Il gioco con le immagini – tre

Ritorno – di Luca Di Volo

Io in quella stanza non c’ero proprio..o meglio, c’ero rimasto per quei tre microsecondi necessari per posare lo zaino e levarmi un po’ di vestiti prima di fiondarmi sulle scale per il piano di sopra e farmi una doccia. Non badavo ad altro..e infatti non avevo neanche percepito l’immenso disordine che regnava in quell’ambiente.

Tutta colpa della mia partenza precipitosa.

Mi avevano concesso pochi minuti, c’era di mezzo una vita e sembrava che l’essere umano più vicino che poteva salvarla fossi io.

Non immaginavo di essere tanto famoso, ma…insomma..mi aveva anche fatto un po’ piacere..

Perciò ero corso via in un lampo..e Giovanna con me.

S’era lasciato tutto per l’aria…tanto c’era tempo.

Il viaggio però era stato massacrante. Per le restrizioni da covid..per il caldo, per l’impegno, per la fatica. Mi era andata bene..oddio, più al paziente che a me..però…insomma, sotto la doccia tornai a vivere.

E mi giunsero anche i borbottii della stanza di sotto. Loro pensavano che non li sentissi, invece io li capivo benissimo..e, come sempre, mi divertivano un mondo.

Il primo a parlare fu il reggiseno di Giovanna: ”O ragazzi..ma l’avete visto come m’ha lasciato la mì padrona?! M’ha abbandonato qui sul divano..come uno straccio qualsiasi…Ho capito, c’aveva furia.., ma , via, non s’è nemmeno finita di vestire..vuol dire che andare a giro mezza ignuda, per lei l’è naturale..Eh, le donne d’oggi….”

Per prima rispose la palla: ”O non l’avrei a sapere…il nostro dottorino mi massacra col pilates ..per tenersi in forma, se no come farebbe a essere così tartarugato e fare tante conquiste?!”

“Eh eh,”- ridacchiò la seggiola, pettegola come sempre ”e se ne son viste , vai, di storie in questa stanza…eh, diglielo te, divano…o divano..”

Ma il divano, come al solito, dormiva.

“O dico a te poggiaculi che non sei altro..”

Il divano, sbadigliando: ”Io?!..io dormivo..”

“Ah,tu dormivi, eh? Furfante…io dico che tu eri dimolto ma dimolto sveglio..”

Intervenne il PC  “Eh , lo so io che tu eri sveglio, vai..”

“Tu faresti meglio a stare zitto, sai?” rispose, piccato, il divano ”o credi non sappia come ti piaceva vedere tutte le sconcezze che si scambiavano il nostro dottorino e le sue ganze?!”

PC : ”Io?!..e che c’entro io?! Io sono solo un misero esecutore..”

E il giornale, che non poteva stare zitto, come tutti i giornali: ”Alle due di notte, eh?! Lo so sai..se volevi ti potevi mettere in stand-by, invece nulla…ti garbava, vai..”

Ma prepotente si fece sentire lo zaino: ”Oh,ma che discorsi son questi..ma ci volete stare un po’ zitti! Io ho viaggiato per tre giorni, vorrei riposarmi un po’..e voi con le vostre bischerate non mi fate dormire…E non mi avete nemmeno detto chi è quella tegliona culona che si è spaparanzata sul giornale..”

Ma la tegliona si riscosse dal suo aristocratico silenzio: ”Ohè..badate a quel che dite..io qui sono un esemplare unico..sono l’unica ancora lucida e intonsa…e sono un regalo che il dottorino ha voluto fare a Giovanna per preparare le castagne che le piacciono tanto..””

“Se è per quello c’hai ancora la fascia di garanzia..”

Il piatto e la scodella, anche sporchi com’erano, si misero a ridere..si unì poi la tavola e tutto il resto..

Il fracasso era tremendo..finchè lo zaino s’impose: ”Zitti..Dio bono! Ora torna e mette tutto a posto lui, come gli pare, e te, caro giornale, vedrai se non finisci con la tegliona..”

Si fece subito silenzio.

Scendendo le scale, rinfrancato dalla doccia, mi sdraiai sul divano. Che disordine..!

Ma, per la prima volta, non mi disturbava…Anzi mi faceva quasi piacere..un simbolo del mio ritorno a casa..

Però a Giovanna non sarebbe piaciuto..forse..o forse sì..?!

Non c’era che un mezzo per togliersi il dubbio.

In un impeto d’amore afferrai il cellulare…

Intermezzo

Risposta affettuosa a Carla Faggi – di Cecilia Trinci

Erano quasi sempre artigianali,  in copia unica, originali e grandi, a volte eccessive e strane.

Non erano collane fatte per essere ammirate, ma per raccontare la mia gioia di essere con gli altri.

Pensandoci, dopo le parole di Carla, ho capito che le mettevo per me, secondo l’umore, lo stile delle mie parole o il luogo dove ero diretta. Come fossero il titolo di un libro da leggere.

Oppure, come è stato per il grande cuore dorato che ho portato per molti giorni di seguito, erano il ricordo di un bel pomeriggio, di un festoso compleanno, di  certe parole gioiose rimaste dentro incastonate.

O di una stagione, come la stella di mare in alluminio martellato appesa ad un girocollo di caucciù.

Oppure erano regali di persone troppo amate che, conoscendomi, sapevano intercettare i riferimenti preferiti: ametiste viola, malachite a strisce verdi cangianti, turchesi che cambiano colore. Oppure innocui vetri pieni di riflessi intrecciati in modi inaspettati, o palle trasparenti  come bolle di sapone di bambini….

Non uscivo mai senza collana.

Negli ultimi due mesi  non si sono mosse dai loro sostegni sopra il cassettone. Immobili e ignorate come oggetti invisibili. Ho pensato spesso che non le avrei più messe. Che il filtro dell’essenzialità avesse colpito anche loro, relegandole in un angolo tra le scope del pensiero.

Ma oggi una di loro mi ha chiamato, facendomi un occhiolino d’intesa.  E’ solo un  giro multiplo di nodi di seta, viola, che ho portato spesso con le mie Matite…..

Ancora non l’ho messa di nuovo……ma l’ho guardata a lungo e accarezzata e forse…… è un segno viola di un probabile ritorno…..

Il gioco con le immagini – due

Il primo appuntamento – di Vanna Bigazzi

L’intenzione era quella di correre a casa con la padella nuova, acquistata in fretta e furia dai casalinghi, sotto casa, prima di andare a scuola e farsi, al ritorno, delle belle crepes con la nutella per pranzo. Jimmy si sentiva libero, finalmente: genitori fuori città, cane dai nonni perché i suoi non si fidavano a lasciarlo con lui. Mentre rientrava a casa dalla scuola, proprio quando stava varcando la soglia- ecco, il cellulare, cavolo, proprio ora…- Un invito di Matelda, la sua passione e poi- così in fretta, chissà, forse per la gita sul lago, quella del battello delle due…- Jimmy non poteva perdere l’occasione. Veloce cambiò il suo programma, salì in camera sua, dove già regnava un disordine sovrumano – tanto chi se ne frega, loro non ci sono… – Appoggiò sul tavolo la padella nuova, depositò lo zaino a terra, rapidissimamente prese due wurstel, dal frigo, con patatine e tornò di corsa in camera portandosi due piatti. Consumò il tutto velocemente riuscendo anche a vedere in tv quel programmino breve che davano proprio a quell’ora. Non poteva fare attendere Matelda; dopo tanti mesi passati a guardarsi sui banchi di scuola, finalmente si era decisa a chiamarlo e così di furia! Ingurgitate due boccate d’acqua minerale, si cambiò gli abiti sudaticci del mattino abbandonandoli sul divanetto, così come capitava e cercando, in quella confusione, l’orologio che si era scordato di mettere prima di andare a scuola. Fuggì via verso l’amore. Uscito dalla stanza, la palla ingombrante, al lato del divano, esordì: “Chissà dove è andato così di fretta…” Una vocina rispose: “Eh forse, dico forse, io lo posso immaginare…” Dove, dove…” sibilò il giornale soffocato da quell’intrusa della padella, mai vista né conosciuta che si permetteva di stare col suo “fondo” si fa così per dire, per non essere volgari, proprio sopra di lui. La vocina riprese a parlare,   era quella del diario, quel bel diario azzurro dove Jimmy scriveva frasi d’amore. La colla era proprio incollata vicino a lui perché serviva ad appiccicare le pagine venute male. Da uno dei sacchetti sparsi a terra, si sentì ancora: “E’ innamorato…”. “Macchè innamorato!” brontolò la palla: “ha tredici anni, sono infatuazioni…” Eppure era proprio vero, Jimmy aveva perduto la testa per Matelda! Avrebbe rinunciato a tutto pur di stare con lei, anche a leggere il suo giornaletto preferito o ad ascoltare “Das Beste” della sua Rock band preferita. Quando giunse, trafelato, all’abitazione di Matelda, non troppo lontana dalla sua, la trovò in piedi, davanti alla porta che lo aspettava: “Accidenti a te, te lo avevo detto di far presto, i miei non ci sono e io ho trovato il bagno allagato, non sapevo chi chiamare…

