Berretto

Il berretto – di Tina Conti

Non usciva mai senza, sarà perché i capelli erano pochi e perché invecchiando si sentiva consolato da quel caldo copricapo.

Ne aveva uno per la festa e uno per il lavoro, quello da lavoro era spesso ricoperto di polvere di legno, piume di piccione, fili d’erba.

A seconda della giornata e dei lavori  che aveva da fare nel suo  orto\magazzino rientrava con il marchio sulla testa, croce e delizia della mamma che lo bloccava sulla porta di casa per dargli una spolveratina.

Gli ultimi anni, eroicamente vissuti provvedendo a se stesso e donando ancora amore e sostegno ai  nipoti e figli, aveva anche un berrettino da notte .

Nei ricoveri in ospedale esibiva con orgoglio il suo berrettino da notte non curandosi delle risatine, e delle considerazioni del personale e delle infermiere che con fare materno lo  prendevano un po’ in giro.

Ricordandolo, mi è venuto in mente il berrettino bianco che viene messo in ospedale ai bambini appena nati, caldo, tenero, protettivo, come quello del nonno.

Verde smeraldo

“Nonostante gli occhiali verdi, i cinque rimasero ugualmente abbagliati dallo splendore della Città di Smeraldo. Case e palazzi erano di marmo verde incrostato di smeraldi. Di marmo verde erano i marciapiedi e tra un lastrone e l’altro spuntavano altri smeraldi. Le finestre avevano vetri verdi e perfino il cielo e i raggi del sole erano dello stesso colore.”

Questo è ciò che vedono appena arrivati alla CITTA’ DI SMERALDO i protagonisti del romanzo per bambini “Il Meraviglioso Mago di Oz”, scritto da Frank L. Baum, pubblicato nel 1900, che narra le avventure di Dorothy, una ragazzina del Kansas, rapita con il suo cane da un tornado e trasportata in un mondo fantastico. Viaggerà in compagnia di tre personaggi meravigliosi: lo Spaventapasseri, che vuole un cervello, il Boscaiolo di latta che vuole un cuore, e il Leone che vuole il coraggio. Insieme dovranno trovare la Città di Smeraldo e il suo portentoso Mago. Ci riusciranno ma la vera magia la farà la Strega Buona del Sud che insegnerà a Doroty il prodigio delle Scarpette d’argento con queste parole……..

[…] “possono portarti in qualsiasi posto del mondo in soli tre passi e ogni passo avrà la durata di un battito di ciglia. Non devi far altro che battere tre volte i tacchi e comandare alle scarpe di portarti ovunque tu voglia”.

Dorothy seguirà le indicazioni  e dopo diverse peripezie, finalmente, con il suo cane, si ritroverà a casa, stretta fra le braccia della zia Em!

Ma torniamo al nostro VERDE SMERALDO.

Il verde del nuovo, del fresco, della menta, dell’acerbo, delle olive, del pesto, della Liguria, dei prati, dei boschi, dei laghi di montagna, dei parchi,

dell'”essere al verde” e della povertà, dei campi di calcio, di tennis, di golf, delle pietre dure, dei tesori dei pirati, della giada…

Il cappello copriteiera

Copriteiera o cappello? – di Rossella Gallori

Il cappello marron glacé  era il meno brutto della produzione di mia madre, ne ha creati diversi negli ultimi anni di lucidità, con quell’ uncinetto che amava ma, che, a parer mio, non partoriva  neonati bellissimi…. coperte pesanti  fatte di piccoli morsi di lana grossa dai mille colori, poco calde ed ingombranti… grassi fazzoletti accogligatti che all’epoca non c’ erano e…cappelli, cappelli per me, che amavo il classico Borsalino da uomo o i colbacchi di pelliccia….copricapo coloratissimi  mai della misura giusta, dalle forme desuete: a pentola, a vaso da notte, a orfanella, a preservativo gigante, colori ignoranti, sfacciati, nei casi migliori sembravano dei copri teiera…

Spesso li perdevo, volutamente o casualmente, mi cadevano dalle mani, mi abbandonavano senza nemmeno dirmi ciao, poco apprezzati,  poco amati….cercavano altre vite.

 Stessa sorte  l‘ha avuta il cappello color castagna…ricordo bene l’ ultima volta che l’ho indossato, faceva freddo, molto freddo, la giornata si era annunciata noiosa, monotona, quella telefonata: esci?!?, improvvisa mi aveva  sorpresa più malandata del solito, capelli  scarmigliati senza garbo, vestagliuccia ciancicata, uscire o non uscire, amletico dilemma…

Fu così che in pochi minuti mi preparai, un po’ sfavata  come sempre mi ritrovai, con cappotto/ sciarpa/ guanti di fronte  ad una scatola di impietosi cappelli, dalla quale cadde lui, lui il copriteiera, l’ ultimo gioiello della collezione  di mammà… mi scelse e ed io stranamente, non lo rifiutati.

