Quell’…..”Ultima Cena”

L’apprendista stregone – di Luca Di Volo

foto di Luca Di Volo

Faceva caldo in quell’Estate del 1965, quando, fresco di laurea, di esame di Stato e di iscrizione all’Ordine degli Ingegneri, mi ritrovai…, com’è naturale…totalmente e tristemente…disoccupato. Non è che Aziende, Enti di Stato e Studi Privati non mi avessero cercato, ma…ahimè. . c’era la barriera del famoso “militesente”. . e io non lo ero per niente. . Forse avrei dovuto “imboscarmi” . . come molti facevano, ma io, tanto per seguire la tradizione di famiglia, avevo partecipato e addirittura vinto il concorso per l’Accademia Aereonautica…. . della serie. . se devi farlo. . allora fallo per bene…

Va beh…però il primo corso a Napoli cominciava il 15 Dicembre. . quindi io ero a spasso…

E tanto per non star lì a ciondolare tutto il giorno…andai a trovare mio padre nel suo Studio. .

Entrai subito in argomento, senza giri di parole. . ”Senti, Babbo, avresti qualcosa da farmi fare qui nello Studio. . ?!”

Mi guardò da sopra gli occhiali…”Se dici sul serio, ti piglio subito…guarda: qui c’è un’Ultima Cena…non è ridotta troppo male. . portala fino al restauro pittorico, se trovi difficoltà, ci penso io. . e potrei anche regalartelo per le tue nozze. . ” Sì. . avrei dovuto sposarmi l’anno successivo…proprio in pieno servizio militare…Che incoscienti…e meno male che ci ha detto bene. . Ma questa è un’altra storia. .

Insomma cominciai a lavorare col babbo, il mio cavalletto accanto al suo. . un po’ discosto dagli altri ragazzi di bottega…ma uguale a loro, per certi versi. .

Non è che fosse una cosa troppo nuova per me, era già diventata un’abitudine che, per un periodo delle vacanze io andassi a fare (questa volta sul serio) il ragazzo di bottega…l’apprendista, insomma. .

Quindi la pulitura, lo stucco, la lisciatura, la rintelatura. . lo stendere la colla per i colori. . non erano grandi misteri. . Il difficile arrivava quando si doveva cominciare a “preparare” il vero e proprio restauro, cosa che consisteva nello stendere, nelle zone mancanti, uno strato di colore che si adattasse al meglio al “presupposto” colore dominante originale. . E qui già ci voleva un certo intuito ed una certa sapienza per il colore e le sue sfumature. . E le volte che il babbo me l’ha fatto rifare la dice lunga…

Poi si arrivava al restauro pittorico vero e proprio. . e allora, tutti fermi. . come in sala operatoria. . arriva il primario. . e comincia ad operare. . gli altri a guardare cercando d’imparare da quelle mani fatate. .

Ma sto divagando…

Quel periodo di pochi mesi, invece, per me era stata una vera e propria “iniziazione”. . non ero più un ragazzo di bottega. . e anche se relegato a compiti non eccelsi, mi trovavo a lavorare col babbo…come dire…da professionista a professionista…diversi ma uguali. .

E capii per la prima volta “chi” era  quell’uomo adorato ma a volte così lontano. . preso dai suoi voli pittorici…perduto in un iperuranio solo suo…

E poi…strano posto quello Studio…ci si poteva trovare di tutto. . dai nomi più illustri del Gotha degli storici e critici d’arte. . agli abilissimi artigiani, incorniciatori, palchettatori. . E tutti impegnati, senza distinzione. . in alate discussioni. . solo in nome dell’arte e della pittura. . Sì. . ho detto anche degli artigiani. . sareste stupiti della profondità delle conoscenze artistiche di quei personaggi. . pensate che ho visto uno di loro dare uno scapaccione ad un garzone dicendogli: Bischero. . t’avevo detto di fare un fiore in stile Napoletano e tu l’hai fatto alla Genovese?!” Pensate a che livello ….

E anch’io. . travolto dall’ambiente. . tentai un’attribuzione per il mio quadro. . ”Tardo manieristico. . forse della scuola di Andrea del Sarto o di Giulio Romano?!”

