto il passo delle Radici, e quello delle Forbici e il monte Prato …”

“ E il passo di Annibale”.

“Già, c’è anche il Dente della Vecchia”.

Nessuno vuole ripartire, le ore di luce sono ancora tante e possono rimanere lassù a godersi il cielo azzurro.

Si distendono sull’erba e chiudono gli occhi.

E qui per Paolina avviene il miracolo.

Apre gli occhi e nel pieno dell’azzurro vede galleggiare due enormi nuvole bianche. Subito si ricorda quando da bambina si fermava incantata a guardare le nuvole. E in quelle masse bianche vedeva gatti, galli, ballerine, profili di uomini o donna con nasi adunchi che si arrotondavano e poi si trasformavano in spuma del mare. Le zie le dicevano:

” … guarda, c’è un un cane, ha la bocca aperta, guarda, guarda, … oh! Ora non c’è più!”

Immobile nell’erba, testa appoggiata sullo zaino e occhi sbarrati, Paolina osserva il cielo. Le nuvole si allargano, si allungano, si fondono e sospinte dal vento si spostano verso ovest. Dai bordi sfrangiati di un batuffolo bianco emerge il muso una volpe che in un attimo  diventa un pesce e poi il cappello di un prestigiatore che leggero svanisce tra vele e onde.

Paolina chiude gli occhi e tutto diventa un sogno avvolto nel silenzio ovattato della montagna. Lontane le pene, lontani i pensieri, solo il regalo di una tregua.

Nemmeno il chiacchierio di un gruppo di escursionisti interrompe il suo riposo. Gli occhi restano chiusi.

Poi una voce di donna emerge più vicina:

“Quanto manca alla la Croce Arcana? Grazie!”

“Poco, qualche sali-scendi e ci siete!”

Rispondono gli altri in coro.

Paolina riapre gli occhi, gli escursionisti sono già lontani. Ritorna la magia del silenzio.

Una nuvola copre il sole e l’aria fresca e frizzante dell’alta montagna si fa sentire sulle guance e sulle braccia. Le nuvole vanno e vengono, il sole riscalda e l’ombra raffredda.

A un certo punto Rino si alza e dice che è il momento di ripartire.

Alex subito si drizza in piedi e per primo afferra lo zaino.

Gabri e Paolina stirando braccia e gambe lentamente si tirano su. Paolina dà ancora uno sguardo al cielo:

“ Avete visto che nuvole”.

“ Speriamo non si trasformino in pioggia”.

“ No! Il meteo ha detto bel tempo”.

Paolina raccoglie le sue cose, è pronta.

Iniziano a camminare deviando verso destra. Lentamente abbandonano il crinale e dopo una ripida discesa raggiungono il bosco di faggi. Ora il sentiero diventa un’ombrosa strada. Pochi chilometri e come un miraggio appare la Capanna Tassoni. Posta nella valle di Lamola, è una vecchia struttura in pietra circondata dal bosco, ingentilita dall’accento modenese dei gestori e molto frequentata sia in estate che in inverno.

Gabri, Alex, Rino e Paolina prendono possesso dei letti, sistemano i sacchi a pelo, cercano la zona dove il telefono può prendere, s’informano sulla cena:

“Ci saranno anche le crescentine”.

Poi si siedono intorno a un tavolino e fra un te e una birra, chiacchierano di politica, di libri letti e di minute questioni giornaliere.

Per poche ore quello sarà il luogo ideale per una pausa dai ritmi incalzanti della città. 

Il giorno dopo ripartono con calma, il percorso non sarà molto lungo, ma ci sarà una bella salita.

Dall’ombrosa faggeta, si addentrano nella boscaglia, poi percorrono i prati e sempre in costante e a tratti ripida ascesa. Il fiato si fa corto, ma i nostri non demordono, ancora pochi passi e raggiunto il crinale, scenderanno al rifugio Duca degli Abruzzi, dove li attende una meritata sosta.

Via via che la meta si avvicina aumentano gli escursionisti lungo il sentiero e sui prati intorno.

Al termine della salita, scavalcando nel versante toscano, ecco che appare la conca erbosa affiorante di rocce che accoglie il lago, uno specchio d’acqua di modeste dimensioni ma brillante di luce, incorniciato da terra marrone e erba verde e in quel 15 agosto brulicante di gente.

In tanti sono saliti allo Scaffaiolo: c’è chi è disteso al sole, chi è seduto sul prato, chi cammina intorno alla riva, chi rincorre il cane e chi con gioia gioca coi bambini. 

