La colpa è di tua madre

Atterrare sul tappeto – di Rossella Gallori

Ci sono giorni in cui dai la colpa a tua madre, di quasi tutto. Ci sono giorni che per fortuna…passano.

Gocce, sempre solo gocce, quelle della placenta di sua madre, erano fiele, ma non l’ avevano avvelenata… nata ugualmente, così, di notte, un po’ di corsa e per poco non era atterrata su quel tappeto dalla frangia sfilacciata, grasso e morbido, privo di una rete antiscivolo…e pensare che negli anni sarebbe servita, non poco.

Ci sono giorni, in cui credi di ricordare il momento in cui sei nata, avverti anche il profumo delle peonie che entrava dalla finestra, l’odore del pane tostato lasciato sul tavolo e le voci  si le voci vecchie ed arrugginite: proprio ora?

….Uno sparo, uno  scatto  e “ploc”  atterri in un mondo, in una casa che sta in piedi solo perché lo vuole, anche se ha le ossa rotte e scricchiolanti e le pillole occupano tutti i comodini delle camere come centrini di macramè; una casa vecchia ed un po’ puttana aperta a tutti…e la sera si cantava e si contava, perché la strada era quella, ed una volta percorsa, si va avanti anche con il semaforo rosso.

Si ricordava, che era nata, il giorno in cui nessuno si era fermato, nemmeno allo stop…nessuno sapeva, lei, lei si…

Compagni

La pipa del compagno – di Roberta Morandi

Erano amici. O forse solo compagni, ma non solo perché si ritrovavano a giocare a tre sette al Circolo dell’Antella. La scusa erano le carte per sparlare del governo e di politica o forse più il contrario?

Fatto sta che da quando lui fiorentino di nascita e figlio di una “intelighenzia” altolocata era arrivato all’Antella in quella colonica dietro il cimitero e si era saputo, come si sanno le cose nei paesi, che era comunista, fu subito ammesso fra i compagni di carte.

La nebbia spessa e acre del fumo di sigaretta e della sua pipa si tagliava col coltello, tanto era spessa in quella stanza da gioco: al tavolo vicino alla finestra rigorosamente chiusa sedevano tutti e tre a giocare e in attesa del quarto: una donna, l’unica ammessa al tavolo, l’unica che poteva competere con le carte col gruppetto, e l’unica che riusciva a tenere testa alle parole irriverenti e spesso vere dell’archeologo contadino come lui amava definirsi.

Le sue mani anchilosate, per l’età ancora giovane, la sua pelle rosolata dal sole di molte estati e primavere, dal vento e dalla terra, tenevano ben salde quelle carte, mentre le sue labbra serravano ben strette la sua memorabile pipa e fra una bestemmia e un’imprecazione al governo in carica, riusciva a declinare tutti i santi in un grandioso rosario dei tempi moderni.

Per lui fermarsi, anche con le parole, significava cancellare tutto quanto, e questo poteva riferirsi alla politica dell’attuale Partito Comunista, alle carte che stava giocando in quel momento, come al suo lavoro.

E fu per quello, il suo lavoro, che non aveva lasciato le cose per bene, quando per un sasso sdruccioloso e le scarpe poco adatte scivolò nel burrone con la sua pipa poco lontano e l’ultima bestemmia morta sulle labbra.

