Camminata a zig zag per la Firenze di Patrizia

Ricordi di Firenze – di Patrizia Fusi

La luce mattutina illumina piazza Ferrucci, mi incammino sul lungarno, guardo quello che mi circonda con attenzione, l’acqua scorre placida, alla pescaia di Santa Rosa diventa più rumorosa e vivace.

Quando arrivo alla terrazza sull’Arno, sotto di essa c’è un rientro dove è stato messa una tenda bianca, è aperta a metà, intravedo un materasso, si affaccia un uomo, si stira le braccia come a salutare il sole che invade quel rientro di cui quell’uomo ha fatto la propria abitazione, la cosa mi turba e mi commuove.

Dall’altra parte del fiume gli edifici scorrono con i miei passi, una palma indica l’esistenza di un giardino, il campanile della chiesa di Santa Croce è illuminato dal sole mattutino.

Attraverso il ponte alle Grazie, l’acqua ha ripreso a scorrere dolcemente, l’aria è fresca, odore pungente del traffico che scorre lungo la strada, odore umido che sale dal fiume della vegetazione che c’è sulla sponda, ad un tratto vedo nel mezzo dell’acqua un grosso animale marrone penso che sia un topo, un brivido di schifo percorre il corpo, ma mi rendo conto che è una nutria e la cosa mi piace di più.

Arrivo in piazza dei Giudici il sole accarezza le pietre della facciata del museo Galileo, continuo la mia camminata, giro verso piazza Della Signoria passo sotto il corridoio che collega il palazzo del comune con la galleria degli Uffizi, difronte a me la loggia dei Lanzi, in piazza piccoli rumori, tutto è un po’ addormentato, sensazione di pace, i monumenti fanno mostra della loro bellezza, la piazza è semivuota.

In via Dei Calzaioli sbircio dalle grate delle saracinesche la merce esposta nelle vetrine, i negozi sono chiusi, solo i bar sono aperti e diffondono nell’aria un dolce profumo di vainiglia e di caffè, mi fa venire voglia di fermarmi.

La facciata del Duomo è in ombra, uno spicchio del Battistero è illuminato dal sole, gli autobus gli passano accanto.

Percorro un tratto in via Martelli, il carretto che vende i libri usati a fianco della chiesa di San Giovannino dei Padri Scolopi è chiuso, difronte sul bordo di pietra serena del palazzo Medici Riccardi c’è seduto un signore anziano con barba e capelli bianchi, ha un quadro vicino a lui di un bel paesaggio, penso lo voglia vendere, non ho il coraggio di chiederglielo.

Sfioro piazza San Lorenzo con la sua bella chiesa dalla facciata austera, all’angolo di via dei Ginori mi fermo a guardare un negozio di biancheria per la casa, mi piacciono le fantasie, i cuscini colorati, la passamaneria, accanto un negozio di vestiti eleganti per signora.

All’inizio di via San Gallo si sente un buon odore di pane fresco: è il forno che è sull’angolo che lo sparge intorno, la vetrina del negozio di giocattoli e libri per bambini è sempre bello guardarla, pochi metri ancora e sono arrivata, il grande portone è aperto, l’ampio atrio mi accoglie, di fronte a me una porta aperta, di solito è sempre chiusa, stranamente stamani invece è aperta, mi colpisce un affresco che intravedo è veramente bello: è del pittore Poccetti.

Saluto il mio collega, marco il cartellino, scendo due scalini in pietra serena e mi trovo nel bellissimo chiostro di Santa Reparata, è bello un po’ maltrattato da tutti noi e anche dagli studenti.

La grande scala in pietra serena mi accoglie, inizia la mia giornata lavorativa.

Le cose grandi della piccola città di Nadia

La città  invisibile – di Nadia Peruzzi

Più che una città, un paese, un piccolo paese, anzi.

Tanto piccolo che in alcuni momenti della mia vita mi è sembrato angusto e troppo stretto.  Il visibile di oggi ha sfumato, nascosto o addirittura annullato quello di ieri.

Mette tristezza pensare che ogni cambiamento ha messo sullo sfondo o ha fatto sparire pezzi importanti per questa comunità. E non si tratta solo di edifici. Ma di vita, allegria, volti, occhi, pensieri, sentimenti e sogni.

Erano i gruppi di donne che con i loro telai si ritrovavano in primavera e estate sotto gli alberi del viale a ricamare su tela o raso i loro capolavori.  Fuori dalle case dove abitualmente lavoravano,  nascoste al mondo,  quasi a dichiarare il loro ci siamo e il ruolo importante  e doveva esser loro riconosciuto, come poi avvenne e per legge.

Era la bottega del vinaio sull’angolo di fronte al negozio del parrucchiere, dove io bambina accompagnavo mia nonna a riempire i fiaschi per casa.