Confesso che mi sentii subito protetta da lui, ero sola come sempre, ma serena, forte, vera come non mai, ero protetta dalle schegge che spesso non riuscivo a schivare, dal mio non essere mai tutta me, camminavano in tre lungo l’ Arno, amicizia lei, cuorscontento io, ed il magico cappello poco distante da grandi occhiali scuri, dal bavero alzato, dalla sciarpa strangolante…

Guardavamo l’ Arno di là, come un quadro, il caffè e le parole incorniciavano un pomeriggio senza fronzoli…incontrammo gente, io perfino sorrisi, nello scoprire che altri erano amici di miei amici…..in una Firenze così piccola da stare in un cuore…

Ci furono le foto, con un sole che aveva voglia di andare a dormire, ed ancora non era nemmeno ora di cena, foto da ragazzine sotto un ponte, che in altri momenti mi avrebbe fatto paura, ma quel pomeriggio noi tre eravamo invincibili…”moschettieri  su i greto”  ed il vento arrossava le guance, un racconto nella testa, qualche confidenza, una poesia strappata in tasca e quelle istantanee che forse eran tre o quattro…ma ne è rimasta solo una, graffiata dal vento….Non si è persa lei, come il mio povero cappello, come qualche sogno infranto, è rimasta lì testimone di un giorno che  ricordo, del fiume di casa, di un caffè nemmeno speciale, di una me così serena, che non conosco, non riconosco…di quattro piedi, in marcia…

Si quella ero io, sono io……

Ancora un po’ di giallo

Giallo difficile – di Gabriella Crisafulli

Erano due settimane che ci girava intorno: no, lei con quel colore non voleva avere nulla a che fare.

Nel bene e nel male era stato un protagonista importante della sua vita ma non ne voleva più sapere.

Ripassava mentalmente le puntate, felici e non, della serie.

Giallo era il sole a “La Torre” di Mondello che splendeva sfarzoso alle spalle del suo amore.

Gialli erano gli stivali e l’impermeabile che indossava in Costa Smeralda.

Gialla era la tappezzeria del divano della cameretta di Napoli su cui si era seduta la nonna Giuseppina con la gonna imbrattata di vernice rossa.

Gialli erano i tulipani che riceveva per il suo compleanno.

Gialla era la mobilia della Casa dei Bambini e gialle le perle del multibase Montessori.

Gialli i copriletti e le poltrone della stanza degli ospiti.

Gialle le panchine che si portava dietro in ogni scuola dove andava ad insegnare.

Ma c’erano anche capitoli dolorosi.

Giallo era il terreno coltivato a grano che le si era parato davanti a Messina al primo sbarco in Sicilia dove aveva misurato l’intensità del rimpianto per la terra perduta.

Giallo era il campo di addestramento militare di Como dove andava con l’attendente.

Giallo era il vestito a quadretti di sua sorella con le maniche a palloncino.

Giallo era lo spazio esistenziale di una infanzia vissuta per dogmi, al di fuori del mondo.

Giallo è il trauma quando non scorre il sangue: è il colore del livido sotto la pelle.

Gialli erano i fiori di ginestra e di mimosa che causavano gravi attacchi di asma.

Giallo era il colorito del viso e del bulbo oculare quando aveva avuto l’epatite durante la prima gravidanza.

Gialla era la sacca che pendeva di fianco al letto: all’improvviso si era macchiata di rosso. Lei avrebbe dovuto capire e invece si era fatta convincere da quella splendida creatura comparsa a notte fonda, ad andare a casa a dormire.

Negli anni felici, gialla era stata la rivalsa: ti metti un cappello in testa, ti guardi intorno con sguardo impertinente e vivi serena. Dimentichi pene, fatiche e godi il presente giorno dopo giorno.

Non aveva scelto la strada giusta.

L’errore era stato vedere le persone come desiderava che fossero e non come erano veramente.

E adesso non aveva voglia di sfogliare l’album del passato.

Non aveva voglia di ritornare alla sua storia.

Non voleva sentirsi preda della grande tristezza che la riportava indietro rendendola immobile e impotente.

Non voleva rotolarsi nella malinconia.

Era in cammino da ieri a oggi.

Si era accollato un grande peso per sé e per la sua famiglia.

Si era fatta carico di una storia complessa.

E andava, andava, cercando un senso in ciò che era stato.

La verità le faceva male.

E poi le persone non credevano alla sua verità perché le apparenze erano contro di lei: non aveva testimoni.

Era alla terza puntata e procedeva dal dentro al fuori con il vento in faccia.

Come la statua di Porta Romana che alcuni chiamano “la squilibrata” per via dell’enorme peso che le grava sul capo ma che Michelangelo Pistoletto ha intitolato “Dietrofront”.

In quell’opera nulla è come sembra.

In quella donna c’è la circolarità tra passato e futuro.

Ora gialli erano i suoi capelli.