The e biscottini

Terzo tempo – di Tina Conti

Dopo giorni di pioggia, finalmente il sole da dietro i cespugli illuminava l’orto.
Era rimasta in casa con i suoi animali uggiosi e annoiati per tutto il tempo.
Non si era fermata un attimo però, accesa la stufa per allentare l’umido che penetrava nelle  ossa, aveva preso il cassetto delle foto per riordinarlo.
Di tempo ne era occorso tanto, si fermava sulle foto ascoltando le emozioni e dando il via ai ricordi, a volte non riconosceva  i personaggi e avvicinava le foto agli occhiali per esaminare con più attenzione.
Rivedeva le scuole dei vari paesi dove era stata, le colleghe, alcune amate altre nemmeno considerate era per questo che stentava a riconoscerle.
Anche con le nuove tecnologie aveva voluto confrontarsi e ne era fiera, ora aveva questa finestra sul mondo che le faceva tanta compagnia.
Si dispiaceva che quel suo vecchio computer a volte non rispondesse come lei voleva.
Suo figlio invece ne era contento perché così la poteva pensare appisolata  davanti alla stufa e finalmente a riposo.
Tutta la vita era stata attiva, per anni aveva recitato in teatro, posato come modella  negli studi di scultura e poi per quello che sarebbe diventato suo marito.
Da quando si era trasferita in campagna aveva iniziato a fare l’insegnante.
Poi quello schiaffo, lo ricordava ancora con tanta emozione  sente  sempre un pizzico nelle mani e nel cuore.
Era stato necessario, Ada aveva avuto una crisi isterica dopo che l’insegnante di lettere l’aveva umiliata davanti a tutti, nello sgabuzzino, non riusciva a farla smettere di agitarsi, lo schiaffo fu  il rimedio per farla rientrare in classe  e non rendersi ridicola davanti a quella stupida  donna.
Erano diventate amiche, confidenti il tempo era passato ma l’attesa della sua alunna del cuore  la entusiasmava ancora.
Fra poco sarebbe venuta, che casa in disordine! tutti quei libri ammucchiati, ciotole per il cane e il gatto, le foto sparpagliate sul tavolo.
Non si scoraggiò, con mani tremanti, arrancando sulle sue gambe incerte, sposto’ il tavolino rotondo  vicino alla finestra, mise la tovaglia fiorita con lo sfilato e sopra il centrino di pizzo.
Sistemò le tazze da the di porcellana francese e accomodò nel piattino i biscotti al burro, infilando le forbici nel grembiule da lavoro andò in fondo al giardino  dove scelse le dalie più belle e le zinnie luccicanti di pioggia che finirono in un piccolo vaso.
Si sentiva stanca ma felice, andò in bagno, si passò una spolverata di cipria sul viso, si mise il suo rossetto color prugna.
Le mani che erano sempre il suo problema, furono spazzolate  e ripulite dai residui di terra e piante, guardò il cesto della legna bello pieno che Giuseppe aveva  posato sul tappeto vicino alla stufa.
Le scarpe da tempo non le portava volentieri  ma indossò un bel paio di zoccoli foderati di lana dono di suo figlio.
Ultimo vezzo lo scialle di lana di cammello con i ricami di seta, poi, una spruzzata di profumo di violetta. E attese.

….per concludere …Ti racconto una storia – Tiziano

Gli occhi di Tiziano – di Tina Conti

Era saltato giù dal rimorchio in corsa, andando a sbattere contro qualcosa di molto duro, forse il marciapiede di quella strada buia.
Non ne poteva più di quel l’odore di nafta  mista a guano di pollo.
Dopo tanto sbatacchiare, aveva trovato un varco fra quelle gabbie puzzolenti e sacchi di concime.
Erano giorni che non mangiava, si sentiva debole , non capiva il perché di quel gesto.
Era sempre stato trattato bene, anni di attenzione e affetto, poi, ora buttato fuori come un oggetto; non sapeva dove si trovava, in quei luoghi che non gli dicevano niente.
Sentiva un dolore al collo, sul corpo pesavano come una corazza strati di sporco che non poteva togliere.
Doveva conservare tutte le sue energie per trovare un posto sicuro in cui sistemarsi.
Guardando intorno scorse un isolato di case basse e di aspetto gradevole.
Si avvicinò alla prima, fece un giro intorno, passò vicino alla cuccia del cane che era vuota, al casotto degli arnesi tutto malandato e che faceva pensare non utilizzato da anni , non sentiva nessun rumore e neppure odori familiari.
Rimase sospettoso anche guardando una luce che proveniva da una stanza dove il telefono stava squillando. Vide sotto un ponte in lontananza  qualcuno che se la passava peggio di lui.
Il vecchio gobbo e rinsecchito che veniva strattonato e deriso dai pochi passanti  che come ombre  si affrettavano veloci e lo costringevano a farsi ancora più piccolo ogni volta .
Non doveva darsi per vinto, raccolse tutto il coraggio e le poche energie che aveva, si avvicinò alla finestrella dello scantinato da cui  proveniva un odore invitante.
Avrebbe fatto di tutto  per  mettere qualcosa sotto i denti.
Sembrava odore di cipolla rosolata , forse anche bruciacchiata.
Dall’angolo della casa, scorse seduta mollemente una donna, truccata e ben pettinata, avvolta in una coperta rosa e ocra, appariva distante e imbambolata, stranita.
Lo guardo’ con curiosità, lo salutò con la mano, per fortuna non lo accarezzò, avrebbe subito allontanato la mano.
Dietro una porta si sentiva  una voce dura e incarognita, lei rimase immobile, si guardava i sandali luccicanti a quei suoi piedi piccoli e graziosi, qualcuno diverso dal marito glieli aveva regalati.
Si alzò mollemente e andò a friggere in una cucina buia e affumicata quelle
polpette congelate che aveva comprato di ritorno dal circolo delle carte.
Qualcosa toccherà anche a me disse il gatto, cominciando a miagolare in modo suadente; se mi rimetto in forma, tornerò il bel Tiziano che sono stato una volta.