Era il lattaio che veniva in fondo alle scale e tu potevi guardare negli occhi e dirgli due parole mentre lui versava il latte nel tegamino che gli porgevi.  Salire le scale  con quello in mano senza versare una goccia del suo contenuto era impresa di cui poi sentirsi fiera, come dopo una delle battaglie  campali  che leggevo nei miei libri di avventure.

Era l’elettricista più improbabile del mondo, il Nanni . Famoso per le sue battute , il suo amore per le belle donne e le sue imprese che hanno girato per anni di bocca in bocca. Quasi un’epopea .

Poi il Pini Ugo, il calzolaio che era stato condannato dal Tribunale speciale durante il fascismo e sua moglie . La Bianca.  Una coppia tutta da ridere. Si narra che una volta cercando di tagliare il pollo con coltello e forchetta quello finisse direttamente sotto il tavolo dopo un bel volo. Dati i tempi fu mangiato lo stesso, senza tema.

La panchina dove sedeva mia nonna c’è ancora. Sta lì un po’ in disparte e coperta e invasa dai tavolini del locale da aperitivi che oggi occupa la piazza.

Anche se qualcuno a volte ci si siede, non è e non può essere quella di un tempo. Altre persone, altri desideri, altri sogni. Del resto di fronte ha tutt’altra piazza.  Quella di prima  era parte della strada tanto è vero che il tram arrivava fino davanti alla chiesa.

Il cinema d’estate proprio accanto al vagone dove ci riuniamo era il nostro Cinema Paradiso, anche quando da monelli ci riunivamo in gruppo e per non pagare il biglietto ci piazzavamo dietro lo schermo anche solo per vederlo al contrario. Quante volte non ricordo , so che era bellissimo, anche per quel che di proibito che quell’operazione si portava dietro.

Il campanello dell’Enrica era un altro dei nostri raid di monelleria.  Quante volte l’abbiamo suonato, scappando subito a nasconderci,  per vederla affacciarsi alla terrazza del palazzo dove ora c’è il parrucchiere. Era una figura strana l’Enrica. Donna altissima e dal basso in alto sembrava la controfigura di Olivia di Braccio di Ferro.

L’Enrica non c’è più da tempo. E’ rimasto il terrazzino ma nessuno guarda fin lassù da quando non c’è più lei o se qualcuno lo fa lo fa con disattenzione,  così per fare.

E del cipresso grandissimo che era lì davanti vogliamo parlarne? Sparito come l’acqua del fiume che prima scorreva a vista in quel tratto trasformato ora in capolinea dell’autobus.

Ebbe il suo momento di gran notorietà nel 1936 quando una grande alluvione fece sì che alcune cappelle del cimitero si svuotassero delle bare che trasportate dalla corrente andarono a schiantarsi proprio contro quel cipresso. Qualunque cosa fosse rimasto al loro interno sparpagliato nella campagna tutto attorno e fino a Ponte a Niccheri .  Di questo fatto ricordo il racconto di mia nonna che ne fece qualcosa di magico più che di macabro e non rimase in me nessuna paura , né raccapriccio . Del resto la nonna Rina era una donna pratica, non cinica.  La sua conclusione “tanto,  più che morti!” , ancora mi risuona nelle orecchie e trovo che abbia una sua bella dose di ragionevolezza.

La mia città invisibile l’hanno popolata persone, gli edifici hanno e hanno avuto valore proprio perché erano e sono stati il prodotto e la caratteristica di una comunità che si è evoluta ed è cambiata nel corso del tempo.

Uno zig zag fra passato e presente senza le persone in carne ed ossa mi sarebbe sembrato vuoto e triste.  

La fretta nella città di Anna

CITTÀ INVISIBILE – di Anna Meli

Lilliano – foto di Cecilia Trinci

            Non esiste più la città, è svanita, si è persa nella fretta di esistere. Le vie, le case, i palazzi, i giardini, le fermate degli autobus, la gente, le voci, i rumori; tutto passa e corre via velocemente per perdersi nel vuoto.

            Il vuoto di un inferno nel quale trovare un piccolo spazio di fuoco, di calore fatto di rapporti umani, di semplicità, di calma-lentezza con le quali rendere un volto ad una città o ad un paese.     Poter camminare per quella strada fatta mille volte, riscoprire momenti dimenticati che riescono ancora a scaldarti il cuore, come quel portone sempre aperto dove ti rifugiavi sorpresa dalla pioggia; e non eri da sola. Ora è sempre chiuso sembra invisibile.

            Passeggiare in città alzando gli occhi al cielo e ritrovarsi a guardare quella finestra in Piazza SS Annunziata che rimane sempre aperta per volontà di un fantasma che lì vuol continuare ad attendere qualcuno.

            Essere affascinati dal mistero e riprendersi il proprio tempo per uscire dall’inferno della fretta che isola e distrugge le città rendendole invisibili.