Vivere e sopravvivere

Cinque calle bianche – di Laura Galgani

Vivere, sopravvivere. Poi vivere di nuovo.

Scegliere di prendersi una pausa, rinunciare a vivere perché si ha bisogno di sopravvivere.

Tutto è possibile, la scelta è soggettiva, interiore, profonda.     

Ho dovuto chiedermi cos’è per me vivere. E se ammetto di sopravvivere, a volte.

Vivere è con amore, sopravvivere è in apnea.

Sopravvivo quando sospendo le emozioni e le congelo.

Quando sono così stanca che nel fare le cose non ci sono, mi muovo in maniera automatica ed eseguo dei compiti senza lasciare le impronte.

Quando succede mi viene da piangere, perché sono così lontana da me che ho paura di crollare e sparire.

Sopravvivo quando mi faccio il caffè la mattina e non mi fermo a respirare il profumo della polvere prima di richiudere il barattolo.

Sopravvivo quando esco sul mio piccolo terrazzo ad annaffiare i fiori e non mi chino ad annusare una rosa o a cercare un germoglio del gelsomino.

Sopravvivo quando pedalo per andare al lavoro e mi dimentico di alzare la testa per guardare il cielo e chiedermi se le rondini sono già arrivate.

Sopravvivo quando in ufficio l’ennesima persona della giornata mi fa una domanda alla quale ho già risposto mille volte e non ascolto il suono della sua voce né quello della mia mentre dico quel che è giusto che dica.

Sopravvivo se cucino qualcosa e non mangio con gli occhi e con il naso prima che con la bocca.

Sopravvivere, vivere sopra. Vivere sopra ciò che è senza esserci dentro.

Ho davanti a me la foto di cinque calle bianche. E’ solo un’immagine ma posso entrarci dentro e vedere che quella di sinistra si protende verso la luce, che rende il candore del bianco quasi abbagliante. Posso indovinare la profondità del suo calice e sentire sotto i polpastrelli la morbidezza della sua carne vellutata. Sfioro lo spàdice – la colonnetta centrale che sembra un piccolo obelisco – e sento fra le dita la polverina gialla che vi rimane attaccata. E’ granulosa, spessa, morbida. Non profuma. Accarezzo il bordo del calice; è sottile, si ripiega su sé stesso con eleganza per formare, verso il basso, un delicatissimo intreccio con l’estremità opposta del calice stesso. Lo stelo verde, rigido, dritto, sostiene quella coppa bianca con sicurezza e determinazione.

Abbraccio con lo sguardo i cinque fiori e li ringrazio. Li porto con me, li lascio scendere e in silenzio li respiro. Me ne nutro, li faccio cibo. Ora sono miei, fanno parte di me. Li ho vissuti.