Il gioco con le immagini – uno

Un disordine incredibile – di Carla Faggi

Un disordine incredibile, c’è tutto dappertutto! No, no, oggi in casa non ci sto.

-Ciao maison, ti lascio così nel caos, rimetto a posto dopo.

Prepara la mascherina: oggi rossa!

Si veste con l’abitino giallo, i sandali e la borsetta rossi come la mascherina.

-Un tempo ci abbinavo il rossetto e gli orecchini. Ma chi se ne frega, la classe non è acqua e l’abbinamento c’è!

Nella borsetta i guanti, il gel per le mani, tutto riconvertito da un famoso brand della zona.

Decide di andare a fare acquisti.

Nel negozio vicino alla piazza le hanno detto che c’è un nuovo cappellino con visiera in plexiglass che fa tendenza.

Dopo aver fatto la fila a più di due metri di distanza, ha un nuovo orologio che suona se ti avvicini a qualcuno più del dovuto, comodo ma anche molto trend, entra nel negozio.

Sceglie un cappellino arancione con la visiera con disegnato nella parte alta occhiali da sole, molto, molto glamour.

Uscendo si è rispecchiata nella vetrina del negozio e si è sentita molto à la page.

Il dialogo di tre oggetti dell’immagine secondo Carla Faggi

-Credo di non aver lavorato mai così tanto come ora, pilates tre, quattro volte a settimana, mi sembra di essere a cottimo. In questa stanza penso di essere quella che ha lavorato di più, dopo il computer naturalmente.

-Sempre a lamentarti, eh Pallona! allora io che dovrei dire, zoom, skype, wa, mail, sms, messenger!

-Dall’espressione che hai ne sembri orgoglioso!

-Certamente, senza di me tutto sarebbe più drammatico!

-Esagerato, misogino e omofobico!

-Che centra omofobico?

-Così, ci stava bene!

Nmh, pensa la Teglia Nuova, come mi stanno sul manico questi due, credono di essere la soluzione di tutti i mali, invece non sanno che vengono solo usati, io invece sono sognata, immaginata, voluta, comprata. Non usata, perchè io sono l’essenza del benessere, potrei creare cose grandiose, cibi libidinosi, generare orgasmi di piacere. Ma non lo faccio, perchè solo io sono la Teglia Nuova!

Occhi critici

Occhi critici – di Sandra Conticini

Passo davanti allo specchio e mi accorgo che i miei occhi ultimamente  sono diventati  molto critici. Mi dicono che il tempo sta passando anche per me, la mia faccia comincia ad avere qualche ruga in più, il fisico si è appesantito, i vestiti che prima portavo non mi stanno come vorrei, quindi decido che è meglio passare oltre.

Si dice che gli occhi  siano lo specchio dell’anima, ed è vero, perchè sono io che non mi sento a mio agio con me stessa e loro tirano fuori tutto quello che non  riesco ad accettare.

Con il passare del tempo anche loro sono cambiati, sono neri e piccoli ma fino a qualche anno fa erano ridenti, allegri, e pungenti; ora li vedo tristi e  affaticati dal tempo che passa.

Quando  mia figlia era piccola  bastava un’occhiata per farle capire che faceva qualcosa che non doveva, ed anche ora basta  un’occhiata per capire se va tutto bene o c’è  qualcosa che non va.

Le persone che, quando parlano, non mi guardano negli occhi, o muovono continuamente testa e occhi non mi piacciono, le considero viscide e  cerco di evitarle  perchè non riesco ad aver fiducia.

Come esiste il linguaggio dei segni, sono sicura che anche gli occhi abbiano un loro linguaggio, molto difficile da smentire;  possiamo leggere la felicità, il dolore, la tristezza, la disperazione. In questo periodo però  sono meno espressivi, perchè il viso è coperto dalla mascherina, che spesso è tenuta ferma dagli occhiali da sole e capire cosa vorrebbero dire è molto difficoltoso.    

OCCHI DAVANTI AL COMPUTER – di Sandra Conticini

Ero lì davanti al computer per provare la nuova piattaforma di “ZOOM” che in questo momento va per la maggiore. Finalmente entro e trovo quattro ospiti come me  li a spippolare. Chi diceva: io vedo nove persone, io quattro, non vedo…accendi la videocamera, qualcuno ogni tanto spariva…poi riappariva, come fosse un gioco di prestigio…

Ecco, sembra che ci siamo e tutti ci vediamo e sentiamo, ma gli occhi insieme all’espressione del viso parlavano da soli, c’erano occhi sgranati per la meraviglia, sorridenti e allegri perchè erano riusciti troppo facilmente, altri ati e insicuri per la paura di aver sbagliato qualcosa, alcuni un po  misteriosi ma meravigliati perchè, sebbene si ritenessero non tecnologici,  erano entrati nella videochiamata senza confrontarsi con nessuno….       

E viaaaa ora si può partire con questa didattica a distanza come nelle scuole dei bambini!!!

Undicesimo incontro virtuale: immaginazione

Osservate bene questa scena.

Cosa vedete?

Cosa immaginate?

Che cosa è successo?

Chi può esserci?

Immaginate una storia, in cui questa scena possa essere l’inizio o la fine.

Scrivetela.

Scegliete ora tre oggetti a piacere nella scena e fateli parlare. Liberamente………

Fate raccontare da loro ciò che è successo nella vostra storia.

Occhi e nuvole

Tornare – di Carla Faggi

1988 a Marsiglia ad operarmi.

Rimasi in convalescenza per la fisioterapia quasi due mesi.

All’inizio pensavo molto a quello che avevo lasciato a casa, in Italia, la famiglia, gli amici, il lavoro. Per cercare di sopravvivere provai a vivere quei due mesi nel miglior modo possibile.

Eravamo diversi italiani, anche della mia età.

Trovai degli amici, ed anche un fidanzato, un francese.

Andavamo ambedue con le proprie stampelle ad un ristorantino poco fuori il centro di riabilitazione a mangiare le ostriche. Mai più mangiate buone come allora.

Ricordi belli, conditi di riflessioni sul mio mondo italiano che avevo lasciato, di comunanza, la sopravvivenza che sapeva di vita, di emozioni, di bello. Ma soprattutto c’era il socios habere malorum ed il sentirmi fortunata di essere la meno messa male.

Poi fu il momento di rientrare, senza stampelle e pronta alla vecchia ma nuova vita.

Ricordo fortemente la mia paura del rientro, quasi volevo rimanere ancora un po’ lì, dove ero protetta, curata, coccolata. Dove mi relazionavo ad un mondo ristretto.