Ti racconto una storia – Stoffa e cielo

La coperta andina – di Laura Galgani

A quella coperta ocra e rosa era molto affezionata; l’aveva comprata per pochi denari in un villaggio andino dove tutto era a colori: i cappelli degli abitanti – piccoli di statura in confronto a lei, così alta e slanciata – le loro sacche portate su una spalla sola, i camicioni lunghi fino alle ginocchia. In quell’autunno buio e ventoso le piaceva rinvoltarsi in quei colori che la riportavano là, a giorni felici, fatti di nebbie aggrappate alle colline, sorrisi, spezie e grida di bimbi.

Il fuoco del camino le faceva compagnia mentre preparava le polpette piccanti, come gliele aveva insegnate Rosalia, in quel villaggio andino. Usava sempre molta cipolla e naturalmente piangeva mentre l’affettava, sottile sottile. Le piaceva guardare quelle belle fette violacee, rosa, bianche, farsi a tratti trasparenti ma poi, inesorabilmente, bruciare ai bordi immerse nell’olio di arachide che sfrigolava tutto intorno. L’odore che emanava dalla padella di rame, che rifletteva i bagliori del camino, la riportava sempre là, fra le casupole di legno affacciate sulle strade polverose del villaggio andino. Per questo le preparava sempre, quando sapeva di dover ricevere quell’amico speciale.

Quando era sola, invece, non le preparava mai. Rosalia glielo aveva detto con tono perentorio, che non lasciava scelta: se le cucini solo per te, la magia svanisce, e la solitudine diventa sempre più grande e insopportabile. E così dicendo le indicava Josè, seduto su uno sgabello in fondo alla via, proprio all’angolo della chiesa, ocra come la terra là intorno, che ogni giorno pareva rinsecchirsi sempre di più. Era condannato alla solitudine per aver cucinato le magiche polpette solo per sé. Da allora, ogni volta che qualcuno lo interpellava, si faceva più piccolo, curvo, rinsecchito, punito per aver cercato soddisfazione solo per sé, invece di farsi dono per il mondo. L’ultimo giorno lo aveva salutato pensando che Josè sarebbe presto scomparso. Da quando era tornata pensava spesso a ciò che l’aveva spinta a partire: quel giardino deserto, vuoto, intorno alla grande casa, nel quale aveva giocato tanto da piccola e i cui alberi erano cresciuti con lei, ora affondato nel silenzio, non lo poteva sopportare. Nemmeno il cane c’era più, la sua cuccia era rimasta vuota, e lui scappato chissà dove. Il capanno degli attrezzi chiuso a chiave, il tetto mezzo divelto. La finestra del primo piano era aperta, si intravedevano i vestiti buttati qua e là, i libri per terra e il letto, disfatto. Il telefono sulla scrivania suonava, incessantemente, ma nessuno rispondeva. Un’angoscia mordace le salì da dentro, a ripensarci. Dopo il terremoto, che non aveva distrutto la casa, nessuno voleva più vivere lì. Delle crepe profonde la solcavano insidiose, non viste. Nemmeno i suoi genitori volevano più tornarci. Chissà se sua madre, adesso, nella casetta prefabbricata, aveva ancora quell’espressione stanca e annuvolata, che apparentemente la dipingeva come vittima di un marito brontolone ed esigente, o se la scossa violenta, arrivata dalle viscere della terra, aveva cambiato qualcosa anche dentro di lei. Ma non lo poteva sapere: l’orgoglio di figlia ribelle e indomita le impediva di fare un passo verso di loro e andare a trovarli

Ti racconto una storia – La felicità del fritto misto

Felicità di fritto misto – di Patrizia Fusi

Sta finendo l’autunno. I ragazzi giocano nell’aria tiepida lungo la  strada davanti alle case del  borgo

Stefania sì è messa di lato, guarda gli altri giocare, quando in lontananza, nella strada polverosa vede arrivare un omino tutto risecchito e con la schiena piegata che per camminare aveva bisogno del bastone. Si chiede chi può essere, non lo aveva mai visto prima d’ora, nel borgo si conoscevano tutti…L’omino passa davanti al gruppo, loro non lo notano sono intenti nei loro giochi, ma Stefania è curiosa, la più curiosa di tutti e lo segue.

