Ti racconto una storia – Cipolla e borotalco

Cipolla e borotalco – di Carmela De Pilla

Era affaticato Ugo, stanco di una vita sempre in rincorsa, ma pur sempre sereno e fiducioso. Amava camminare da solo nelle stradine solitarie e ancora si stupiva nel vedere l’ape immergersi a capofitto nella corolla del fiore di ciliegio, la sera però gli piaceva ritrovarsi con gli amici al bar Adriatico per la solita partitella a tre sette, mentre la Fernanda che serviva ai tavoli aveva la solita espressione annuvolata quasi a voler dire “ ma quando  ve ne andate?”. La serata finiva sempre con qualche battuta seguita dalla sua risata scoppiettante e fragorosa che metteva di buon umore.

-Non ho voglia di giocare a carte stasera – disse Ugo – faccio quattro passi e vado a trovare Piero.

Era quel momento del giorno in cui il sole lancia gli ultimi raggi e la luna timidamente incomincia ad affacciarsi tra le nubi, portava un po’ di malinconia è vero, ma era rilassante.

Camminava per la stretta stradina con il suo passo lento e trascinato, le mani raccolte dietro la schiena, un po’ingobbito per l’età e troppo rinsecchito, ma la sua figura ricordava ancora quel giovane bello e sempre sorridente di una volta, assorto tra mille pensieri si ritrovò tra le poche case di quella periferia quasi abbandonata.

Da una casa con le finestre socchiuse usciva un odore di soffritto, quello che fa pensare subito alla cipolla quasi bruciacchiata, Ugo seguì l’odore, entrò dal retro in un giardino ormai trascurato che manteneva però le sembianze di quello che una volta era stato curato e amato.

C’era una finestra aperta e incuriosito si alzò sulla punta dei piedi aggrappandosi alla soglia, non c’era nessuno, si sentiva solo lo squillo del telefono provenire da un’altra stanza, sullo sfondo della parete un grosso camino con due piccole panche all’interno, il grande alone nero di fuliggine  sembrava racchiudesse ancora il calore del fuoco.

All’improvviso  la sagoma di una donna, si muoveva con eleganza e teneva nelle mani un vaso di fiori appena raccolti, la lunga gonna a fiori frusciava mentre si avvicinava al tavolo, sentì nell’aria la sua sonora risata che un tempo gli metteva tanta allegria, sentì perfino l’odore di borotalco che gli piaceva tanto quando le sfiorava la guancia con un bacio.

Ma è l’Armida, disse Ugo sibilando il nome tra le labbra, si commosse nel pronunciarlo poi la chiamò più forte, con la voce del cuore, ma nello stesso istante l’immagine svanì nel nulla, la cercò nella stanza, niente…

Tutto era accaduto in pochi minuti, l’antico amore si era affacciato tra i suoi ricordi così prepotentemente da poterlo quasi toccare.

Ti racconto una storia – La schiscetta amorosa

La schiscetta amorosa – di Gabriella Crisafulli

La voce veniva dalla finestra aperta. Ripeteva parole ogni giorno uguali: 

“Siamo alle solite, anche oggi soffritto di cipolla!”

Anna era in casa, al riparo, ma faceva in modo che il suo messaggio arrivasse forte e chiaro alla vicina.

Al piano di sotto il marito borbottava sottovoce fra sé e sé: “Dai, non dar fuoco alle micce!”

Era in giardino, intento a ripulire la siepe dai ributti che erano il riparo preferito di zanzare, serafiche e tafani. Provava un senso d’imbarazzo per quel che diceva sua moglie e si allontanò per non essere visto dalla vicina. Andò nella stanza degli attrezzi a cercare il seghetto ma anche da lì si sentiva l’insofferenza annuvolata di Anna che continuava nel suo soliloquio, così decise di terminare il lavoro più tardi e salì in casa anche perché era da un po’ che il telefono squillava a vuoto: la donna era troppo intenta nel suo scontento per rispondere. Quando entrò, innanzitutto, la moglie lo assalì con le parole: “Anche oggi siamo alle solite, soffritto di cipolla di primo mattino. Chiudi la finestra di camera, chiudi tutte le finestre!”

Remo affondò il suo sguardo nell’ espressione di Anna, le parlò con voce calma e pacata ma il tentativo non riuscì a distrarla dal suo chiodo fisso, anzi aumentò il malumore che venne riversato su di lui con l’accusa di dare sempre ragione agli altri.