Dovetti però tornare, ma non fu facile.

Oltre il piacere di rivedere la famiglia e gli amici c’era il dover ricominciare ed io ero diversa.

Significava fare delle scelte, assumersi delle responsabilità, programmare il futuro, lontano dal seguire per forza inerme quei binari fissi del prima.

Uscii con gli amici, ma mi dicevano che ero un po’ assente, strana. Poi tutto passò come per incanto, perchè si sopravvive anche ai cambiamenti.

Nel frattempo qualcuno mi regalò “La cura” di Herman Hesse. Per aiutarmi a capire.

L’ho riletto ieri. Volevo capire l’oggi.

Ho ritrovato tanti spunti, tante correlazioni, però è vero che ogni libro è per quel momento, e per me Hesse era per allora, forse meno per ora.

Comunque ho riascoltato le sue riflessioni ed in alcune mi ci sono ritrovata oggi.

Come il meticoloso interesse per le piccole quotidiane cose…si, proprio quelle a cui si guardava con superiorità morale, troppo presi dal più nobile, dal più evoluto.

Tipo pulire la casa…vedete, per una donna impegnata, presa da mille interessi, che voleva e ancora un po’ vuole fare la rivoluzione, pulire la casa non era da me. Noblesse Oblige.

Eppure io, illuminata ed evoluta donna progressista, ora ho una casa perfetta, una singola briciola di polvere è una rivoluzione da fare.

E trovo la stessa gioia, la stessa meravigliosa felicità, l’appagamento del portare a termine qualcosa di programmato, sia esso nobile o quotidiano, perchè come dice Hesse, nulla è piccolo o sciocco ma tutto è santo e venerabile.

Allora, seguendo il suo consiglio, mi sono guardata attorno e ho sentito la risibilità di tutta questa situazione, ho guardato il cielo e ho visto le nuvole, ho cominciato a ridere, ridere e ancora ridere.

Basta ridere dice Hesse e l’incantesimo si rompe.

Fiduciosa sono andata ad accendere la televisione…chissà se sarà finito tutto…

Occhi di mamma

Occhi di mamma – di Vanna Bigazzi

Cosa dicono i tuoi occhi (quelli della mamma)

Sembra che tu sia qui, ma non ci sei,

tu vivi altrove.

Occhi vaganti, non si fermano al reale:

sembran distratti eppure sono attenti.

Dimensioni diverse van cercando,

certo qualcosa che non si può afferrare…

Occhi incoscienti, occhi di veggente.

Non parli con la voce ma con l’anima e col cuore

e son di un chiaro verde i tuoi smeraldi,

di una freddezza che parla d’amore.

Amor che non si vede ma si sente,

si sente solo se il tuo occhio è attento.

Evanescenti, rubano ogni pensier smarrito,

fievoli, sfuggono in un bramare eterno.

Occhi di smeraldo

Occhi color smeraldo – di Nadia Peruzzi

Se ne andò quasi prosciugata di respiro, col petto che le faceva male dal peso che lo attanagliava.

Gli occhi tristi e vitrei come non mai. Raccolse in fretta le poche cose che aveva portato con sé e uscì prima che lui rientrasse.

Si erano conosciuti in un pomeriggio di sole.

Lei entrava in un negozio del centro a comprare delle cose, lui stava uscendo di corsa dal bar vicino con una bibita  in mano che nello scontro si sparse ovunque e macchiò gli abiti di entrambi.

Occhi infuriati si scontrarono con occhi sbalorditi e incuriositi e vinsero i secondi. Erano così chiari e luminosi e venati di allegria che lei non fu in grado di reggere oltre con la sua arrabbiatura per la camicetta perduta dentro sgorbi di giallo paglierino.

Lui fu gentile. Si scusò più volte e si offrì di ricomprargliela.

Tutto ebbe inizio fra loro con questo incidente di percorso e a causa di un incontro di occhi e di sguardi che dicevano e promettevano molto.

Fu passione vera. Di quelle che non lasciano il tempo di respirare, né di farsi domande.

Laura si sentiva risucchiata dentro un vortice che girava ad una velocità esagerata.

Luigi in breve tempo era diventato il centro assoluto dei suoi interessi. Il resto, la sua vita precedente, sfumata e consegnata ad un passato che sbiadiva ogni giorno di più.

Le conoscenze e gli amici di prima abbandonati uno ad uno. La sua vita aveva un senso solo e se ruotava attorno alle cose che lui decideva dovessero fare insieme.

La colmava di attenzioni e questo la riempiva di gioia.

La inondava di messaggi e di chiamate e lei pensava solo a quanto questo fosse segno dell’amore incondizionato che lui provava per lei.

Per questo quando le propose di trasferirsi da lui, rispose con un sì colmo di attese positive.

Due giorni dopo, mise piede per la prima volta a casa di Luigi.

In tutto quel periodo non era mai successo che lui la invitasse. Si erano incontrati sempre fuori o a casa di lei. La stranezza della cosa la sfiorò solo un istante mentre varcava la soglia.

Si ritrovò in una casa senza cuore e spoglia di vita. Stampe e poster anonimi alle pareti, arredamento tutto sommato dozzinale. Sembrava un motel di terza categoria più che una casa accogliente per un amore nuovo e un progetto di vita.

Aveva poco o nulla a vedere tutto questo con Luigi. Almeno con l’idea che si era fatta di lui frequentandolo in quel periodo. Della sua esuberanza, la sua simpatia, la sua spigliatezza, la sua vivacità lì dentro non c’era assolutamente nulla.

L’unico tocco di vita, e le costò ammetterlo, se lo trovò di fronte quando entrò in camera .

Due occhi femminili la scrutavano come se volessero entrarle dentro. La foto che li conteneva era così grande da occupare tutto lo spazio sopra la testata del letto. Il verde smeraldo con pagliuzze viola risaltava anche nella penombra. Dalle piccole rughe attorno agli occhi si capiva che si trattava di una giovane donna, che stava ridendo e che in tutta evidenza non era lei.

Si aggirò a disagio in quella stanza.

Si sentiva seguita da quello sguardo. Era così vero, così vivo da renderla insicura.

Cominciò a chiedersi se fosse per evitare domande che Luigi non l’aveva mai portata a casa sua e quel giorno non era lì a fare gli onori di casa. 

“Perché ora? Perché così?”. Una stilla di dubbio si insinuò nel quadro tutto rosa, tutto positivo che si era fatta fino al momento in cui la chiave si era messa a girare nella serratura.

Luigi voleva prendere tempo? Voleva aspettare che si fosse sistemata?

Ma sistemata come se i cassetti erano tutti pieni e così maniacalmente ordinati da rendere impossibile anche pensare di poter spostare qualcosa anche solo di un millimetro?

Quello di fondo, una volta aperto, la fece arretrare di un passo. Indumenti femminili vi erano gettati alla rinfusa, senza un criterio, senza attenzione. In alcuni casi appallottolati stretti come se fossero stati pressati in una morsa e poi scagliati con forza rabbiosa e irragionevole dentro il cassetto.

L’armadio non era da meno. Le cose di lui ordinate in modo puntiglioso e persino fastidioso a vederle. Quelli di lei affastellati senza cura, uno sull’altro, spiegazzati e informi .

Perché continuava a tenere quelle cose nell’armadio?

Perché un doppio spazzolino nel bagno ? E l’accappatoio rosa appeso accanto a quello di Luigi, che senso aveva?

Perché costringerla a fare i conti con una presenza femminile a cui Luigi non aveva mai accennato? Veniva dal passato? Quanto remoto poteva essere se ancora la casa era piena di lei?

Laura si sedette sgomenta sul letto.

Si prese la testa fra le mani, la fronte le scottava come se avesse la febbre.

Sentiva quegli occhi immensi pesarle dietro alla schiena   per prendersi gioco di lei.