Lo vede entrare nel giardino della villa della signora Emma, la portafinestra del salone è aperta, apparentemente sembra che non ci sia nessuno, l’omino entra e sparisce dentro. La bambina guarda incantata: la porta è aperta si vede nel fondo della grande cucina il camino tutto nero con una bella fiamma guizzante rosso vivo, la massaia con la mantellina di lana sulle spalle di tre colori, avana rosa coi bordi marroni (avanzi di altri lavori).

 In un angolo del camino sta cucinando, su dei tre piedi ha un grossa padella sopra tizzoni rossi incandescenti, dalla porta esce un gradevole odore di fritto che fa venire l’acquolina in bocca.

Questo odore fa affiorare alla mente di Stefania il ricordo delle cene che sua mamma preparava, il fritto di patate, pane in pastella, carciofi, animelle accompagnato da insalata di campo condita con aceto e olio.  E dietro quel sogno si perde….

Ti racconto una storia – Complicità di polpette

Complicità – di Mirella Calvelli

Alfea era una donna imponente, i suoi capelli grigi erano sempre ben accomodati, il suo passo era spedito, sembrava sempre dovesse andare da qualche parte.

Ma era stanca Alfea, di quella relazione lunga e insoddisfacente, da farle desiderare un po’ di riposo.

Tanta fierezza fisica in uno sguardo annuvolato o forse in una mente annuvolata da pensieri contrastanti.

Cercava Beppe in quel giardino, il loro, abbandonato a se stesso.

Gli attrezzi dormivano in fondo al capanno, in un oblio senza tempo e il tempo aveva iniziato a scalfirli, coprendoli di polvere e facendoli mangiare lentamente dalla ruggine.

La colpa di tutto questo era di Beppe!!
Ma dov’era Beppe?….La finestra del soggiorno era semiaperta e l’aspetto al suo interno era tutto scompigliato, come i lunghi capelli bianchi di Beppe…sicuramente era passato di là!

“Senti, squilla…ma lui dov’è?”

Non c’è neanche Birillo, il vecchio pastore alsaziano, unica traccia la sua ciotola rovesciata, di uno che doveva avere fretta, molta fretta.

Poi un rumore lieve, distoglie la sua perquisizione…una risatina lieve, sommessa.

Si fa guidare da quei piccoli rumori che la portano giù nella tavernetta.

Non è buia, come di solito, ma illuminata di un giallo oro, misto ad un arancio scintillante. Il caminetto è l’artefice di quei colori, scoppietta allegro, come se conversasse , emanando un odore di fritto, anzi di soffritto che le arriva come una ciaffata su quel lungo naso impettito.

“Cipolla?…ho sempre odiato la cipolla!!”

Lo scorge, il “Suo” Beppe seduto al canto del focolare,  raggrinzito ed ingobbito, ma felice con il fedele Birillo ai suoi piedi.

Alfea vede la sua felicità anche di spalle. Conosce bene Beppe. Vede le sue braccia esili ma nodose, comparire dalle maniche della camicia arrotolata.

Poi dei passi, non suoi, l’ombra di una donna si avvicina è avvolta in una coperta di lana. Adesso quel fuoco complice, illumina anche lei, infagottata in quel bel rosa ed ocra: “Beatrice?”

Tira fuori le mani tremanti da quella stola e mostra un bel piatto con tante palline di carne.

Ora la cipolla è dorata e loro saltano dal piatto nella padella, che sfrigola allegra, illuminando il volto felice di Beppe. Le osserva ballonzare, smuove delicatamente il manico facendole scontrare l’una con l’altra. Estasiato le rimira, le odora come se fosse ad una prima teatrale.

Si volta di scatto  alla voce imperiosa di Alfea e i due rimangono immobili. Beppe rientra sempre più in se stesso e Beatrice rimane pietrificata come se l’avessero scoperta a rubare la marmellata e lentamente piega il capo, rifugiandosi nella sua coperta , come una tartaruga nel suo carapace.