Il babbo mi guardò severo…poi. . ”Bravo. . anche la Gregori ha fatto una stima simile…. ”

Poi, d’improvviso burbero…”ma promettimi che non ti occuperai mai di queste cose…tu fai l’ingegnere. . e vedrai che starai meglio. . ”

Lì per lì la vissi male…ed ho fatto l’ingegnere…ho seguito il consiglio paterno. .

Ma io mi chiedo sempre se avessi seguito il mio impulso originario…altro che Sgarbi…

Una storia di Carla

dal passato….dal 6 febbraio 2020

“Il cielo più bello non esiste” – di Carla Faggi

foto di Cecilia Trinci

Il castello che si vedeva in lontananza era immenso, aveva tante e tante torri, ponte levatoio e si stagliava contro un cielo stellato stupendo, il più bel cielo che Carla avesse visto.

Le sue amiche le dicevano che per possederlo doveva aspettare un principe azzurro che ce la portasse.

Carla un po’ aspettò, ma era di carattere impaziente e poi gli piaceva fare le cose da sé!

Quindi, dopo aver ascoltato i consigli di sua madre, detta la Fata Morina, per i lunghi capelli scuri, decise: parto da sola e vado a conquistare il castello!

Prese tutto il necessario, scarpe comode, un maglione caldissimo perchè era un po’ freddolosa,e un sacco a pelo.

Chiamò la Fatina Morina e gli disse: non torno per pranzo e forse neppure a dormire. E si incamminò.

Il castello ed il cielo stellato sembravano vicini ed invece erano lontani lontani.

Cammina cammina Carla incontrò tante persone e paesi, anche un principe azzurro sul cavallo bianco da cui accettò un passaggio per arrivare prima al castello, ma poi scoprì che di principe aveva solo il mantello ed il cavallo. Quindi un po’ delusa scese e continuò il cammino da sola.

Avrei dovuto dar retta alla fatina Morina, pensò, mi aveva detto che ero in grado di arrivarci da sola e solo dopo averlo conquistato avrei potuto ospitare il cavaliere che più mi piaceva.

I paesi che incontrò furono tanti, alcuni ballavano e cantavano vestiti con abiti alla moda, altri erano tristi e soli, si sentivano inadeguati e cercavano se stessi.

Incontrò anche paesi che volevano fare la rivoluzione, e rimase un po’ lì con loro. Ci credeva nella rivoluzione, pensava che tutti avrebbero potuto avere un loro castello e tanto, tanto cielo stellato.

I rivoluzionari gli piacevano ma la rivoluzione non le riuscì, allora andò avanti.

Cammina cammina si accorse che camminare era bello, la soddisfaceva, arrivava quasi sempre dove aveva deciso, e quando non ce la faceva continuava l’indomani.

Ogni tanto alzava gli occhi al cielo e cercava quella stella laggiù laggiù che gli sembrava tanto bella. Era sempre lontano lontano, però erano così belline anche quelle stelle sopra di lei che sembravano tanto più vicine.

Infine arrivò vicino ad una quercia e ci si sedette sotto. Che albero stupendo, pensò, si sentiva tranquilla e allo stesso tempo eccitata!

Forte e protettivo, sapeva di casa sua. Rivoluzionario però, le foglie le perde non in autunno ma a fine inverno, per dare generosamente spazio alle gemme.

Gli sembrava che quella quercia fosse un castello e poi sopra, quel cielo era bellissimo anche se non c’era quella stella laggiù laggiù.

Si sentiva proprio bene, cosa era successo? Non sapeva spiegarlo, forse erano stati i paesi in festa che aveva incontrato, o quelli tristi e riflessivi, forse le rivoluzioni, quelle riuscite e quelle fallite. Oppure l’essersi messa in gioco o la fortuna di aver trovato quella quercia, oppure semplicemente perchè sopra di lei c’era un cielo bellissimo.

Fu così che decise di ritornare a casa, tra l’altro aveva anche un po’ di fame.

Arrivò appena in tempo, la fata Morina aveva appena buttato la pasta.

Oggetti di Gabriella

Per ridere ci vuole coraggio – di Gabriella Crisafulli

foto e oggetti di Gabriella Crisafulli

La giornata si presentava nebbiosa: strano il meteo aveva previsto sole e cielo terso.

Non si fece prendere dalla malinconia: non se lo poteva permettere.