Al di là della siepe, nell’abitazione vicina, nella grande cucina disordinata affollata di oggetti, in quella stanza che è il suo regno, Gemma sorride mentre è intenta a preparare il pranzo. L’aria è satura di profumi che cancellano fatiche e risvegliano passioni e godimento. L’atmosfera che si respira, ricca di benessere e piacere, abbraccia ogni cosa e l’avvolge. Così lei si dona alla vita, fondendo il retaggio di mondi e amori a chi siede alla sua tavola e non, come quei vicini per i quali prepara, come al solito, un assaggio delle sue pietanze nella schiscetta della sua infanzia.

Ti racconto una storia – Il professore

Il professore di filosofia – di Roberta Morandi

Entrò in classe un omino rinsecchito e ingobbito, con gli occhiali appesi al naso appuntito, la sua figura preannunciava un modo ostinato e severo di rapportarsi coi ragazzi di quell’età esuberante di ormoni spesso olfattivamente repellenti.

Chiudendo la porta, sposta  l’aria, già pesa della 4° ora, lasciando entrare una lieve scia di cipolla, di soffritto di cipolla, quasi fosse stato nelle ore precedenti a girare il sugo della moglie, che da letto malata, impartiva ordini su cosa doveva fare. Sicuramente la sua casa doveva essere oscura, con grandi finestre  ma con poca luce, quasi che il sole non volesse entrare per paura di essere cacciato via, un aria tetra, scura con mobili tetri e scuri, e tutto era disordine: libri aperti uno sull’altro e accanto semi e bucce forse di mela sopra una carta assorbente macchiata d’inchiostro vecchio, più in là il portamatite rovesciato al passaggio del gatto grigio pure lui, una tazzina macchiata di caffè ormai secco sul fondo; in fondo si vedeva la cucina in ombra col focolare nero di fumo, che in passato aveva visto sicuramente tempi migliori, sul fuoco un tegame di coccio in cui sfrigolava nell’olio la cipolla.

Lui mescolava con un cucchiaio di legno quei petali rosati, rossi e biancastri dai margini neri, ma era riuscito a bruciarla forse perché la  sua mente vagava sempre tra Schopenhauer e Platone.

Il professore di filosofia teneva quell’aria annuvolata quasi ce l’avesse col mondo per la vita grama che gli si era girata contro, ma qualcosa nel suo sguardo tradiva l’amore che ancora portava per l’insegnamento.

Era stata la sua grande passione insieme  a Lei, la sua compagna prima e moglie poi, con cui aveva deciso di vivere in campagna, nella casa dei nonni di lei nella campagna toscana, dove insieme avevano imparato, filosofeggiando sui massimi sistemi del capitalismo e della vita, “l’arte di coltivare la terra per ricavarne frutti che amore volmente crescevano per il loro sostentamento”, così descrivevano la loro scelta di vita rurale.

Lei,  giornalista del Paese di Roma prima e del Paese Sera poi, lo aveva visto quel giorno a Roma nella sede de L’Unità per un seminario, era da poco finita la guerra e il morale era alle stelle speranzoso e proiettato mille anni luce avanti. Fu subito passione: una lunga treccia rossa fino al sedere, un passo sinuoso e sciolto quasi a dire guardami e due occhi verdi di gatta s’incontrarono  con una chioma riccia nera e lunga che incorniciava un viso scarno e furbetto, gli occhiali tondi da miope, di chi ha passato i suoi anni di ragazzo chino sui libri. Durante tutto il seminario si erano guardati  negli occhi e alla fine senza una parola erano fuggiti via con le mani strette: che grande scopata quella sera!

Questo stava  frullando nella testa del professore mentre entrava in classe con la sua scia di soffritto di cipolla, e per la prima volta la sua bocca prese una piega diversa, quasi un sorriso… fu un attimo, ma sufficiente da essere colto dai sessanta occhi penetranti e pronti alla derisione, ma questa volta s’incuriosirono e un lungo brusio si sviluppò nell’aula. Mai a memoria d’alunno quel ghigno perenne aveva preso la strana piega di quasi un sorriso.

Vollero sapere tutto.

E tutto fu detto…o quasi.

