L’arte speciale di sopravvivere

Il telaio – di Rossella Gallori

(a mia madre)

Ynes Servi Cassuto

 …Era venuta via un po’ di corsa, da quella casa al secondo piano in via De’ Pecori, a pochi passi dal Duomo…diciotto anni erano pochi, ma lei donna lo era da sempre, un novembre ancora tiepido, la valigia di pelle piena di vestiti giusti, un paio di piccoli cappelli, i guanti di pizzo color champagne,  trasparenti quel tanto da far vedere la fede lucida, nuova e “vera”…

Risalì le scale in fretta, aveva dimenticato qualcosa: il regalo della nonna…sinceramente non aveva  provato nemmeno ad indovinare cosa contenesse l’ingombrante fagotto, ben incartato…quando poi lo vide, non ne capì nemmeno l’ utilità, rimase però affascinata dal suo odore, il legno d’olivo ti entra nel cuore ancor prima che nelle narici…quella piccola stella sul lato destro, incisa alla perfezione separava  le sue iniziali, una G ed una C (Giulia Cassuto) così perfette in un corsivo inglese così nitido, da sembrar dipinto…

Ti servirà, ti servirà, aveva sentenziato la nonna.

Giulia aveva sentito un brivido leggero lungo la schiena quando, salutando aveva messo il piccolo telaio a tracolla…come una borsa di legno o una piccola arpa..

“Ma cosa ne faccio”  pensò Giulia, stringendo tra le mani curate e delicate da pianista mancata, il marchingegno sconosciuto ….

Fuori intanto il tempo cominciò a cambiare, un vento subdolo soffiava da più parti…e alla fine strinse la mano del suo amore, abbandonò la ricca valigia, abbracciò il telaio d’olivo…e  corse  come meglio poteva su zeppe di camoscio bluette…tra sé pensò che sarebbe stata l’ ultima volta che le avrebbe indossate…da lì a poco se ne sarebbe andata tanta gente…potevano andarsene i suoi sandali…

Cominciò  a pensare  al suo telaio come ad un’ancora di salvezza..una bibbia metaforica.

Iniziò presto la sua attivitá di tessitrice, camicini ruvidosi ed azzurrini, il primo sghimbescio e prezioso, gli altri più perfetti nella forma, meno nel tessuto, la trama e l’ ordito si scontravano spesso agli incroci, fili riciclati, un po’ come la sua vita inventata giorno per giorno, filamenti rubati a scialli eleganti che sotto le bombe non avevan più ragione di vivere, se non in qualcosa di più utile…

Non sempre Giulia usava  il telaio per tessere, lo usava per difendersi, come un’armatura, per raccogliere un’idea…due patate per tre bocche…se trovo un uovo…….e per magia nasceva un lembo di tessuto da mangiare…e più che un incantesimo divenne un miracolo…fatto di gnocchi e lacrime, di pensare, pensare,e ripensare ancora, come tessere, tessere…..

Diventò bravissima  Giulia…fiera di esser viva fuori e sopravvissuta dentro….

Gli anni passarono, aveva disfatto i camicini azzurri, tre gomitoli appoggiati sul suo eroe d’olivo, non si trovò in difficoltà nemmeno quando dopo anni ritirò fuori il telaio per fare un vestitino rosa…

Abile tessitrice, ma distratta “tintora” confezionò qualcosa di uno strano colore che col pesco aveva poco a che fare…se ne pentì per sempre..

Ma andò avanti con quel telaio sempre a portata di mano e di cervello, sorriso sempre, rossetto pure, a volte strappava il filo con rabbia, macchie color sangue su cenci rimediati e utili, utili sempre…anche se spesso si dimostravano fragili. Sapeva rammendare, però,  “La Giulia” lo faceva così bene, che non si sentì mai da meno, anzi spesso qualcosa di più, e credetemi fu sempre la sua salvezza…

Perché vivere e sopravvivere sono la “ trama”  di un libro da scrivere anche se nessuno avrà voglia di leggerlo, di un tessuto da “armare” perchè regga alle intemperie, di un film da vedere anche in un cinemino di periferia…di un incubo, che solo mani esperte riescono a trasformare in bellissimo film d’ amore: LA VITA..