Solo Alfea ha un moto di rabbia, uno stizzo che la fa sembrare ancora più altera…Fin quaggiù per delle polpette!!

Ti racconto una storia – Cipolla e borotalco

Cipolla e borotalco – di Carmela De Pilla

Era affaticato Ugo, stanco di una vita sempre in rincorsa, ma pur sempre sereno e fiducioso. Amava camminare da solo nelle stradine solitarie e ancora si stupiva nel vedere l’ape immergersi a capofitto nella corolla del fiore di ciliegio, la sera però gli piaceva ritrovarsi con gli amici al bar Adriatico per la solita partitella a tre sette, mentre la Fernanda che serviva ai tavoli aveva la solita espressione annuvolata quasi a voler dire “ ma quando  ve ne andate?”. La serata finiva sempre con qualche battuta seguita dalla sua risata scoppiettante e fragorosa che metteva di buon umore.

-Non ho voglia di giocare a carte stasera – disse Ugo – faccio quattro passi e vado a trovare Piero.

Era quel momento del giorno in cui il sole lancia gli ultimi raggi e la luna timidamente incomincia ad affacciarsi tra le nubi, portava un po’ di malinconia è vero, ma era rilassante.

Camminava per la stretta stradina con il suo passo lento e trascinato, le mani raccolte dietro la schiena, un po’ingobbito per l’età e troppo rinsecchito, ma la sua figura ricordava ancora quel giovane bello e sempre sorridente di una volta, assorto tra mille pensieri si ritrovò tra le poche case di quella periferia quasi abbandonata.

Da una casa con le finestre socchiuse usciva un odore di soffritto, quello che fa pensare subito alla cipolla quasi bruciacchiata, Ugo seguì l’odore, entrò dal retro in un giardino ormai trascurato che manteneva però le sembianze di quello che una volta era stato curato e amato.

C’era una finestra aperta e incuriosito si alzò sulla punta dei piedi aggrappandosi alla soglia, non c’era nessuno, si sentiva solo lo squillo del telefono provenire da un’altra stanza, sullo sfondo della parete un grosso camino con due piccole panche all’interno, il grande alone nero di fuliggine  sembrava racchiudesse ancora il calore del fuoco.

All’improvviso  la sagoma di una donna, si muoveva con eleganza e teneva nelle mani un vaso di fiori appena raccolti, la lunga gonna a fiori frusciava mentre si avvicinava al tavolo, sentì nell’aria la sua sonora risata che un tempo gli metteva tanta allegria, sentì perfino l’odore di borotalco che gli piaceva tanto quando le sfiorava la guancia con un bacio.

Ma è l’Armida, disse Ugo sibilando il nome tra le labbra, si commosse nel pronunciarlo poi la chiamò più forte, con la voce del cuore, ma nello stesso istante l’immagine svanì nel nulla, la cercò nella stanza, niente…

Tutto era accaduto in pochi minuti, l’antico amore si era affacciato tra i suoi ricordi così prepotentemente da poterlo quasi toccare.

Ti racconto una storia – La schiscetta amorosa

La schiscetta amorosa – di Gabriella Crisafulli

La voce veniva dalla finestra aperta. Ripeteva parole ogni giorno uguali: 

“Siamo alle solite, anche oggi soffritto di cipolla!”

Anna era in casa, al riparo, ma faceva in modo che il suo messaggio arrivasse forte e chiaro alla vicina.

Al piano di sotto il marito borbottava sottovoce fra sé e sé: “Dai, non dar fuoco alle micce!”

Era in giardino, intento a ripulire la siepe dai ributti che erano il riparo preferito di zanzare, serafiche e tafani. Provava un senso d’imbarazzo per quel che diceva sua moglie e si allontanò per non essere visto dalla vicina. Andò nella stanza degli attrezzi a cercare il seghetto ma anche da lì si sentiva l’insofferenza annuvolata di Anna che continuava nel suo soliloquio, così decise di terminare il lavoro più tardi e salì in casa anche perché era da un po’ che il telefono squillava a vuoto: la donna era troppo intenta nel suo scontento per rispondere. Quando entrò, innanzitutto, la moglie lo assalì con le parole: “Anche oggi siamo alle solite, soffritto di cipolla di primo mattino. Chiudi la finestra di camera, chiudi tutte le finestre!”

