
Dare forma al vuoto – di Gabriella Crisafulli
Amava camminare da sola nelle stradine isolate, alla ricerca di quelle emozioni che all’improvviso donano il caso e la natura.
Un po’ ingobbita, con la pelle plissettata dall’età, il colorito spento dalle troppe medicine e quel corpo che reggeva a fatica un’andatura regolare, si muoveva con la gioia di godere nuovamente del suo passo.
Non era contenta, no, non lo era, ma si sentiva felice: era entrata nel quarto tempo. Doveva coglierlo come un dato di fatto.
È vero, non faceva una corsa da tanto e la bicicletta era un miraggio forse impossibile, ma fermarsi sarebbe stato come cancellare tutto quanto.
Camminare l’accompagnava verso uno stadio di meditazione sempre più profondo in cui la mente si alleggeriva dei ricordi.
Nel terzo tempo aveva raggiunto la nota più alta del pentagramma: era stato allora che il colpo improvviso l’aveva precipitata a terra.
Cadendo si era trascinato dietro il castello di carte costruito negli anni, vivendo sopra le righe.
Era arrivata lassù grazie a lui: l’aveva presa cenerentola e ne aveva fatto una regina.
Adesso però si trovava a terra, nel fango e non sentiva suonare i campanelli alle briglie dei cavalli che venivano a portarla via. Non c’era nessuna fata cicciottella e bonaria che trasformava la melma in oro zecchino. Non c’erano i topini solerti e chiacchierini che si davano da fare per aiutarla. Era sola: tentava di rialzarsi ma scivolava. Non sapeva come mettere in equilibrio tutti i pezzi sparsi dentro e fuori di lei.
Le passava davanti agli occhi il film di quella villa del 500 al cui interno due ordini di arcate incorniciavano il salone centrale. A testa in su, aveva ammirato quella corte, girando a tutto tondo. Le prese l’antica vertigine da cui era stata avvolta e trasportata nel mondo dell’inimmaginabile dove tanti sogni diventavano realtà.
… ma era passata dalla fortezza alla reggia. C’era qualche problema, è vero, nel prima e nel dopo: la vita sociale aveva delle regole e dei cerimoniali di cui non si curavano. Credevano di bastare a sé stessi.
Così la realtà aveva presentato un conto pesante: non serviva più dire “Abra- cadabra”.
Nella melma era e nella melma rimaneva.
Il vento d’autunno che si faceva sentire nella stradina stretta e solitaria, con una folata più forte delle altre si portò via quei pensieri sgorgati dal fardello e si sentì più leggera.
Adesso era arrivato il momento di trovare un’idea che l’aiutasse a coniugare i passaggi della sua storia con quella che era adesso. Le ci voleva uno di quei colpi di genio che le avevano risolto tante situazioni di vita pratica e che adesso doveva servire a dare forma al vuoto.
Sentiva aleggiare intorno la figura di quel ragazzo bello, dalle mele sode, che odorava di sottobosco.
Ma era il momento di tornare nella casa abbandonata a intrecciare scuro e chiaro, lana e seta, morbido e ruvido, … per lasciar andar via in pace il suo amore.
Delicatamente deliziosa.
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Quando le fiabe sanno di realtà, una realtà conosciuta, non banale, che sa d’amore, di delusione….di vita…che va avanti inesorabile…non si può che dire: brava…brava.
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Grazie Roberta
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Grazie Rossella
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