
La coperta andina – di Laura Galgani
A quella coperta ocra e rosa era molto affezionata; l’aveva comprata per pochi denari in un villaggio andino dove tutto era a colori: i cappelli degli abitanti – piccoli di statura in confronto a lei, così alta e slanciata – le loro sacche portate su una spalla sola, i camicioni lunghi fino alle ginocchia. In quell’autunno buio e ventoso le piaceva rinvoltarsi in quei colori che la riportavano là, a giorni felici, fatti di nebbie aggrappate alle colline, sorrisi, spezie e grida di bimbi.
Il fuoco del camino le faceva compagnia mentre preparava le polpette piccanti, come gliele aveva insegnate Rosalia, in quel villaggio andino. Usava sempre molta cipolla e naturalmente piangeva mentre l’affettava, sottile sottile. Le piaceva guardare quelle belle fette violacee, rosa, bianche, farsi a tratti trasparenti ma poi, inesorabilmente, bruciare ai bordi immerse nell’olio di arachide che sfrigolava tutto intorno. L’odore che emanava dalla padella di rame, che rifletteva i bagliori del camino, la riportava sempre là, fra le casupole di legno affacciate sulle strade polverose del villaggio andino. Per questo le preparava sempre, quando sapeva di dover ricevere quell’amico speciale.
Quando era sola, invece, non le preparava mai. Rosalia glielo aveva detto con tono perentorio, che non lasciava scelta: se le cucini solo per te, la magia svanisce, e la solitudine diventa sempre più grande e insopportabile. E così dicendo le indicava Josè, seduto su uno sgabello in fondo alla via, proprio all’angolo della chiesa, ocra come la terra là intorno, che ogni giorno pareva rinsecchirsi sempre di più. Era condannato alla solitudine per aver cucinato le magiche polpette solo per sé. Da allora, ogni volta che qualcuno lo interpellava, si faceva più piccolo, curvo, rinsecchito, punito per aver cercato soddisfazione solo per sé, invece di farsi dono per il mondo. L’ultimo giorno lo aveva salutato pensando che Josè sarebbe presto scomparso. Da quando era tornata pensava spesso a ciò che l’aveva spinta a partire: quel giardino deserto, vuoto, intorno alla grande casa, nel quale aveva giocato tanto da piccola e i cui alberi erano cresciuti con lei, ora affondato nel silenzio, non lo poteva sopportare. Nemmeno il cane c’era più, la sua cuccia era rimasta vuota, e lui scappato chissà dove. Il capanno degli attrezzi chiuso a chiave, il tetto mezzo divelto. La finestra del primo piano era aperta, si intravedevano i vestiti buttati qua e là, i libri per terra e il letto, disfatto. Il telefono sulla scrivania suonava, incessantemente, ma nessuno rispondeva. Un’angoscia mordace le salì da dentro, a ripensarci. Dopo il terremoto, che non aveva distrutto la casa, nessuno voleva più vivere lì. Delle crepe profonde la solcavano insidiose, non viste. Nemmeno i suoi genitori volevano più tornarci. Chissà se sua madre, adesso, nella casetta prefabbricata, aveva ancora quell’espressione stanca e annuvolata, che apparentemente la dipingeva come vittima di un marito brontolone ed esigente, o se la scossa violenta, arrivata dalle viscere della terra, aveva cambiato qualcosa anche dentro di lei. Ma non lo poteva sapere: l’orgoglio di figlia ribelle e indomita le impediva di fare un passo verso di loro e andare a trovarli
C’è un profumo che sa di colore….ed un colore profumato…..
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