Una sorella? Una fidanzata? Un’amante?

Quanto aveva contato e contava ancora per Luigi? 

Stille di malessere la coglievano ad ondate, ad ogni domanda che la sua mente riusciva a formulare.

Quei suoi occhi magnetici e pieni di vitalità l’avevano stregata e le erano sembrati un pozzo di trasparenza e sincerità.

Invece la sincerità era stata pari a zero e la trasparenza era annegata nella melma opaca dei tanti non detto.

Che scherzo cinico le stava giocando?

Si rimise in piedi a fatica. Ebbe quasi un capogiro e sbandò andando a colpire la libreria.

Fece cadere alcuni libri e delle foto si sparpagliarono a terra insieme a dei ritagli di giornale.

Foto recenti e articoli di due anni prima. Luigi in compagnia di una bella ragazza, mani intrecciate, abbracci e baci appassionati, sguardi lucidi di felicità.

La cronaca contenuta in quei ritagli raccontava di un delitto. Una giovane donna rinvenuta morta in quella stessa camera, su quello stesso letto, sotto lo sguardo di quegli occhi ridenti.

Che poi erano i suoi stessi occhi. Avevano visto tutto ,ma non potevano raccontare più nulla.

Tutto era rimasto sospeso. Nessun dubbio fugato del tutto.

Il fidanzato era stato indagato e poi prosciolto. La morte ricondotta a cause naturali. Analisi su analisi non avevano evidenziato nulla di innaturale malgrado fosse stato difficile stabilire come una ragazza sana e forte fosse potuta morire all’improvviso.

Il patologo in una intervista si era detto demoralizzato per non essere arrivato a stabilire nulla che avesse un senso. Quella morte non lo convinceva per nulla ma non aveva trovato nessun appiglio per dichiararla qualcosa di diverso da morte naturale.

Nell’ultimo ritaglio la foto di un uomo che scendeva le scale della procura dopo che le indagini erano state definitivamente chiuse.

Era Luigi. Rilassato, composto, tranquillo. La tragedia sembrava non averlo nemmeno sfiorato. Negli occhi l’espressione di chi si fosse liberato di un peso. A ben guardare le sembrò di scorgerci anche un che di trionfo e di scherno che mai aveva visto comparire prima.

Quegli occhi così amati in quella foto le misero apprensione. Laura ci vide lo sguardo di chi sa di averla scampata bella.

La valigia mezza sfatta ai suoi piedi aspettava solo di esser chiusa.

Lo fece con rabbia.

Uscì rapidamente dopo aver guardato per l’ultima volta quei due occhi lampeggianti di smeraldi.

Non si girò indietro nemmeno una volta mentre andava di corsa verso la macchina che l’attendeva poco lontano.

Occhi sulle nuvole

IN AGOSTO SULL’APPENNINO TOSCO – EMILIANO – di Elisabetta Brunelleschi

La città è immersa nell’afa dell’agosto.

Rino e Paolina sono alla ricerca di una pausa di fresco, decidono che l’unica possibilità di refrigerio è andarsene verso la montagna.

Cercano, tra gli amici rimasti in città, qualcuno che abbia voglia di una camminata sugli Appennini.

Ci sono Gabri e Alex, basta una telefonata! Anche loro in città, anche loro oppressi dall’afa, anche loro con la voglia di scappare!

Infatti Alex ha già pronto un itinerario: due giorni tra la Doganaccia e la Capanna Tassone,   con sosta al lago Scaffaiolo.

Partono la mattina del 14 agosto, la città è ancora addormentata.

In quattro in un’auto, con gli zaini ben stipati nel portabagagli, imboccano la Firenze-Mare.

Procedono tranquilli, i pochi mezzi che transitano sono per la maggior parte diretti in Versilia.

Escono al casello di Pistoia e la salita verso Cutigliano quasi si trasforma in un viaggio in solitaria.

Curva dopo curva raggiungono la Doganaccia. Qui i gitanti del Ferragosto hanno già iniziato a sistemare i tavolini da picnic e a impossessarsi delle aree attrezzate per la grigliata. 

I nostri quattro parcheggiano e appena scesi dall’auto, si lasciano accarezzare dall’aria fresca della montagna.

Le donne s’infilano prudentemente le felpe, gli uomini affrontano invece a braccia nude il leggero venticello.

Zaino in spalla e via, un piede davanti all’altro, contenti del cammino, seguono la segnaletica bianco\rossa che li condurrà al passo della Croce Arcana.

La strada, all’inizio un comodo sterrato, lentamente s’inerpica, si avvolge come una spirale e a tratti è scomoda e sassosa. I faggi da alberi dritti e svettanti diventano bassi e contorti, sino a disporsi in radi cespugli striscianti che si mescolano coi sorbi montani e via via cedono il passo ai prati erbosi dei crinali.

La giornata è serena, il sole scalda le membra, verso l’alto il panorama si allarga e sul crinale sembra di dominare il mondo. 

Giunti al valico, si fermano per alcuni minuti di fronte al memoriale che ricorda le vittime dell’ultima guerra mondiale e poi ripartono, su per le brughiere appena ingiallite dal sole dell’estate.

Il sentiero ora è più stretto e i quattro amici camminano in fila indiana, accompagnati dal fruscio del vento e dal parlottio lontano dei pochi escursionisti che si avventurano in alta quota.

Paolina dice che solo salendo in alto si può capire e gustare la montagna, gli altri concordano, ma la conversazione muore lì, preferiscono la magia dei silenzio. 

È mezzogiorno passato e lo stomaco reclama una sosta.

Si siedono in uno spiazzo erboso appena fuori dal sentiero. Dallo zaino ognuno trae il proprio panino. E si divertono a indagare il contenuto.

“Pomodoro e tonno”. 

“Frittata di zucchini”. 

“e qualcosa anche per domani..”

“ Una scatoletta di tonno?”

“ No, del formaggio”.

“ Noi anche le barrette”.

Intanto Alex distende sull’erba la cartina e controlla il percorso:

“C’è ancora un bel tratto, ma, ci rassicura, sarà tutto in discesa e all’ombra. Inizierà una bellissima foresta di faggi, una zona protetta”.

Commentano, osservano la carta, rammentano rifugi e paesi visitati in passato e concordano su come certi tratti dell’Appennino tosco-emiliano assomiglino alle Alpi.

“ Sì, soprattutto il passo delle Radici, e quello delle Forbici e il monte Prato …”

“ E il passo di Annibale”.

“Già, c’è anche il Dente della Vecchia”.

Nessuno vuole ripartire, le ore di luce sono ancora tante e possono rimanere lassù a godersi il cielo azzurro.

Si distendono sull’erba e chiudono gli occhi.

E qui per Paolina avviene il miracolo.

Apre gli occhi e nel pieno dell’azzurro vede galleggiare due enormi nuvole bianche. Subito si ricorda quando da bambina si fermava incantata a guardare le nuvole. E in quelle masse bianche vedeva gatti, galli, ballerine, profili di uomini o donna con nasi adunchi che si arrotondavano e poi si trasformavano in spuma del mare. Le zie le dicevano:

” … guarda, c’è un un cane, ha la bocca aperta, guarda, guarda, … oh! Ora non c’è più!”

Immobile nell’erba, testa appoggiata sullo zaino e occhi sbarrati, Paolina osserva il cielo. Le nuvole si allargano, si allungano, si fondono e sospinte dal vento si spostano verso ovest. Dai bordi sfrangiati di un batuffolo bianco emerge il muso una volpe che in un attimo  diventa un pesce e poi il cappello di un prestigiatore che leggero svanisce tra vele e onde.

Paolina chiude gli occhi e tutto diventa un sogno avvolto nel silenzio ovattato della montagna. Lontane le pene, lontani i pensieri, solo il regalo di una tregua.

