L’Omino carbon fossile

L’omino risecchito – di Stefania Bonanni

In quella casa abitavano l’omino e la moglie annuvolata. Sordo lui, sorda lei, avevano smesso di parlare,  tanto era inutile. Rumori però se ne sentivano tanti, grandi sbatacchiamenti di porte e finestre, rotolanti che anziché rotolare franavano sulle serrande, quando venivano chiusi. Smozzichi di bestemmie  biascicate, quando lei spingeva l’omino sulla sedia, in giardino, dove lui rimaneva a giornate intere, con la faccia raggomitolata intorno alle fessure che un tempo erano occhi. Stava lì,  dall’autunno in poi con una copertina sulle gambe, per il resto dell’anno sembrava non sentire ne’ il sole feroce, ne’ quelle pioggerelline  uggiose che a volte duravano giorni, si spostava solo un po’ più sotto la tettoia.

Stava all’angolo della casa, così non gli sfuggiva né  chi passava dalla strada in salita, ne’ chi arrivava da dietro. E a tutti, proprio a tutti, riservava un grugnito, un biascichìo che, anche a non sapere cosa significasse, faceva capire benissimo il senso cattivo e di malaugurio.

I bambini avevavo paura. Tutti giravano la testa dall’altra parte, nella speranza di evitare di incontrare quegli occhi di tartaruga.

Quanti anni avrà avuto? I bambini di sotto dicevano più di cento. Un highlander, a un certo punto era  diventato un sasso, un pezzo di carbon fossile, un immortale. Giravano leggende: che avesse fatto la marcia su Roma era sicuro, ma a farsi prendere un po’ la mano si poteva anche credere avesse fatto le guerre “di’ Risorgimento”.

Occhi grandi

Occhi grandi – di M.Laura Tripodi

Aveva occhi grandi e nerissimi. Il signore del piano di sopra diceva che erano così scuri perché non se li era mai lavati. E lei scoppiava a piangere umiliata.

Seduta davanti alla finestra del salotto si osservava le mani un po’ raggrinzite e percorse da vene violacee.

Adesso i suoi occhi erano piccoli e avevano perso tutta la loro luminosità.

Rifletté che da  giovane erano stati forse la sua unica attrattiva. Peccato non essersene accorta.

Occhi neri, occhi belli che avevano guardato tanto, ma cosa avevano realmente visto?

Si ricordò di sua madre seduta proprio dove era lei in quel momento. Rammendava o cuciva o ricamava e lei si alzava sulla punta dei piedi per guardare fuori, attratta dal  rumore  di qualcosa che strusciava contro l’asfalto. Bimbi si lanciavano urla di sfida rannicchiati su una specie di tavola montata su quattro ruotine. Volava anche qualche parolaccia mentre ognuno di loro cercava di arrivare per primo in fondo alla strada.

I suoi occhi però raggiungevano a mala pena il davanzale e la scena si esauriva in un cerchio ristretto, senza conclusione.

Invece sentiva l’arrivo delle signorine che andavano a prendere il filobus. Sì, le sentiva proprio nel senso che oltre al rumore dei loro tacchi alti le giungeva anche l’aroma del loro profumo.

Era passato tanto tempo. La casa era molto diversa e allo stesso tempo uguale.

Pensò a tutte quelle stagioni trascorse, alle persone che erano salite e scese dal suo treno.

Si sorprese  a preoccuparsi che quegli spazi e quelle cose  dovevano essere sistemati con ordine, per quelli che sarebbero venuti dopo.

Un’ambulanza si annunciò con il suo ululato e lei pensò alla sirena della FIVRE che suonava alle tredici in punto e somigliava stranamente all’urlo sguaiato della signora del piano di sopra che dal balcone richiamava il figlio.

Massimooooooo! Vieni a mangiareeeeeee!

Un giorno dopo l’altro

Un giorno dopo l’altro – di Carla Faggi

Chiamiamolo così: “Pippo”…..e la storia cominciò.

Il Pippolotto peloso si alza dal divano con la solita espressione stanca e annuvolata, si avvia ed esplora. Annusa l’aria, un profumo di polpette gli indica la via, scodinzola veloce e sembra dire: “arrivo!”

E infatti arriva!

C’è Sanà la vicina che sta cucinando le falafel, polpette di ceci, ma qualche decina di quelle prelibatezze sono di carne, e Pippoletto sa che sono per lui.

Con Sanà infatti c’è intesa, lei lo guarda, sorride, difficile indovinare chi fra i due scodinzola di più! Insieme sembrano formare un tappeto di fibre incrociate, seta e lana. Pippetto è la lana.

Poi, dopo gli abbracci, le coccole e la giusta impolpettata, i due, dopo essersi guardati negli occhi come a cercare l’intesa della partenza, scattano in avanti e si tuffano in una corsa liberatoria. Via di corsa verso i prati, gli alberi, i cespugli. Via verso la gioia di una amicizia profonda, verso la spensieratezza e la vita.

Poi la giornata finisce. Pippetto rientra, si sprofonda sul divano. E poi…domani vedremo.