Fu la più bella lezione d’amore e di storia degli ultimi 20 anni anche per quei ragazzi degli anni 70, pieni d’ormoni e di speranze.

Suona la campanella e lentamente le labbra del professore tornano a serrarsi sottili, beffarde, gli occhi prima scintillanti di voluttà ridiventano puntuti e stridenti e la sua figura che per due ore si era eretta finalmente soddisfatta, pin piano era tornata ad ingobbirsi e rinsecchirsi: e la magia finisce.

quei ragazzi della 5°A degli anni 70 si porteranno agli esami e per sempre la memoria di quell’omino ingobbio e rinsecchito in odor di soffritto di cipolla che per due ore aveva soffritto la sua immagine al grigiore di una vita grama esaltandola nella bellezza di un amore per la vita.

Ti racconto una storia – Niente è come sembra

Aroma familiare – di M.Laura Tripodi

I profumi del borghetto medievale sembravano imprigionati nei vicoli stretti, in quel momento battuti dalla pioggia. L’umidità provocava strane mescolanze fra i profumi dei giardini e gli odori che scappavano fuori dalle finestre in quei preparativi di giorno festivo.

Forse qualche massaia si stava affaccendando ai fornelli perché al naso di Giuditta arrivò prepotente un  aroma familiare di  ragù e si sentì risucchiata dal tempo.

La domenica era il giorno in cui si cucinava come Cristo comandava.

Il profumo della carne al sugo era sempre rimasto imprigionato nelle sue narici e ora chiedeva giustizia.

Ma giustizia di che?

Di ricordi dolci e teneri, di cose semplici, di bambini che speravano in una distrazione della mamma per inzuppare un pezzetto di pane nel sugo gorgogliante.

Espresse questo pensiero a Lara. Lo fece in maniera gioiosa, ma l’amica la guardò con aria distante e rispose accigliata che in ogni casa  niente è come sembra e che a lei quel profumo non trasmetteva proprio niente.

Eccola là la bisbetica che aveva sempre da ridire su tutto. Mai una nota romantica, mai una considerazione tenera.

Lei invece quella mattina si sentiva contenta. Lasciò l’amica a ribollire nella sua indifferenza, proprio come il sugo sui fornelli.

Ma non proprio.

Se la immaginò a questionare con una se stessa rinsecchita e ansiosa.

Continuando a camminare, in silenzio però, provò a immaginare quante storie, quante persone, quanta vita avevano abitato quel borgo.

Ancora una volta fu investita da odore di cibo.

Alla finestra di un  primo piano si affacciò una donna sorridente che mise a freddare sul davanzale un tegame pieno di polpette.

Ti racconto una storia – Le polpette piccanti

Soffritto e polpette piccanti – di Anna Meli

            Un odore di soffritto aleggiava nella cucina, era acuto e stuzzicante. Un omino risecchito e ingobbito da sembrare deforme, girava col mestolo un trito di cipolla in un tegame di coccio posto sul fornello, che imbiondiva e scuriva a poco a poco, rilasciando un odore particolare di gustoso attaccaticcio. Era solo e, per farsi compagnia, parlottava fra sé e sé ricordando e rivivendo momenti passati intrecciati spesso a un po’ di fantasia.

            Di chi era quella casa disabitata, circondata da un grande giardino in abbandono dove anche la cuccia del cane era deserta? Ricordava, una finestra semiaperta che lasciava intravedere una stanza  in disordine e un tavolinetto polveroso dove un telefono squillava a vuoto.

            Ecco, sì…vi abitavano marito e moglie, ma nonostante gli sforzi non ricordava i loro nomi. Lei era una donna stanca e spenta che sembrava aver sofferto molto per un tradimento del marito, anche se poi, anche lei aveva le sue colpe.

            Tutti la chiamavano “la signora“ per quel suo atteggiamento altero e distaccato, solo gli occhi sembravano profondamente tristi quasi annoiati. Niente comunque avrebbe potuto  scalfire la sua immagine quando si mostrava agli altri.

            Gli sembrava di vedere la sua figura stagliarsi netta sullo sfondo del focolare nero di fumo, avvolta nella sua vestaglia rosa e giallognola!

            Il trito di cipolla color nocciola era quasi pronto in attesa degli altri ingredienti e ad un tratto ricordò: lei aveva la fissa delle polpette piccanti affogate nel sugo di pomodoro! E si mise a ridere….