Nemmeno il chiacchierio di un gruppo di escursionisti interrompe il suo riposo. Gli occhi restano chiusi.

Poi una voce di donna emerge più vicina:

“Quanto manca alla la Croce Arcana? Grazie!”

“Poco, qualche sali-scendi e ci siete!”

Rispondono gli altri in coro.

Paolina riapre gli occhi, gli escursionisti sono già lontani. Ritorna la magia del silenzio.

Una nuvola copre il sole e l’aria fresca e frizzante dell’alta montagna si fa sentire sulle guance e sulle braccia. Le nuvole vanno e vengono, il sole riscalda e l’ombra raffredda.

A un certo punto Rino si alza e dice che è il momento di ripartire.

Alex subito si drizza in piedi e per primo afferra lo zaino.

Gabri e Paolina stirando braccia e gambe lentamente si tirano su. Paolina dà ancora uno sguardo al cielo:

“ Avete visto che nuvole”.

“ Speriamo non si trasformino in pioggia”.

“ No! Il meteo ha detto bel tempo”.

Paolina raccoglie le sue cose, è pronta.

Iniziano a camminare deviando verso destra. Lentamente abbandonano il crinale e dopo una ripida discesa raggiungono il bosco di faggi. Ora il sentiero diventa un’ombrosa strada. Pochi chilometri e come un miraggio appare la Capanna Tassoni. Posta nella valle di Lamola, è una vecchia struttura in pietra circondata dal bosco, ingentilita dall’accento modenese dei gestori e molto frequentata sia in estate che in inverno.

Gabri, Alex, Rino e Paolina prendono possesso dei letti, sistemano i sacchi a pelo, cercano la zona dove il telefono può prendere, s’informano sulla cena:

“Ci saranno anche le crescentine”.

Poi si siedono intorno a un tavolino e fra un te e una birra, chiacchierano di politica, di libri letti e di minute questioni giornaliere.

Per poche ore quello sarà il luogo ideale per una pausa dai ritmi incalzanti della città. 

Il giorno dopo ripartono con calma, il percorso non sarà molto lungo, ma ci sarà una bella salita.

Dall’ombrosa faggeta, si addentrano nella boscaglia, poi percorrono i prati e sempre in costante e a tratti ripida ascesa. Il fiato si fa corto, ma i nostri non demordono, ancora pochi passi e raggiunto il crinale, scenderanno al rifugio Duca degli Abruzzi, dove li attende una meritata sosta.

Via via che la meta si avvicina aumentano gli escursionisti lungo il sentiero e sui prati intorno.

Al termine della salita, scavalcando nel versante toscano, ecco che appare la conca erbosa affiorante di rocce che accoglie il lago, uno specchio d’acqua di modeste dimensioni ma brillante di luce, incorniciato da terra marrone e erba verde e in quel 15 agosto brulicante di gente.

In tanti sono saliti allo Scaffaiolo: c’è chi è disteso al sole, chi è seduto sul prato, chi cammina intorno alla riva, chi rincorre il cane e chi con gioia gioca coi bambini. 

Poco più in alto si vede il rifugio con i suoi muri in pietre grigie e una folla tutta assiepata nel piazzale antistante da dove giunge l’eco di una musica allegra e saltellante.

I nostri si avvicinano incuriositi.

 Che bella sorpresa!

Un trio composto da chitarra, batteria e fisarmonica intona canti della tradizione toscana. Quella gran folla è davanti al rifugio per ascoltarli.

Paolina e Gabri si fermano, si siedono su un muretto e si lasciano trasportare dagli stornelli e dai rispetti.

Gli uomini preferiscono farsi un giretto tra i sentieri lì intorno.

Un senso di allegria emana dal pubblico che con il battito delle mani accompagna il ritornello di un canto e con le voci stonate ripete uno stornello.

I raggi roventi del sole non si attenuano neppure col vento che di tanto in tanto va a increspare le acque del lago. Gabri ne è disturbata e si sposta nel rifugio. Paolina si mette il cappello, ma non lascia la postazione.

L’allegro cantare del trio la riporta alla gioventù, quando da ragazzina, si era appassionata alla musica popolare e aveva collezionato testi e registrazioni di brani toscani e anche di altre regioni. Ascolti e letture che le permettevano di ritrovare le origini contadine dei suoi avi e di comprenderne la vita.

Dalle strofe di una ninnananna sentiva trasparire i disagi del mondo femminile.

Dalla tiritera di una filastrocca poteva capire le fatiche del contadino piegato sulla terra.

Un rispetto le raccontava il dominio dei padroni.

E poi i doppi sensi, le malizie, gli scherzi, l’amore tradito e il pan pentito che le donne mal maritate andavano a mangiare.

Quei canti le fanno venire in mente la sua collezione di dischi in vinile, delle edizioni  “Dischi del Sole”, raccoglievano canti popolari dell’Italia intera. Dove saranno finiti? in cantina? si saranno persi come quei tempi felici?

“Ti sei incantata? Dobbiamo andare”

La voce di Gabri la riporta al presente.

“ Ma loro dove sono”

“Ci stanno aspettando, c’è ancora da camminare e dobbiamo tornare a Firenze”

Si avviano e insieme ricordano il concerto di una cantante folk, che aveva recuperato stornelli e rispetti amiatini.

“Mi sembra sia morta una decina d’anni fa”.

“ Il concerto. Sono passati quasi quarant’anni!”

Si ritrovano tutti e quattro all’imbocco del sentiero che li ricondurrà alla Doganaccia.

Paolina si volta verso quel pezzo di montagna colorato di gente e saluta con il cuore l’eco lontano della fisarmonica. Alza gli occhi e nel cielo terso ritrova una nuvola bianca.

Partono avanzando svelti sul percorso che scende, scende e scende.

Paolina sente l’aria che cambia, vede gli alberi nel bosco: la montagna più bella per quel giorno la sta abbandonando.

Ma torneranno, cammineranno ancora sulle cime dell’Appenino, questa è la promessa. Alex già progetta un’uscita in inverno:

“Con le ciaspole, appena c’è neve!”

Rino concorda. Le donne, invece temono il gelo.

“Andate pure, noi verremo in estate!” “O in primavera, ma dopo che la neve si è sciolta!”.

Occhi di fantasmi

INCUBO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE – di Luca Di Volo

Sul finire di via Montebeni, proprio dove essa termina traformandosi in via dell’Olmo, sulla sinistra, lievemente spostata verso l’interno, si ergeva (e tuttora si erge) un grazioso edificio.

In origine fu creato come cappella di famiglia per i nobili del luogo, circa alla fine del XVIII secolo… In seguito fu abbandonato, usato per scopi diversi, le guerre e i rivolgimenti sociali lo condannarono al silenzio e al mistero.

Ma non tutto fu dimenticato…tra i fittavoli del posto circolava a bassa voce una leggenda nera. Si parlava tra i denti e facendosi il segno della croce in continuazione, di un certo fatto di sangue proprio in quel luogo benedetto..u.n conte avrebbe ucciso la moglie e l’amante sorpresi in flagrante adulterio. Poi si sarebbe trafitto con la stessa arma.

Com’è ovvio, di episodi simili non c’è traccia nei cronisti del tempo né nei registri ecclesiastici. Ma questo non deve stupire, a quel tempo (come ora) con molti talleri si poteva nascondere sotto il tappeto tante cose…

Comunque, le visioni su quel luogo maledetto si sprecavano. Un contadino, in una notte di luna piena, aveva giurato di aver visto lì nei pressi un cavallo con sopra un cavaliere che portava la sua testa, anziché sul collo, sulla punta della sua spada..

Il poveretto fu internato a S.Salvi e non se ne è saputo più nulla.

Però la nera leggenda gotica persisteva.