Poco più in alto si vede il rifugio con i suoi muri in pietre grigie e una folla tutta assiepata nel piazzale antistante da dove giunge l’eco di una musica allegra e saltellante.

I nostri si avvicinano incuriositi.

 Che bella sorpresa!

Un trio composto da chitarra, batteria e fisarmonica intona canti della tradizione toscana. Quella gran folla è davanti al rifugio per ascoltarli.

Paolina e Gabri si fermano, si siedono su un muretto e si lasciano trasportare dagli stornelli e dai rispetti.

Gli uomini preferiscono farsi un giretto tra i sentieri lì intorno.

Un senso di allegria emana dal pubblico che con il battito delle mani accompagna il ritornello di un canto e con le voci stonate ripete uno stornello.

I raggi roventi del sole non si attenuano neppure col vento che di tanto in tanto va a increspare le acque del lago. Gabri ne è disturbata e si sposta nel rifugio. Paolina si mette il cappello, ma non lascia la postazione.

L’allegro cantare del trio la riporta alla gioventù, quando da ragazzina, si era appassionata alla musica popolare e aveva collezionato testi e registrazioni di brani toscani e anche di altre regioni. Ascolti e letture che le permettevano di ritrovare le origini contadine dei suoi avi e di comprenderne la vita.

Dalle strofe di una ninnananna sentiva trasparire i disagi del mondo femminile.

Dalla tiritera di una filastrocca poteva capire le fatiche del contadino piegato sulla terra.

Un rispetto le raccontava il dominio dei padroni.

E poi i doppi sensi, le malizie, gli scherzi, l’amore tradito e il pan pentito che le donne mal maritate andavano a mangiare.

Quei canti le fanno venire in mente la sua collezione di dischi in vinile, delle edizioni  “Dischi del Sole”, raccoglievano canti popolari dell’Italia intera. Dove saranno finiti? in cantina? si saranno persi come quei tempi felici?

“Ti sei incantata? Dobbiamo andare”

La voce di Gabri la riporta al presente.

“ Ma loro dove sono”

“Ci stanno aspettando, c’è ancora da camminare e dobbiamo tornare a Firenze”

Si avviano e insieme ricordano il concerto di una cantante folk, che aveva recuperato stornelli e rispetti amiatini.

“Mi sembra sia morta una decina d’anni fa”.

“ Il concerto. Sono passati quasi quarant’anni!”

Si ritrovano tutti e quattro all’imbocco del sentiero che li ricondurrà alla Doganaccia.

Paolina si volta verso quel pezzo di montagna colorato di gente e saluta con il cuore l’eco lontano della fisarmonica. Alza gli occhi e nel cielo terso ritrova una nuvola bianca.

Partono avanzando svelti sul percorso che scende, scende e scende.

Paolina sente l’aria che cambia, vede gli alberi nel bosco: la montagna più bella per quel giorno la sta abbandonando.

Ma torneranno, cammineranno ancora sulle cime dell’Appenino, questa è la promessa. Alex già progetta un’uscita in inverno:

“Con le ciaspole, appena c’è neve!”

Rino concorda. Le donne, invece temono il gelo.

“Andate pure, noi verremo in estate!” “O in primavera, ma dopo che la neve si è sciolta!”.

Occhi di fantasmi

INCUBO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE – di Luca Di Volo

Sul finire di via Montebeni, proprio dove essa termina traformandosi in via dell’Olmo, sulla sinistra, lievemente spostata verso l’interno, si ergeva (e tuttora si erge) un grazioso edificio.

In origine fu creato come cappella di famiglia per i nobili del luogo, circa alla fine del XVIII secolo… In seguito fu abbandonato, usato per scopi diversi, le guerre e i rivolgimenti sociali lo condannarono al silenzio e al mistero.

Ma non tutto fu dimenticato…tra i fittavoli del posto circolava a bassa voce una leggenda nera. Si parlava tra i denti e facendosi il segno della croce in continuazione, di un certo fatto di sangue proprio in quel luogo benedetto..u.n conte avrebbe ucciso la moglie e l’amante sorpresi in flagrante adulterio. Poi si sarebbe trafitto con la stessa arma.