Mentre stava traghettando dallo stagno del dolore continuo al lago della pena dolente erano arrivate un paio di notizie che le facevano attraversare notti piene di interrogativi e che le spalancavano gli occhi di prima mattina.

Si alzò e si mise a trafficare, con la solita lentezza certo, ma almeno non rimaneva ferma, paralizzata dalla depressione.

Quello che faceva ogni giorno era un vero e proprio lavoro di testa in cui tentava di impegnarsi con le poche risorse mentali che le rimanevano. Provava a stimolarsi senza essere troppo severa con sé stessa per non creare un’opposizione ribelle a una rassegnazione che le stava stretta.

Veniva da un’infanzia in cui era stata dichiarata la regina del castello che le era stato assegnato ma dove in realtà era prigioniera, mentre i suoi coetanei camminavano nei campi o per i giardini, si arrampicavano sugli alberi o sulle altalene, si rotolavano tra le foglie o sui prati, parlavano, giocavano e litigavano fra loro … Giustamente tutto questo non le era stato concesso essendo lei una regina che doveva essere appartata rispetto agli altri e su un gradino più in alto.

Oggi, ormai vecchia, si sentiva un’analfabeta dei sentimenti e delle relazioni. Così stava facendo un apprendistato autodidatta per guadagnare nuovi territori di relazioni, affetti, amori, … ma era difficile venir fuori e avventurarsi in un mondo con regole e modalità di interazione per lo più sconosciute.

Per fortuna arrivavano le parole di Matite solidali ma spesso le situazioni raccontate le facevano risuonare echi dolorosi.

In una sorta di confronto con gli altri ripensava al gioco con la margherita: “Ce l’ho, ce l’ho, … mi manca”. Purtroppo si ritrovava a dire: “Mi manca, mi manca, … non ce l’ho”.

Allora si metteva a vagliare la sabbia di fiume che era la sua vita alla ricerca delle pepite d’oro con le quali poteva ricomporre il mosaico scompaginato. La sua casa ne era costellata. Alcune lisce e levigate, altre ruvide, acuminate, taglienti. Ne aveva scelta una quel martedì da raccontare on line: un gattino di gesso rannicchiato tra la maschera giapponese e la donna seduta.

Non stava bene adesso quel gattino.

Non si fece prendere dalla malinconia: non se lo poteva permettere.

Spaventapasseri di plastica

Lo spaventapasseri sulla strada di Dresda – di Gabriella Crisafulli

Il cielo era grigio, l’aria pesante e la calura insopportabile.

La strada da Dresda a Berlino non finiva mai.

Ai lati enormi distese di grano sempre uguali, chilometro dopo chilometro.

Il motore del vecchio camper ronzava tutta la sua fatica.

Avevano aperto i finestrini per prendere un po’ di aria ma il vento portava dentro l’abitacolo solo polvere mista a chissà quali pollini e questo provocava violenti attacchi di allergia.

Erano in viaggio senza sosta da molte ore e avevano fame.  

Volevano fare una sosta in un posto di ristoro ma l’unico edificio che venne loro incontro, alto e massiccio, fu un casino.

Alla fine presero la decisione di entrare in un piccolo parcheggio dove fermarsi in modo da fare l’aerosol al cortisone per dare tregua a lacrimazione e sternuti e poi mangiare un panino.

Riuscirono anche a fare due passi al di là del guardrail, lungo quei campi che erano tutta una distesa gialla: volevano sgranchirsi un po’ le gambe.

Non c’era ombra di anima viva.

Incontrarono solo, unico e surreale, uno spaventapasseri piantato nel bel mezzo di un terreno coltivato.

Era fatto con bottiglie di plastica infilate su bastoni e sacchetti che si agitavano al vento. Niente a che vedere con quelli di casa loro. Lui, lo spaventapasseri, era anemico, privo di sangue nelle bottiglie trasparenti, privo di anima e di cervello. Il lungo mantello che indossava, fatto da un grande sacco della spazzatura nero, sventolava la sua lugubre solitudine mentre tutto il fantoccio emanava un suono cupo generato dal vento che entrava nella plastica.

Furono presi da inquietudine quasi che quello fosse un segno premonitore di sventura e se ne tornarono veloci al loro camper.