Naturalmente se ne parlava durante l’Estate, quando, abbandonate le case, le donne, giovani e vecchie, si portavano la seggiolina fuori sul marciapiede e si preparavano ad affrontare il dolce rito del “frescheggiare”. Con tutto il corredo di chiacchiere e sussurri, immancabile.

Gli uomini giocavano a carte, chi a ventuno, chi a briscola, ma qualche commento sulle nuove spose o servette del quartiere animava sempre l’ambiente tra i tavolini all’aperto.

E i ragazzi…..già, i ragazzi… loro che facevano?!

Io mi ricordo solo quello che idearono quella sera.

Era Luna piena. Ad uno dei più grandicelli (si fa per dire), un certo Luigi, detto Ghighi, venne un’idea fantastica: Ragazzi, sevvucciavete coraggio, stasera si va avvedere la cappella degli spiriti.

Il silenzio scese ma tra il passare da vili o da eroi, non ci fu esitazione, molti avrebbero gradito che la mamma li chiamasse a casa (io), ma la mamma era lì che non ci pensava nemmeno.

Allora…tutti coraggiosi. Infatti un gruppetto di fieri eroi con visi sbiancati e gambe tremule si misero in fila e col coraggio della disperazione si misero in fila dietro al comandante. Che a quanto sembrava non era molto più coraggioso, ma di mezzo c’era l’onore e il posto di capo. Come al solito.

Durante il cammino, si erano un po’ rincuorati, qualcuno aveva anche ripreso a scherzare.

Ma quando il piccolo edificio sbucò da dietro una curva, bianco e spettrale nella cruda luce della Luna, zittirono tutti.

Anche perché questa pausa di assoluto silenzio fece sì che si potessero udire, proprio provenienti dalla cappella, gemiti, piccoli urli, rumori, grugniti…

Con un fil di voce Ghighi farfugliò..E son l’anime de dannati, stasera ci dev’essereissabba”.

Chissà perché in quel momento la curiosità ebbe la meglio sulla fifa, che era tanta, ma la voglia di vedere qualcosa fu più forte.

Quindi si avvicinarono, un passo avanti e due indietro…fino al cancello che li fece passare, sgangherato com’era.

Ora erano proprio davanti alla bocca nera dell’ingresso.

I gemiti, i sospiri, le mezze parole, le urla, evocavano davvero una specie di notte di Valpurga, sembrava che tutte le anime del Purgatorio si fossero date convegno..

Inconsapevoli delle gambe che li portavano avanti, stringendosi le mani sudaticcie, avanzarono ancora..e qualcosa ,nella penombra fallace del chiarore lunare, qualcosa videro.

Sarebbe stato meglio non vedere, ai loro occhi apparve una massa informe, senza capo né coda..uno di loro, Paolino, strillò: ”Madonna cià quattro gambe!!”.

Mal gliene incolse. Il mostro si scisse in due ..ne emerse un orco gigantesco nell’ombra che cominciò a berciare: ”Ora ve lo do io, brutti ragazzacci, evuvvenite addànnoia alla poera gente, ma ora ci penso io..” E afferrato un che di nodoso lo brandi’ con l’evidente scopo di romperlo in testa ai malcapitati.

Ma questi ultimi non fecero nemmeno in tempo a vedere quell’atto..già: erano schizzati via come avessero davvero il diavolo alle calcagna, la paura li faceva volare, letteralmente..La discesa di Montebeni fu compiuta in una frazione di secondo, mentre le urla belluine poco a poco si attenuavano. L’Orco non poteva competere con i cuori freschi e allenati di quei ragazzini.

Verso il Ponte a Mensola ripresero fiato….cominciarono i commenti. Ancora Paolino: ”O macchèavisto, l’era tutto ignudo..”

E Ghighi, con sufficienza :”Ma untelanno insegnao i preti che spiriti son sempre ignudi, io vorrè sapè icchevinsegnano alla Parrocchia”

Così s’è capito qualcosa dell’Italia di allora.

Ma a me scappò: ”E quell’altro..Madonna..un s’è nemmen visto, l’è rimasto nibbuio, si vede si nascondeva dalla luce, o chi era?!”

“O chi volevi che fosse..un’altra anima dannata..già ,più dannata della prima..” Questo era il solito Ghighi.

Nessuno al ritorno ebbe il coraggio di parlare. Le mamme la mattina dopo ci dettero a tutti un po’ di VOV perché ci vedevano un po’ sciupatini, e infatti ci furono domande da Inquisizione, ma tutti tenemmo duro. Ci tenemmo tutti dentro le nostre visioni…finché ormai abbastanza grandicelli, si capì cosa stavano combinando l’Orco e la Demonessa. Una risata liberatoria fece svanire i mostri.

PS:Non si stupisca il lettore di tanta ingenuità tra ragazzini  ancora in età prepubere, a quei tempi. Tra mamme reticenti, babbi sempre a lavorare, e poi preti e monache scoraggianti,l a conoscenza dei cosidetti “fatti del mondo” procedeva zoppicando tra travisamenti ,incomprensioni, tabù..e tanto altro. Quindi questa storia, che è vera ,è perfettamente aderente alle conoscenze e alle superstizioni che erano proprie dei ragazzi del rione di S.Salvi nell’Anno del Signore 1950.

Occhi nel parco

Piccolo sole – di Laura Galgani

Finalmente è stato riaperto Hyde Park. Mi è sempre piaciuto venirci la domenica mattina. La fontana dedicata a Lady D. mi accoglie appena varcato l’ingresso. Mi fermo e mi chino a far scorrere l’acqua fresca fra le mani. E’ una fontana scavata nel prato, che ricorda le piste per le palline sulla sabbia. Mi pace immaginare i bambini che d’estate torneranno a giocarci dentro.

A sinistra il Serpentine River è più tranquillo del solito. Niente barchette che vanno su e giù, ancora non si può.

Accelero il passo, ho bisogno di sentire il mio corpo che scatta, il cuore che batte forte e il respiro farsi più frequente, ma dopo pochi passi devo rallentare. Non sono libera di respirare. La mascherina che indosso me lo impedisce. Ho la tentazione di tirarla giù, ma ci sono altre persone non molto distanti da me, non posso. Cerco di fare un respiro profondo, mi calmo e mi guardo intorno. In lontananza, i grattacieli e la sagoma di Saint Paul mi ricordano dove mi trovo.

Guardo di nuovo dritto davanti a me. Una sagoma scura si avvicina. E’ una donna musulmana che indossa il niqab. E’ tutta coperta; i capelli nascosti, il viso reso invisibile dal velo, il corpo appena intuibile sotto la lunga tunica, le mani coperte dai guanti.

Stiamo andando l’una incontro all’altra. Io sbuffando impacciata sotto la mia mascherina, lei determinata e dal passo elegante come una regina. Mi guarda, dall’unico spazio scoperto mi aggancia già da lontano. Nel mio procedere incerto mi lascio afferrare dalla forza che promana dai suoi occhi, anche se ancora non li vedo. Fisso il mio sguardo sull’unica apertura intuibile di quella creatura, mentre continuiamo ad avvicinarci.

Fino a poco tempo fa non avrei avuto il coraggio di guardare una donna col niqab. L’imbarazzo sarebbe stato troppo forte, così come l’impulso di giudicare. Ora però è cambiato qualcosa, mi rendo conto che non siamo più così diverse. Lei col niqab, io con la mascherina. Vedo i suoi occhi. Sono truccati con eleganza. I miei no. Occhi grandi, verdi, ciglia lunghe, curvate sapientemente all’insù. Mi osserva intensamente, mi sorride. Lo capisco dai suoi occhi. Sono perplessa, non so cosa fare. Lei domina la situazione, io non possiedo i codici comportamentali minimi per districarmi in questa situazione inedita.

Devo decidermi in fretta, stiamo per incrociarci. Il suo sguardo è ancora più esigente, richiede una risposta.