L’ indomani arriva e Pippolo con il suo solito fare annuvolato si alza stancamente dal divano. Annusa l’aria e…latte, biscotti…si! si può fare.

Eccomiiii! La vecchia signora lo accoglie festosa, sembra lo stia aspettando.

Slurp, slurp, tra una leccata al latte (si sente tanto gatto in quel momento) ed una alle mani della signora si prepara alla giornata. I due con tacita intesa si avviano a passeggio. Pippolino per stare al passo usa sempre la scusa di una annusatina ad una aiuola o una demarcazione del territorio.

Reprime la sua curiosità e l’istinto all’esplorazione pur di non staccarsi mai dal fianco della sua signora. Ogni tanto una sosta ad una panchina perchè gli acciacchi (non suoi naturalmente) sono tanti. Ma poi si riparte. Lui lo sa, la vita è fatta così, ogni tanto ci si riposa e poi si riparte.

La vita è una trama di tappeto, e lui oggi si sente più seta che lana.

Anche oggi la giornata finisce, Pippetto si risprofonda sul divano, e poi… domani vedremo a chi toccherà…..

Non mi vedo con niente!

Le brutte figure – di Sandra Conticini

Aveva sempre quella paura: fare brutta figura e non essere all’altezza.

Non era diversa dagli altri. Io glielo ripetevo continuamente, ma non capiva. Ogni volta che invitava qualcuno a casa,  puliva e lucidava sul pulito. Le cose sparivano e non si ritrovavano per giorni, sempre con l’idea di far trovare la casa in ordine. Per non parlare poi  di pranzi o cene. Non sapeva mai cosa preparare e la frase storica era: – Questo sugo è venuto proprio male!

Naturalmente non era vero.

Stessa cosa se doveva andare a trovare amici o dal medico. Pensava di non avere vestiti adeguati,  di dover andare dal parrucchiere, insomma spesso penso passasse da asociale, cosa assolutamente non vera.

Anche quando invecchiando era diventata curva, e sempre di più, perchè la colonna vertebrale aveva ceduto al peso degli anni, il suo pensiero era sempre quello, e diceva: -Ma non posso andare, non mi vedo con niente, non mi sta bene niente e poi ormai, anche i capelli sono tutti bianchi e non ce la faccio ad andare dal parrucchiere, non ho fiato.

Io le dicevo che non si doveva preoccupare, andava bene così. Lei rispondeva sempre nello stesso modo:  – Sapessi quanto è brutto invecchiare!!!

Lasciare le cose a posto

La signora – di Nadia Peruzzi

Tutti la chiamavano “la signora” per quel suo atteggiamento altero e distaccato.

Si aggirava in quella casa spoglia di orpelli, essenziale ma viva.

Era una donna anziana quella che la abitava, eppure la casa trasudava energia e vigore da ragazza, non certo una patina polverosa da storia che si avvicinava alla fine.

Il computer di ultima generazione campeggiava sulla scrivania vicina alla finestra.

I raggi del sole che stava per tramontare colpivano sbiechi una pagina fitta di parole.

Lei attenta rileggeva e si commuoveva per ciò che le era venuto in mente di scrivere.

Era un segreto che si era portata con sé in quel lungo viaggio.

Leggeva con pena, tristezza e forse anche un po’ di vergogna per non aver saputo affrontare le cose nel modo giusto.

Era passato troppo tempo per poter rimediare. Le persone che aveva ferito non c’erano più.

Nel cercare di rimettere in fila e dare un senso ai pensieri e alla sua versione della storia, era doveroso che almeno fosse la verità ad essere centrale nel suo racconto.

Sapeva di non avere molto tempo davanti a sé.

Sapeva che avrebbe dovuto provare a rimettere finalmente le cose a posto.

La colpa è di tua madre

Atterrare sul tappeto – di Rossella Gallori

Ci sono giorni in cui dai la colpa a tua madre, di quasi tutto. Ci sono giorni che per fortuna…passano.

Gocce, sempre solo gocce, quelle della placenta di sua madre, erano fiele, ma non l’ avevano avvelenata… nata ugualmente, così, di notte, un po’ di corsa e per poco non era atterrata su quel tappeto dalla frangia sfilacciata, grasso e morbido, privo di una rete antiscivolo…e pensare che negli anni sarebbe servita, non poco.

Ci sono giorni, in cui credi di ricordare il momento in cui sei nata, avverti anche il profumo delle peonie che entrava dalla finestra, l’odore del pane tostato lasciato sul tavolo e le voci  si le voci vecchie ed arrugginite: proprio ora?

….Uno sparo, uno  scatto  e “ploc”  atterri in un mondo, in una casa che sta in piedi solo perché lo vuole, anche se ha le ossa rotte e scricchiolanti e le pillole occupano tutti i comodini delle camere come centrini di macramè; una casa vecchia ed un po’ puttana aperta a tutti…e la sera si cantava e si contava, perché la strada era quella, ed una volta percorsa, si va avanti anche con il semaforo rosso.