Giulia Cassuto

Pausa opaca

Sogno di maggio – di Cecilia Trinci

Lei correva su un prato verde, quei prati incredibili di maggio quando la luce sembra irrealtà e sbatte violenta contro le cose abbracciandole, possedendole. Lei correva e non sembrava avesse un’età definita e definibile: i capelli stavano  indietro, guardavano dietro le spalle e seguivano i movimenti del corpo teso nella velocità; osservavano le colline, dietro, e i fiori che esplodevano, dietro, e la strada percorsa con sopra le orme di quella corsa irrazionale. Dietro. Davanti c’era il pianoro con l’enorme ciliegio fiorito, e la staccionata di legni intrecciati, per trattenere un cavallo castano, giovane, con i capelli biondi, che si muoveva sinuoso, come una fronda di fiori nel vento. Il cavallo tratteneva a stento le quattro zampe nervose, trottava solo, qua e là, spostandosi appena. Aspettava. Non so se aspettava un segnale o un odore nascosto, o un refolo di vento che gli desse il via verso le praterie al di là del bosco.

Lei intanto non smetteva di correre. Voleva raggiungere il cavallo leggero sull’erba. Ma improvvisamente mentre alzava la testa, non ci fu più niente e nessuno lungo la staccionata di legni intrecciati. Il bosco aveva inghiottito il cavallo con i suoi capelli biondi e le caviglie nervose. Rallentò, lei, mentre cercava con gli occhi lontano. Cercava il cavallo, ma anche i fiori del ciliegio pieni di insetti. Anche il ciliegio era sparito, dentro un’improvvisa nuvola di nebbia che, bianca, opaca, inghiottì improvvisa l’intero pianoro. Si voltò, allora, cercando il sentiero di andata e la casa in fondo, là dietro il gazebo, da dove era partita. Ma dietro, la nuvola bianca aveva mangiato il punto di partenza, silenziosamente, senza avvisare. Si trovò immersa anche lei in quella nebbia bagnata che inumidiva il vestito leggero e le ossa stanche subito sotto. Ebbe solo il tempo di rabbrividire. Le lacrime sbattevano secche sotto le palpebre stupefatte e rimasero ferme, in attesa. Tutto era bianco e silenzioso, ma non come la neve che spesso cadeva lì, piuttosto come una mano di calce polverosa, quella che si stende per cancellare, pulendo il passato dalle macchie di vita.

Pensò, lei, brevemente,  a chi era scomparso nella nuvola di calce. Pensò se fosse possibile respirare, lì sotto, se anche lei avrebbe continuato o no a respirare, se tutto stava per finire, se fosse morta senza essersene accorta e fosse già in una specie di Purgatorio senza nome. Si mosse, lei, lentamente, cercando una via nel bianco opaco, verso casa, verso il dietro, verso il giorno prima. Trovò un viottolo stretto, in salita e si inerpicò. Non sapeva se l’affanno era per la salita che piano piano cresceva o per l’ansia che piano piano anche lei cresceva. Salì lentamente e il bianco compatto si fece piano piano più lieve, più diradato, come quando la nebbia saliva dalla valle e piano piano si scioglieva in gocce umide. Piano piano, allora, accadde di nuovo e si ritrovò sulla cima di un poggio…..il sole sorgeva da dietro una piccola piega di terra sconosciuta. Non era mai stata lì e si sentì sola. Un rumore leggero dietro le fronde di un ciliegio sfiorito la fece sussultare. E vide, dietro l’albero che cominciava a metter piccole foglie verdi, un cavallo giovane con i capelli biondi che scalpitava, che voleva saltare la staccionata di legni intrecciati forse per raggiungerla……..e che da lontano la riconobbe.