E allora sì, mi lascio andare, faccio prevalere ciò che ci accomuna. Rispondo con un sorriso pieno che mi illumina gli occhi. Le nostre scintille si incontrano e insieme formano un piccolo sole che per un istante brilla fra noi due. Ci incrociamo e ci salutiamo con un lieve ceno del capo.

Due sorelle si sono riconosciute grazie a quella barriera che le ha rese simili.

Continuo a camminare contenta di non aver perduto l’occasione di vincere un mio pregiudizio.  

Occhi languidi

OCCHI LANGUIDI – di Simone Bellini

Finalmente il portone si apre, dopo dieci minuti di attesa esce una giovane coppia con l’aspetto estasiatamente stanco per una notte non dormita.

Uno sguardo per scusarsi dell’attesa mentre carico le valige ed un abbraccio impetuoso mentre rientro in macchina.

Un lungo bacio ardente, lungo mentre metto in moto il taxi, lungo mentre mi sporgo lanciandogli una comprensiva ma spazientita occhiata.

Le labbra si lasciano lentamente, l’abbraccio si scioglie accompagnandola sul sedile posteriore :

  • Airport please, departure for Canada, tank’s –

La portiera si chiude, l’auto parte, lei si volta per salutarlo un’ultima volta prima di perderlo di vista.

Adesso la testa è appoggiata sullo schienale, mento in alto occhi persi nei ricordi.

Pian piano le lacrime invadono il viso accompagnate da soffocati singhiozzi.

Cerco nelle mie tasche il pacchetto dei fazzoletti e in silenzio glielo offro. Lei lo prende ringraziandomi con uno sguardo attraverso lo specchietto retrovisore.

Arrivati, mentre scarico le valige, mi restituisce i fazzolettini con un bacio sulla guancia: – Y love Italy, y love Florence, tank you ! –

I suoi occhi adesso brillano di gratitudine, la partenza sarà più lieve !

Con gli occhi il cielo

Occhidi Vanna Bigazzi

Con gli occhi il cielo,

con gli occhi il mare,

con gli occhi piange

l’animo mio, ferito e oltraggiato,

con gli occhi ride il volto di chi ho  amato.

Nello specchio degli occhi tutto può accadere:

brilla lo sguardo di un vecchio grinzoso,

luccica l’occhio a un vivido trascorso,

persin quei fori opachi scintillan d’emozione.

Parlano in tutte le lingue del mondo.

L’intera vita, le cose da amare

son dentro loro in un lago profondo.

Gli occhi dei bimbi son fatti di sogni,

fissan le stelle a parlar col Creato,

arrivano all’anima attraverso il cuore,

perché posson solo parlare d’amore.

Vedono cose che gli altri non sanno:

son luce divina che il blasfemo acceca,

son gli occhi del bambino,

son gli occhi del poeta.

Occhi di stelle

Occhi di stelle – di Stefania Bonanni

Si fa tutto, con gli occhi. Si ride, si piange, si mangia, si cerca, si nasconde, si ruba, si fa all’amore, si parla con bambini che ancora non parlano ma hanno già occhi così grandi e spalancati che potrebbero contenere il mondo. Potrebbe essere che il processo fosse inverso. Che si nasca pieni di sapienza di vita, e che piano piano ci si veda costretti a dimensioni più umane, piccole, limitate e tutte da imparare. Questo lo penso da quando ho conosciuto una piccolissima nipote, con occhi enormi e spalancati, da subito. E neri, del nero luminoso di una notte trapuntata di stelle, pronti a ridere argentati come sanno i bambini, immediatamente felici. Credo che quella sia la felicità, quella che un nano secondo dopo diventa strilli, e pianto a dirotto, senza intermediazioni.  E occhi pieni di lacrimoni gonfi e r otolanti, inconsolabili. Si risolve all’inizio con l’essere attaccati ad un seno, o cullati, baciati, comunque guardati dagli occhi più dolci che la vita avrà in serbo per noi,  accarezzati da mani calde e leggere, o fredde e pesanti e callose e screpolate, ma sempre calde e leggere, sulla fronte dei bambini. Poi cambiano, gli occhi. Ci sono credenze, parlano di veli di angeli sugli occhi dei neonati, anche il colore dei primi tempi sarebbe un’illusione. Però cambiano davvero. Diventano pieni d’affetto, di voglia di fare il chiasso, di curiosità,  di risate, di capricci. Poi cresce tutto il resto, e sembrano ridimensionati. Fossi un pittore disegnerei bambini con occhi grandi, come tele da riempire.

Questi sono occhi di oggi. Quelli di  eri, gli ultimi, per l’ultima volta li ho visti già chiusi,  e fu questo a provocarmi  un dolore violento.  Fu una corsa in auto, treno, aereo, treno, taxi. Percorsi l’Italia, con l’angoscia di non arrivare in tempo. Era morto ieri, sapevo che avrebbe avuto gli occhi chiusi, se fossi arrivata in tempo, prima che chiudessero, ma non ci credevo. Perché si chiudono subito gli occhi? Semplicemente, senza che si potessero vedere gli occhi, non era lui. Aveva occhi più azzurri del cielo sereno, più celesti dell’acqua del mare, più belli di brillanti preziosi. Lampeggiavano, tra capelli neri e pelle abbronzata. Gli occhi belli sono quelli colorati di celeste,  verde, lui li aveva stretti come tagli e brillanti come acciaio. Non aveva bisogno di parlare molto, guardava, e tanto bastava. Non volevo più  mangiare? Uno sguardo, e mangiavo. Parlavo, forse non era il monento? Uno sguardo, e non volava più una mosca. Erano occhi amorevoli quando rideva, con i denti bianchissimi in mostra, e le guance magre che si arrotolavano arricciate sotto gli occhi stretti stretti,  l’azzurro lampeggiante .”Mio padre un falco, mia madre un pagliaio “. Lei era riposo, abbracci, distendersi al fresco, bere dalla sorgente. Occhi neri come i fondi di caffè,  come i resti dei legni bruciati nel camino che non avevamo, come le more mangiate dai rovi, senza lavarle, come le scritte sulle pareti bianche. Come una macchia d’antico inchiostro su una cartasuga. Ci si entrava dentro, e cullavano ,lasciavano scie . Non li ho persi. Mi sorprendevo a cercare, tra la gente. A fare paragoni,  confronti, somiglianze.  Mi è capitato di essere ancora al centro di quel raggio. Non dovrei raccontarlo, ma è stato così intenso ed indimenticabile che la realtà vaneggia, e i sogni non finiscono, in quella dimensione.

In un prato di un verde nuovissimo, china, coglievo piccoli fiori fatti di campanelline bluette, alcuni più azzurri, alcuni più viola. Sola. Si fermò il vento, si immobilizzarono le foglie degli alberi, non passarono macchine sulla strada lontana, e forse neanche sull’autostrada, ancora più  lontana. Fu come trovarsi riparata sotto un telo di cotone spumoso. Piano, mi tirai su e mi trovai occhi negli occhi di un meraviglioso capriolo. Un attimo, riflessa in quegli occhi neri. Gli occhi freschi e fieri di un animale potente, che in un lampo divoro’ la collina e sparì. In quegli occhi neri, io.

Un’altra volta,  Un posto pieno di gente e io che da un po’ mi sentivo guardata. Capita, no?, che ci si sente uno sguardo addosso. E non capivo, non trovavo l’origine della sensazione. Guardavo alla mia altezza, non era da la’. C’è voluto un po’, sempre bisogna fortemente volere,  poi ho incrociato gli occhi di un vecchio labrador. Lui, diciamo bianco sporco, gli occhi grandi e tondi,  di nero profondo.  Mi ha guardato arrivare vicino, mi ha tenuto inchiodata al suo sguardo fino a che l’ho toccato. Avrei potuto dargli un bacio, lo avrei potuto abbracciare. Aveva quegli occhi potenti, che non si staccavano. Mi sono allontanata a fatica. In fondo al corridoio l’ho cercato ancora, e ancora eravamo occhi negli occhi. E ancora lo penso.

