Ho sognato di volare – di Carmela De Pilla

Volare, quante volte ho sognato di volare.
Di giorno, di notte!
Quando ero bambina sognavo spesso di volare, era il modo più semplice per liberarmi da quella prigione che ingabbiava il mio corpo e la mia anima.
Mi incantavo davanti al volo armonioso delle farfalle che disegnavano nell’aria graziose coreografie e le seguivo con lo sguardo finchè non sparivano del tutto.
Vedevo anche il luogo dove si incontravano, ali colorate che dipingevano tele impalpabili contro l’azzurro accecante del cielo e io con loro danzavo spensierata e felice.
E invece no, non ero affatto felice!
Volevo scavalcarlo quel muro, divorare la porta di quel collegio che mi separava dai miei genitori emigrati in Germania quando io ero troppo piccola per capire.
Tra le mura di quel giardino altri bambini giocavano ronzandomi intorno e io confusa mi sceglievo un angolo solitario per leggere il libro delle fiabe, lo portavo sempre con me.
Mi piacevano le fiabe, mi facevano entrare in quel mondo immaginario dove tutto è possibile, anche essere felice e io diventavo Cenerentola che balla con il principe.
Di notte mi tenevano compagnia le stelle, prima di andare a letto le guardavo, ce n’era sempre una più luminosa, era la mia mamma che mi lanciava un bacio.
Non mi piaceva la fiaba di Peter Pan, perchè voleva scappare dai genitori per andare nell’isola che non c’è?
Lui che poteva gioire per una carezza o per un bacio voleva allontanarsi dalla sua mamma e dal suo babbo!
Solo quando fui più grandicella ne capii veramente il senso e ancora oggi è una delle fiabe che amo di più, in fondo io ci andavo spesso nell’isola che non c’è.
Mi ricordo….. – di Anna Meli

Se chiudo gli occhi risento le voci, i rumori, i profumi che hanno accompagnato quei momenti magici. Per quel che mi ricordo non ho masi pensato a quel che avrei fatto da grande. La vita scorreva in modo naturale; i problemi, anche se ci fossero stati, chi li vedeva? Avevo i miei genitori che mi volevano un gran bene, un nonno brontolone, ma buono e un fratello più grande otto anni di me che adoravo e a cui non perdevo occasione, come diceva lui, per appiccicarmi dietro.
I miei giochi erano palla avvelenata, saltare alla corda, nascondino e altri inventati lì per lì. Tutto andava bene pur di stare all’aria aperta con altri ragazzi. Non disdegnavo nessuna compagnia maschi o femmine che fossero e questo mi poneva in discussione con quest’ultime perché volevano fare gruppo a sé, cosa che non mi piaceva per niente.
Non c’era a quel tempo, la scuola materna e la mia mamma mi aveva mandato all’asilo delle suore; non avevo accettato i loro metodi e dopo una settimana ero nuovamente a casa. Che ci potevo fare se non le sopportavo con le loro imposizioni?
L’estate era per me la stagione più bella perché potevo star fuori quasi tutto il giorno. Nei campi il grano maturo biondeggiava e i contadini lo mietevano con le falci, ne facevano dei covoni e li lasciavano in mucchi in attesa del carro trainato dai buoi che passava a raccoglierli per portarli sull’aia del casolare dove abbarcato tutto insieme a forma di grossa cupola sarebbe rimasto in attesa del successiva battitura.
Mi ricordo della sensazione di sofferenza che provavo quando volevo anch’io correre scalza come i figli del contadino sugli steli recisi del grano. Che colazioni alle 10 all’ombra della querce grande: fagioli all’uccelletto, bruschetta e noci. Tornando a casa per il pranzo non avevo fame a la mamma si preoccupava. Io non potevo dirle il perché se no mi avrebbe rimproverata.
Finita l’Estate arrivava il I° Ottobre e tutti a Scuola! Mi ci trovavo bene. Le insegnanti erano brave e buone: in particolare ricordo la Signorina Marta, molto carina e di una sensibilità non comune dalla quale ero particolarmente affascinata (mi vengono quasi le lacrime nel ricordarla).
Anche Lei, un po’ come Cecilia, metteva l’aula al buio, poi faceva ascoltare della musica che avremmo dovuto trasformare in disegni. In quei momenti non tutti reagivano allo stesso modo, c’era anche chi ridacchiava, ma questo forse faceva parte del gioco e della voglia di vivere che non poteva esprimersi diversamente.
Poi arrivavano le feste di Natale, con il presepe, l’albero addobbato con palline, oggettini di vetro e una specie di neve che se entrava addosso ti grattavi per una settimana. E poi la Befana, misteriosa, con pochi ma graditi doni e la calza appesa al camino. Si faceva finta di dormire, ma si vedeva tutto!
C’è stata pace ed armonia nella mia infanzia, anche perché condivise con quasi tutte le famiglie del paese in cui ancora vivo.
Purtroppo si cresce, si invecchia, le cose si trasformano, non sono più le stesse, ma i ricordi – e ne ho tanti – rimangono fedeli amici della mia vita.
Io da bimba un pò reclusa, invidio con affetto queste vostre infanzie all’ aria aperta, questo stare insieme sotto gli alberi, ti ci vedo, sei la stessa, per fortuna.
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Vokevo anche ringraziare Carmela, per averci messo a parte di un periodo sicuramente difficile, raccontato con la serenità di chi ha comunque capito e amato molto, che alla fine è la sola cosa che conta
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Per Anna, contenta che tu abbia scritto, per noi che leggiamo, e per te.
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Grazie Stefania, hai fatto centro!!! Con poche parole hai colpito nel segno…grazie
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Carmela e Anna ,grazie.
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