Si ricordava, che era nata, il giorno in cui nessuno si era fermato, nemmeno allo stop…nessuno sapeva, lei, lei si…

Compagni

La pipa del compagno – di Roberta Morandi

Erano amici. O forse solo compagni, ma non solo perché si ritrovavano a giocare a tre sette al Circolo dell’Antella. La scusa erano le carte per sparlare del governo e di politica o forse più il contrario?

Fatto sta che da quando lui fiorentino di nascita e figlio di una “intelighenzia” altolocata era arrivato all’Antella in quella colonica dietro il cimitero e si era saputo, come si sanno le cose nei paesi, che era comunista, fu subito ammesso fra i compagni di carte.

La nebbia spessa e acre del fumo di sigaretta e della sua pipa si tagliava col coltello, tanto era spessa in quella stanza da gioco: al tavolo vicino alla finestra rigorosamente chiusa sedevano tutti e tre a giocare e in attesa del quarto: una donna, l’unica ammessa al tavolo, l’unica che poteva competere con le carte col gruppetto, e l’unica che riusciva a tenere testa alle parole irriverenti e spesso vere dell’archeologo contadino come lui amava definirsi.

Le sue mani anchilosate, per l’età ancora giovane, la sua pelle rosolata dal sole di molte estati e primavere, dal vento e dalla terra, tenevano ben salde quelle carte, mentre le sue labbra serravano ben strette la sua memorabile pipa e fra una bestemmia e un’imprecazione al governo in carica, riusciva a declinare tutti i santi in un grandioso rosario dei tempi moderni.

Per lui fermarsi, anche con le parole, significava cancellare tutto quanto, e questo poteva riferirsi alla politica dell’attuale Partito Comunista, alle carte che stava giocando in quel momento, come al suo lavoro.

E fu per quello, il suo lavoro, che non aveva lasciato le cose per bene, quando per un sasso sdruccioloso e le scarpe poco adatte scivolò nel burrone con la sua pipa poco lontano e l’ultima bestemmia morta sulle labbra.

The e biscottini

Terzo tempo – di Tina Conti

Dopo giorni di pioggia, finalmente il sole da dietro i cespugli illuminava l’orto.
Era rimasta in casa con i suoi animali uggiosi e annoiati per tutto il tempo.
Non si era fermata un attimo però, accesa la stufa per allentare l’umido che penetrava nelle  ossa, aveva preso il cassetto delle foto per riordinarlo.
Di tempo ne era occorso tanto, si fermava sulle foto ascoltando le emozioni e dando il via ai ricordi, a volte non riconosceva  i personaggi e avvicinava le foto agli occhiali per esaminare con più attenzione.
Rivedeva le scuole dei vari paesi dove era stata, le colleghe, alcune amate altre nemmeno considerate era per questo che stentava a riconoscerle.
Anche con le nuove tecnologie aveva voluto confrontarsi e ne era fiera, ora aveva questa finestra sul mondo che le faceva tanta compagnia.
Si dispiaceva che quel suo vecchio computer a volte non rispondesse come lei voleva.
Suo figlio invece ne era contento perché così la poteva pensare appisolata  davanti alla stufa e finalmente a riposo.
Tutta la vita era stata attiva, per anni aveva recitato in teatro, posato come modella  negli studi di scultura e poi per quello che sarebbe diventato suo marito.
Da quando si era trasferita in campagna aveva iniziato a fare l’insegnante.
Poi quello schiaffo, lo ricordava ancora con tanta emozione  sente  sempre un pizzico nelle mani e nel cuore.
Era stato necessario, Ada aveva avuto una crisi isterica dopo che l’insegnante di lettere l’aveva umiliata davanti a tutti, nello sgabuzzino, non riusciva a farla smettere di agitarsi, lo schiaffo fu  il rimedio per farla rientrare in classe  e non rendersi ridicola davanti a quella stupida  donna.
Erano diventate amiche, confidenti il tempo era passato ma l’attesa della sua alunna del cuore  la entusiasmava ancora.
Fra poco sarebbe venuta, che casa in disordine! tutti quei libri ammucchiati, ciotole per il cane e il gatto, le foto sparpagliate sul tavolo.
Non si scoraggiò, con mani tremanti, arrancando sulle sue gambe incerte, sposto’ il tavolino rotondo  vicino alla finestra, mise la tovaglia fiorita con lo sfilato e sopra il centrino di pizzo.
Sistemò le tazze da the di porcellana francese e accomodò nel piattino i biscotti al burro, infilando le forbici nel grembiule da lavoro andò in fondo al giardino  dove scelse le dalie più belle e le zinnie luccicanti di pioggia che finirono in un piccolo vaso.
Si sentiva stanca ma felice, andò in bagno, si passò una spolverata di cipria sul viso, si mise il suo rossetto color prugna.
Le mani che erano sempre il suo problema, furono spazzolate  e ripulite dai residui di terra e piante, guardò il cesto della legna bello pieno che Giuseppe aveva  posato sul tappeto vicino alla stufa.
Le scarpe da tempo non le portava volentieri  ma indossò un bel paio di zoccoli foderati di lana dono di suo figlio.
Ultimo vezzo lo scialle di lana di cammello con i ricami di seta, poi, una spruzzata di profumo di violetta. E attese.