Il fico di Torino

Il fico e la tenacia – di Nadia Peruzzi

Il fico era lì nel giardinetto dietro casa. Lui amava da sempre quelle larghe e strane foglie con la loro ombra a forma di grandi mani che ogni volta sembravano stringerlo in un abbraccio. Quando il sole era accecante e il caldo più soffocante si stendeva lì sotto, sulla coltre erbosa che ne circondava il tronco quasi a proteggerlo e si lasciava andare alle sue fantasticherie e ai suoi sogni di bambino.

Galleggiavano note in quei sogni.

Molto prima di sapere cosa fossero le vedeva danzare e comporsi in mirabili armonie.

Aveva scoperto presto che la musica era la sua dimensione. La sentiva ovunque si voltasse e qualunque cosa facesse. Quelle note ballerine lo prendevano per mano portandolo lontano.

Le pareti della casa modesta nella quale viveva con i genitori, una delle tante case di ringhiera della Torino operaia degli anni 70, si dissolvevano e così lo sguardo poteva puntare direttamente in alto, verso il cielo, là dove il sogno poteva diventare realtà e tutto poteva diventare possibile.

La musica in quella casa era entrata in modo strano. Non c’erano strumenti, c’era la vita difficile di un lavoratore che stava fuori tutto il giorno e tornava a casa stanco la sera dopo una faticosa giornata di lavoro.

Le note erano entrate prepotenti con le opere che spesso i suoi ascoltavano alla radio, e molto molto prima erano risuonate nei canti partigiani intonati da suo padre e sua madre, con occhi sempre lucidi alle manifestazione del 25 Aprile.

Erano arrivate poi insieme ai canti della lotta e della riscossa operaia della fine degli anni 60 e dei primi anni 70 che avevano visto diventare Torino protagonista di una stagione di cambiamenti.

I primi abbozzi di volontà di dirigere un’orchestra si erano palesati per puro caso. Aveva visto in tv  il Coro dell’Armata Rossa e non aveva resistito. Si era alzato in piedi armandosi di una matita e aveva iniziato ad accompagnarlo, ad occhi chiusi, ma con gesti rapidi e decisi quasi si trovasse su quel palco e in mezzo a quella moltitudine.

Era buffo quel bambino col suo ciuffo nero e ribelle, con quegli occhi vivi che bucavano il velo della realtà e puntavano direttamente ad un futuro da conquistare fatto di musica e di note.

La incontrò una mattina, sulle scale mentre se ne tornava a casa sconsolato da scuola insieme a sua madre. Era triste, quel giorno, come non mai.

Al colloquio, una condanna senza appello, che era risuonata quasi come un ergastolo.

La mamma l’aveva tradotta con parole sue, in semplicità, ma suonava crudele come i professori gliel’avevano detta.

“Suo figlio è bravo. Ha un gran carattere. Si impegna molto. Si vede che la musica per lui è vita, ma si renda conto il figlio di un operaio non può aspirare a fare il musicista. Dia retta, lo convinca. È una strada nella quale  solo chi ha possibilità economiche e conoscenze può sopravvivere e pensare di andare avanti!”

La musica era roba da ricchi e per i figli di ricchi, insomma, e per lui non c’era alcuna speranza.

Piangeva senza ritegno quando incrociò la signora Amelia, quella del terzo piano. Era una donnina dolce e distinta, che sembrava uscita direttamente da un romanzo di De Amicis. Di solito erano solo dei buongiorno e buonasera, ma quel giorno e di fronte a quelle lacrime disperate lei volle sapere  quale ferita le avesse provocate.

Ne rimase schiantata perché a distanza di anni erano la stessa ragione con cui anche lei aveva dovuto fare i conti. Lei, in più, aveva dovuto aggiungerci il carico da 90 negativo di essere pure donna.

Eppure ce l’aveva fatta a diventare primo violino, realizzando il suo sogno di bambina. Si rivide in quelle lacrime, in quella delusione cocente rispetto ad un mondo che escludeva per condizione sociale e non per qualità e capacità. Un mondo che inchiodava alla condizione di nascita e spegneva ogni voglia di cambiamento e ogni sogno se non sorretto da tenacia e volontà incrollabile.

Iniziò così fra loro. Il bambino con il ciuffo ribelle e la vecchia signora che ormai si dedicava ad insegnare musica dopo i lunghi anni passati a suonare nell’orchestra del teatro cittadino.

La maestra mise a disposizione la sua casa, i suoi strumenti, le sue conoscenze e competenze musicali, il bambino ci mise la sua volontà di apprendere tutto il possibile di quel campo cimentandosi col mondo delle note e prendendo man mano confidenza col piano forte cui si era accostato inizialmente, con timore e profonda soggezione.