Remo affondò il suo sguardo nell’ espressione di Anna, le parlò con voce calma e pacata ma il tentativo non riuscì a distrarla dal suo chiodo fisso, anzi aumentò il malumore che venne riversato su di lui con l’accusa di dare sempre ragione agli altri.

Al di là della siepe, nell’abitazione vicina, nella grande cucina disordinata affollata di oggetti, in quella stanza che è il suo regno, Gemma sorride mentre è intenta a preparare il pranzo. L’aria è satura di profumi che cancellano fatiche e risvegliano passioni e godimento. L’atmosfera che si respira, ricca di benessere e piacere, abbraccia ogni cosa e l’avvolge. Così lei si dona alla vita, fondendo il retaggio di mondi e amori a chi siede alla sua tavola e non, come quei vicini per i quali prepara, come al solito, un assaggio delle sue pietanze nella schiscetta della sua infanzia.

Ti racconto una storia – Il professore

Il professore di filosofia – di Roberta Morandi

Entrò in classe un omino rinsecchito e ingobbito, con gli occhiali appesi al naso appuntito, la sua figura preannunciava un modo ostinato e severo di rapportarsi coi ragazzi di quell’età esuberante di ormoni spesso olfattivamente repellenti.

Chiudendo la porta, sposta  l’aria, già pesa della 4° ora, lasciando entrare una lieve scia di cipolla, di soffritto di cipolla, quasi fosse stato nelle ore precedenti a girare il sugo della moglie, che da letto malata, impartiva ordini su cosa doveva fare. Sicuramente la sua casa doveva essere oscura, con grandi finestre  ma con poca luce, quasi che il sole non volesse entrare per paura di essere cacciato via, un aria tetra, scura con mobili tetri e scuri, e tutto era disordine: libri aperti uno sull’altro e accanto semi e bucce forse di mela sopra una carta assorbente macchiata d’inchiostro vecchio, più in là il portamatite rovesciato al passaggio del gatto grigio pure lui, una tazzina macchiata di caffè ormai secco sul fondo; in fondo si vedeva la cucina in ombra col focolare nero di fumo, che in passato aveva visto sicuramente tempi migliori, sul fuoco un tegame di coccio in cui sfrigolava nell’olio la cipolla.

Lui mescolava con un cucchiaio di legno quei petali rosati, rossi e biancastri dai margini neri, ma era riuscito a bruciarla forse perché la  sua mente vagava sempre tra Schopenhauer e Platone.

Il professore di filosofia teneva quell’aria annuvolata quasi ce l’avesse col mondo per la vita grama che gli si era girata contro, ma qualcosa nel suo sguardo tradiva l’amore che ancora portava per l’insegnamento.

Era stata la sua grande passione insieme  a Lei, la sua compagna prima e moglie poi, con cui aveva deciso di vivere in campagna, nella casa dei nonni di lei nella campagna toscana, dove insieme avevano imparato, filosofeggiando sui massimi sistemi del capitalismo e della vita, “l’arte di coltivare la terra per ricavarne frutti che amore volmente crescevano per il loro sostentamento”, così descrivevano la loro scelta di vita rurale.

Lei,  giornalista del Paese di Roma prima e del Paese Sera poi, lo aveva visto quel giorno a Roma nella sede de L’Unità per un seminario, era da poco finita la guerra e il morale era alle stelle speranzoso e proiettato mille anni luce avanti. Fu subito passione: una lunga treccia rossa fino al sedere, un passo sinuoso e sciolto quasi a dire guardami e due occhi verdi di gatta s’incontrarono  con una chioma riccia nera e lunga che incorniciava un viso scarno e furbetto, gli occhiali tondi da miope, di chi ha passato i suoi anni di ragazzo chino sui libri. Durante tutto il seminario si erano guardati  negli occhi e alla fine senza una parola erano fuggiti via con le mani strette: che grande scopata quella sera!

Questo stava  frullando nella testa del professore mentre entrava in classe con la sua scia di soffritto di cipolla, e per la prima volta la sua bocca prese una piega diversa, quasi un sorriso… fu un attimo, ma sufficiente da essere colto dai sessanta occhi penetranti e pronti alla derisione, ma questa volta s’incuriosirono e un lungo brusio si sviluppò nell’aula. Mai a memoria d’alunno quel ghigno perenne aveva preso la strana piega di quasi un sorriso.

Vollero sapere tutto.

E tutto fu detto…o quasi.