Com’è ovvio, di episodi simili non c’è traccia nei cronisti del tempo né nei registri ecclesiastici. Ma questo non deve stupire, a quel tempo (come ora) con molti talleri si poteva nascondere sotto il tappeto tante cose…

Comunque, le visioni su quel luogo maledetto si sprecavano. Un contadino, in una notte di luna piena, aveva giurato di aver visto lì nei pressi un cavallo con sopra un cavaliere che portava la sua testa, anziché sul collo, sulla punta della sua spada..

Il poveretto fu internato a S.Salvi e non se ne è saputo più nulla.

Però la nera leggenda gotica persisteva.

Naturalmente se ne parlava durante l’Estate, quando, abbandonate le case, le donne, giovani e vecchie, si portavano la seggiolina fuori sul marciapiede e si preparavano ad affrontare il dolce rito del “frescheggiare”. Con tutto il corredo di chiacchiere e sussurri, immancabile.

Gli uomini giocavano a carte, chi a ventuno, chi a briscola, ma qualche commento sulle nuove spose o servette del quartiere animava sempre l’ambiente tra i tavolini all’aperto.

E i ragazzi…..già, i ragazzi… loro che facevano?!

Io mi ricordo solo quello che idearono quella sera.

Era Luna piena. Ad uno dei più grandicelli (si fa per dire), un certo Luigi, detto Ghighi, venne un’idea fantastica: Ragazzi, sevvucciavete coraggio, stasera si va avvedere la cappella degli spiriti.

Il silenzio scese ma tra il passare da vili o da eroi, non ci fu esitazione, molti avrebbero gradito che la mamma li chiamasse a casa (io), ma la mamma era lì che non ci pensava nemmeno.

Allora…tutti coraggiosi. Infatti un gruppetto di fieri eroi con visi sbiancati e gambe tremule si misero in fila e col coraggio della disperazione si misero in fila dietro al comandante. Che a quanto sembrava non era molto più coraggioso, ma di mezzo c’era l’onore e il posto di capo. Come al solito.

Durante il cammino, si erano un po’ rincuorati, qualcuno aveva anche ripreso a scherzare.

Ma quando il piccolo edificio sbucò da dietro una curva, bianco e spettrale nella cruda luce della Luna, zittirono tutti.

Anche perché questa pausa di assoluto silenzio fece sì che si potessero udire, proprio provenienti dalla cappella, gemiti, piccoli urli, rumori, grugniti…

Con un fil di voce Ghighi farfugliò..E son l’anime de dannati, stasera ci dev’essereissabba”.

Chissà perché in quel momento la curiosità ebbe la meglio sulla fifa, che era tanta, ma la voglia di vedere qualcosa fu più forte.

Quindi si avvicinarono, un passo avanti e due indietro…fino al cancello che li fece passare, sgangherato com’era.

Ora erano proprio davanti alla bocca nera dell’ingresso.

I gemiti, i sospiri, le mezze parole, le urla, evocavano davvero una specie di notte di Valpurga, sembrava che tutte le anime del Purgatorio si fossero date convegno..

Inconsapevoli delle gambe che li portavano avanti, stringendosi le mani sudaticcie, avanzarono ancora..e qualcosa ,nella penombra fallace del chiarore lunare, qualcosa videro.

Sarebbe stato meglio non vedere, ai loro occhi apparve una massa informe, senza capo né coda..uno di loro, Paolino, strillò: ”Madonna cià quattro gambe!!”.

Mal gliene incolse. Il mostro si scisse in due ..ne emerse un orco gigantesco nell’ombra che cominciò a berciare: ”Ora ve lo do io, brutti ragazzacci, evuvvenite addànnoia alla poera gente, ma ora ci penso io..” E afferrato un che di nodoso lo brandi’ con l’evidente scopo di romperlo in testa ai malcapitati.

Ma questi ultimi non fecero nemmeno in tempo a vedere quell’atto..già: erano schizzati via come avessero davvero il diavolo alle calcagna, la paura li faceva volare, letteralmente..La discesa di Montebeni fu compiuta in una frazione di secondo, mentre le urla belluine poco a poco si attenuavano. L’Orco non poteva competere con i cuori freschi e allenati di quei ragazzini.

Verso il Ponte a Mensola ripresero fiato….cominciarono i commenti. Ancora Paolino: ”O macchèavisto, l’era tutto ignudo..”

E Ghighi, con sufficienza :”Ma untelanno insegnao i preti che spiriti son sempre ignudi, io vorrè sapè icchevinsegnano alla Parrocchia”

Così s’è capito qualcosa dell’Italia di allora.