In breve da quello strumento fantastico era riuscito a trarre accordi e melodie al limite dell’innovativo e dell’ardimentoso. Non era un mero esecutore, era un interprete vero. Quelle sue mani si muovevano a velocità strabiliante sulla tastiera, sembrava che volassero mentre passavano da un adagio a un andante con brio, passando attraverso un allegretto.

Non ci volle molto perché la maestra lo indirizzasse verso luoghi e scuole in cui lui avrebbe potuto consolidare la sua tecnica e sperimentare novità.

Dal piano forte e dai primi concerti fece il grande passo verso lo studio della direzione dell’orchestra. Divenne molto bravo anche in quello.

Con la sua energia e determinazione, la  passione per la musica trovava la strada per accompagnare anche ogni componente del gruppo che stava dirigendo proprio lì dove aveva intenzione di trascinarlo. Dentro quel suono assoluto che faceva scomparire il reale e metteva  a nudo la perfezione delle note ballerine che lo avevano accompagnato fin dai suoi sogni di bambino.

Pochi cenni bastavano per creare magia.

I successi cominciarono ad arrivare.

Le tv cominciarono ad accorgersi di lui. Anche i giornali che pure citavano con un pizzico di disprezzo quei suoi inizi fanciulli alle prese col Coro dell’Armata Rossa come fossero uno stigma negativo, furono costretti a dedicargli pagine e pagine.

Non se ne curava più di tanto. Gli premeva solo che facessero cassa di risonanza per raccontare quanto la musica fosse vita, quanto fosse in grado di sanare ferite e accompagnare gli amori accendendo la passione, raccontandone alti e bassi, giocando fra scale, acuti, sibemolle e fa diesis.

Le folle impararono ad apprezzarlo. Stravedevano per lui. La sua proverbiale modestia sabauda ne era uscita scalfita. Se ripensava a quanto aveva dovuto penare per arrivare a quel punto non poteva che provare orgoglio e soddisfazione.

Soprattutto pensando ai gran sacrifici che suo padre e sua madre avevano dovuto fare per accompagnarlo in quel percorso. I loro occhi lucidi, la prima volta che erano andati a sentirlo in teatro lo avevano ripagato di tutta la fatica. Quasi intimoriti in quel contesto che non era per loro abituale, quasi persi dentro i velluti delle poltrone della prima fila nei loro vestiti buoni, quelli delle feste, avevano seguito ogni passaggio quasi senza respirare e immobili, come se un loro movimento anche piccolo potesse far svanire quanto stava loro di fronte.

E di fronte avevano il loro ragazzo appassionato, con quel suo ciuffo ribelle, tenace e combattivo che aveva faticato tantissimo per realizzare il suo sogno da bambino.

Le sue radici e la sua storia gli erano sempre state compagne, anzi erano state le ragioni principali della sua perseveranza.

Come quel fico sotto il quale amava nascondersi da bambino per fuggire ai raggi impietosi del sole battente, aveva vinto la sua sfida contro i limiti e le avversità.

Il fico era cresciuto anno dopo anno, aveva fatto i suoi frutti succulenti, nonostante il clima talora inclemente, la poca terra e la scarsa cura che riceveva. Nasceva e rinasceva sempre e ogni volta più forte e sempre più grande.

Lui aveva respirato la forza umile, da combattenti della quotidianità, di suo padre e di sua madre. In quella casa di ringhiera modesta e amorevole aveva sentito aleggiare la voglia di cambiare il mondo e di non piegarsi all’esistente scritto sempre da qualcun altro.

Ogni sera nasceva e rinasceva su ogni palcoscenico su cui si esibiva, sapendo che il suo traguardo era stato raggiunto.

Contro tutto e contro tutti, contro le convenzioni e le convinzioni, contro l’esclusione e la selezione basata sul denaro e sulle origini.

Si, il figlio di un operaio era riuscito a diventare un musicista. Anzi, a quanto si diceva, un grande musicista! 

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Autore: lamatitaperscrivereilcielo

Lamatitaperscrivereilcielo è un progetto di scrittura, legata all'anima delle persone che condividono un percorso di scoperta, di osservazione e di ricordo. Questo blog intende raccontare quanto non è facilmente visibile che abbia una relazione con l'Umanità nelle sue varie espressioni

3 pensieri riguardo “Il fico di Torino”

  1. Musica, sempre musica, anche la fatica, il lavoro, lo studia, le case senza ascensore….grazie …compagna mia…

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  2. Che bello aver lottato fin da piccolo ed essere riuscito ad attraversare il traguardo sognato attraverso le vicissitudini le politiche restrittive e terribili dell’epoca. Bellissimo racconto, una descrizione accurata di un quadro dell’epoca

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