Non si dimenticano gli occhi che si sono lasciati guardare dentro.

Occhi verdi

Lui – di Rossella Gallori

Ci eravamo conosciuti, molti,  molti anni fa, mi avevano parlato di lui, in modo distratto, forse non avevo avuto voglia di saperne di più…pensavo…a che mi serve frequentarlo?

Sposata da poco, senza figli, tornavo a casa all’ora in cui molti avevano finito di cenare, ignoravo volutamente la sua presenza, avevo altro da fare.

Non so quanti anni erano passati, giorni, ore…lo cercai…lui così vicino ed irraggiungibile, mi accolse senza domande…erano gli anni della crisi, delle porte sbatacchiate, dei silenzi che toglievano il respiro…ed in una apnea delirante lo raggiungevo,   mi bastava sentire il suo odore per calmarmi,  quel rumore impercettibile delle sue lunghe braccia, delle sue morbide mani, dava un motivo alla mia fuga, mi perdonava sempre, anche quando avevo torto, torto marcio.

All’ inizio fui timida, varcavo appena il suo ingresso, lacrime rabbia all’ arrivo, per salutarlo sorridendo senza voltarmi.

Ma quanti anni con passati? Quaranta? Forse si…sicuramente si…

E da vecchi, ma non troppo  ci siam trovati amanti senza saperlo, ed allora ti ho esplorato, centimetro per centimetro, tu tanto più grande di me, non ho mai voluto sapere la tua storia, né chi avevi frequentato prima, tu hai fatto lo stesso con me, in un silenzio festoso ed accogliente…mi piaceva stare con te anche quando pioveva…ci bagnavamo insieme. Mai preso un raffreddore …noi.

Se non ero sola, ti ignoravo, tu capivi,  hai sempre, capito e non sei mai stato geloso, dell’altro mio compagno, quello era un fratello, siamo cresciuti insieme, niente a che vedere con te, lui era più faticoso, roba da giovani.

Poi qualcuno, qualcosa ci ha fatto lasciare, il nostro rapporto si era logorato, ammalato, hai chiuso il cancello una mattina all’alba, le mie chiavi, mi son  state ritirate da uomini senza volto, vestiti di bianco…gente muta e sconosciuta.

Son venuta  a spiarti  da lontano, non vedevo più i tuoi occhi, misteriosi  esseri ti ballonzolavano intorno, lunghe code rossicce, ti scalavano il petto, uccelli giganti ti mangiano il sorriso……questo per giorni, mesi, evitando di uscire, per la paura di incorrere nello stesso errore: dirti che ti amo, una volta per tutte..senza pudore…senza filtri…

 4 MAGGIO 2020 …

Le voci corrono, si rincorrono, mi chiama la Simo: oh lo stan facendo bello bello….

Io penso che bello lo sei stato sempre, ma non ho coraggio di tornare da te…

“Oh son scappati gli scoiattoli” dice l’Olga …

 Mi faccio coraggio, devo farlo, ho bisogno di te, come sempre saranno minuti, minuti nostri…mi sembra di sentire i tuoi immensi occhi verdi su di me, mentre tolgo i tacchi ed indosso qualcosa di fresco spiegazzato e pulito, non voglio fingere di essere un’altra…né ora né mai, mai più.

Il cancello è aperto, la catena è per terra, il cuore batte all’ impazzata, chissà se mi trovi cambiata…comunque ti prego, non me lo dire, un buon amante sa fingere…vero?

Villa Favard ha riaperto il suo parco, sono le due del pomeriggio ed io lo attraverso, il saluto è timido, siamo imbarazzati, ma cosa sono due, tre mesi a confronto di un rapporto come il nostro..

Tengo gli occhi bassi, mi  rassicura l’erba ben tagliata, la fontana che  perde, come sempre, la cappella isolata e severa, il conservatorio pieno di musica che non c’è, i giochi transennati alla buona…

Il tuo profumo di bosco in città, a pochi metri da casa mi invade, mi dà forza, se ce l’hai fatta tu ce la posso fare anch’io…penso commossa.

Colgo un fiorellino, che infilo tra i capelli, che non han voglia di orpelli e lo rifiutano, guardo i tuoi alberi rassicuranti, alzo gli occhi al cielo le punte dei tuoi alberi sfiorano un cappello di paglia leggera  azzurrissimo, privo di nuvole.

Ti amo e non me ne vergogno, ci siamo rivisti, riconosciuti, annusati, quasi baciati…..per altro avremo tempo, spero di avere tempo…ma torno, parco di Villa Favard ..torno…torno….lo giuro….

*********

Il Parco di Villa Favard, chiuso nel tempo della pandemia e riaperto il 4 maggio 2020 per ordinanza del Comune di Firenze.

https://ambiente.comune.fi.it/pagina/parchi/villa-favard

“Il parco circonda la storica villa attualmente sede del conservatorio Luigi Cherubini e offre la possibilità di piacevoli soste all’ombra dei maestosi alberi presenti. Questi, di specie diverse, sono non solo conseguenza delle più recenti piantumazioni ma anche memoria del collezionismo botanico tipico della seconda metà dell’Ottocento, matrice riscontrabile anche nel Parco del Museo Stibbert.
Tra questi alberi, uno spicca per importanza: il maestoso Cedro del Libano (Cedrus libani), albero monumentale inserito tra i monumenti di alto pregio naturalistico e storico dalla LRT 60/1998, che si contraddistingue per la sua altezza di circa 24 m e una circonferenza di circa 5,80 m.

Posto su un terreno sostanzialmente pianeggiante, il parco è impostato sullo schema del “giardino extraurbano” tipico delle ville fiorentine, con successivo adeguamento secondo la tipologia del parco all’inglese. Il segno evidente della stratificazione compositiva si ritrova nei percorsi principali: i due viali rettilinei tra loro perpendicolari e incentrati sulla villa sono figli dello schema originario, mentre il terzo viale ad andamento curvilineo è figlio della matrice romantica.
Lungo questi percorsi sono stati inseriti panchine tavolipercorso vitafontanello, area cani e area giochi, quest’ultima posta in prossimità della cappella gentilizia progettata dall’architetto Giuseppe Poggi.

Nel Medioevo, l’attuale parco era la corte recintata di pertinenza di una fattoria fortificata di proprietà della famiglia Cerchi.”

Occhi di lago

Sole di fine estate – di Anna Meli

            Occhi di giovane donna, azzurri come un lago alpino, calmi in attesa di una vita piena e serena. Comunicavano amore, gioia, progetti, sogni, speranze. Ti carezzavano dolcemente, nascosti fra lunghe ciglia brune, per dirti la loro felicita, la loro voglia di vivere.

            Poi, un giorno….un destino infame ti chiuse gli occhi. Uno schianto nel silenzio sul finir di una sera dorata. Negli occhi di lago, ormai spenti, rimase presente l’amore, la gioia, i sogni, un saluto…e tutto finì nel tramonto di un sole di fine estate.

Gli occhi miei

Lampi – di Luca Di Volo

Occhi, occhi, occhi,

mille ti trapassano,

sopra lembi di stoffa

timidi, smarriti,

belli, provocanti,

tutti lucidi, lampeggiano,

un solo codice

un messaggio che ferisce:

sorpresa, si scopre

che a poco valgono

i sorrisi, i bei volti,

affascinanti, se gli occhi, loro

loro non si accordano

all’aspetto che forse

può ingannare, ma loro,

loro non mentono mai.

Occhi azzurri, occhi neri,

occhi gialli, occhi marrone

e tante anime si affollano

per amare, pregare,

di dolore parlano

e di gioia e di malizia astuta

ma tutti mi feriscono

umano tra gli umani,

ma i miei, gli occhi miei

forse non li conosco.