Fu la più bella lezione d’amore e di storia degli ultimi 20 anni anche per quei ragazzi degli anni 70, pieni d’ormoni e di speranze.

Suona la campanella e lentamente le labbra del professore tornano a serrarsi sottili, beffarde, gli occhi prima scintillanti di voluttà ridiventano puntuti e stridenti e la sua figura che per due ore si era eretta finalmente soddisfatta, pin piano era tornata ad ingobbirsi e rinsecchirsi: e la magia finisce.

quei ragazzi della 5°A degli anni 70 si porteranno agli esami e per sempre la memoria di quell’omino ingobbio e rinsecchito in odor di soffritto di cipolla che per due ore aveva soffritto la sua immagine al grigiore di una vita grama esaltandola nella bellezza di un amore per la vita.

Ti racconto una storia – Niente è come sembra

Aroma familiare – di M.Laura Tripodi

I profumi del borghetto medievale sembravano imprigionati nei vicoli stretti, in quel momento battuti dalla pioggia. L’umidità provocava strane mescolanze fra i profumi dei giardini e gli odori che scappavano fuori dalle finestre in quei preparativi di giorno festivo.

Forse qualche massaia si stava affaccendando ai fornelli perché al naso di Giuditta arrivò prepotente un  aroma familiare di  ragù e si sentì risucchiata dal tempo.

La domenica era il giorno in cui si cucinava come Cristo comandava.

Il profumo della carne al sugo era sempre rimasto imprigionato nelle sue narici e ora chiedeva giustizia.

Ma giustizia di che?

Di ricordi dolci e teneri, di cose semplici, di bambini che speravano in una distrazione della mamma per inzuppare un pezzetto di pane nel sugo gorgogliante.

Espresse questo pensiero a Lara. Lo fece in maniera gioiosa, ma l’amica la guardò con aria distante e rispose accigliata che in ogni casa  niente è come sembra e che a lei quel profumo non trasmetteva proprio niente.

Eccola là la bisbetica che aveva sempre da ridire su tutto. Mai una nota romantica, mai una considerazione tenera.

Lei invece quella mattina si sentiva contenta. Lasciò l’amica a ribollire nella sua indifferenza, proprio come il sugo sui fornelli.

Ma non proprio.

Se la immaginò a questionare con una se stessa rinsecchita e ansiosa.

Continuando a camminare, in silenzio però, provò a immaginare quante storie, quante persone, quanta vita avevano abitato quel borgo.

Ancora una volta fu investita da odore di cibo.

Alla finestra di un  primo piano si affacciò una donna sorridente che mise a freddare sul davanzale un tegame pieno di polpette.

Ti racconto una storia – Le polpette piccanti

Soffritto e polpette piccanti – di Anna Meli

            Un odore di soffritto aleggiava nella cucina, era acuto e stuzzicante. Un omino risecchito e ingobbito da sembrare deforme, girava col mestolo un trito di cipolla in un tegame di coccio posto sul fornello, che imbiondiva e scuriva a poco a poco, rilasciando un odore particolare di gustoso attaccaticcio. Era solo e, per farsi compagnia, parlottava fra sé e sé ricordando e rivivendo momenti passati intrecciati spesso a un po’ di fantasia.

            Di chi era quella casa disabitata, circondata da un grande giardino in abbandono dove anche la cuccia del cane era deserta? Ricordava, una finestra semiaperta che lasciava intravedere una stanza  in disordine e un tavolinetto polveroso dove un telefono squillava a vuoto.

            Ecco, sì…vi abitavano marito e moglie, ma nonostante gli sforzi non ricordava i loro nomi. Lei era una donna stanca e spenta che sembrava aver sofferto molto per un tradimento del marito, anche se poi, anche lei aveva le sue colpe.

            Tutti la chiamavano “la signora“ per quel suo atteggiamento altero e distaccato, solo gli occhi sembravano profondamente tristi quasi annoiati. Niente comunque avrebbe potuto  scalfire la sua immagine quando si mostrava agli altri.

            Gli sembrava di vedere la sua figura stagliarsi netta sullo sfondo del focolare nero di fumo, avvolta nella sua vestaglia rosa e giallognola!

            Il trito di cipolla color nocciola era quasi pronto in attesa degli altri ingredienti e ad un tratto ricordò: lei aveva la fissa delle polpette piccanti affogate nel sugo di pomodoro! E si mise a ridere….