Ma a me scappò: ”E quell’altro..Madonna..un s’è nemmen visto, l’è rimasto nibbuio, si vede si nascondeva dalla luce, o chi era?!”

“O chi volevi che fosse..un’altra anima dannata..già ,più dannata della prima..” Questo era il solito Ghighi.

Nessuno al ritorno ebbe il coraggio di parlare. Le mamme la mattina dopo ci dettero a tutti un po’ di VOV perché ci vedevano un po’ sciupatini, e infatti ci furono domande da Inquisizione, ma tutti tenemmo duro. Ci tenemmo tutti dentro le nostre visioni…finché ormai abbastanza grandicelli, si capì cosa stavano combinando l’Orco e la Demonessa. Una risata liberatoria fece svanire i mostri.

PS:Non si stupisca il lettore di tanta ingenuità tra ragazzini  ancora in età prepubere, a quei tempi. Tra mamme reticenti, babbi sempre a lavorare, e poi preti e monache scoraggianti,l a conoscenza dei cosidetti “fatti del mondo” procedeva zoppicando tra travisamenti ,incomprensioni, tabù..e tanto altro. Quindi questa storia, che è vera ,è perfettamente aderente alle conoscenze e alle superstizioni che erano proprie dei ragazzi del rione di S.Salvi nell’Anno del Signore 1950.

Occhi nel parco

Piccolo sole – di Laura Galgani

Finalmente è stato riaperto Hyde Park. Mi è sempre piaciuto venirci la domenica mattina. La fontana dedicata a Lady D. mi accoglie appena varcato l’ingresso. Mi fermo e mi chino a far scorrere l’acqua fresca fra le mani. E’ una fontana scavata nel prato, che ricorda le piste per le palline sulla sabbia. Mi pace immaginare i bambini che d’estate torneranno a giocarci dentro.

A sinistra il Serpentine River è più tranquillo del solito. Niente barchette che vanno su e giù, ancora non si può.

Accelero il passo, ho bisogno di sentire il mio corpo che scatta, il cuore che batte forte e il respiro farsi più frequente, ma dopo pochi passi devo rallentare. Non sono libera di respirare. La mascherina che indosso me lo impedisce. Ho la tentazione di tirarla giù, ma ci sono altre persone non molto distanti da me, non posso. Cerco di fare un respiro profondo, mi calmo e mi guardo intorno. In lontananza, i grattacieli e la sagoma di Saint Paul mi ricordano dove mi trovo.

Guardo di nuovo dritto davanti a me. Una sagoma scura si avvicina. E’ una donna musulmana che indossa il niqab. E’ tutta coperta; i capelli nascosti, il viso reso invisibile dal velo, il corpo appena intuibile sotto la lunga tunica, le mani coperte dai guanti.

Stiamo andando l’una incontro all’altra. Io sbuffando impacciata sotto la mia mascherina, lei determinata e dal passo elegante come una regina. Mi guarda, dall’unico spazio scoperto mi aggancia già da lontano. Nel mio procedere incerto mi lascio afferrare dalla forza che promana dai suoi occhi, anche se ancora non li vedo. Fisso il mio sguardo sull’unica apertura intuibile di quella creatura, mentre continuiamo ad avvicinarci.

Fino a poco tempo fa non avrei avuto il coraggio di guardare una donna col niqab. L’imbarazzo sarebbe stato troppo forte, così come l’impulso di giudicare. Ora però è cambiato qualcosa, mi rendo conto che non siamo più così diverse. Lei col niqab, io con la mascherina. Vedo i suoi occhi. Sono truccati con eleganza. I miei no. Occhi grandi, verdi, ciglia lunghe, curvate sapientemente all’insù. Mi osserva intensamente, mi sorride. Lo capisco dai suoi occhi. Sono perplessa, non so cosa fare. Lei domina la situazione, io non possiedo i codici comportamentali minimi per districarmi in questa situazione inedita.

Devo decidermi in fretta, stiamo per incrociarci. Il suo sguardo è ancora più esigente, richiede una risposta.

E allora sì, mi lascio andare, faccio prevalere ciò che ci accomuna. Rispondo con un sorriso pieno che mi illumina gli occhi. Le nostre scintille si incontrano e insieme formano un piccolo sole che per un istante brilla fra noi due. Ci incrociamo e ci salutiamo con un lieve ceno del capo.

Due sorelle si sono riconosciute grazie a quella barriera che le ha rese simili.

Continuo a camminare contenta di non aver perduto l’occasione di vincere un mio pregiudizio.