https://erbaeradici.wordpress.com/2016/12/10/3613/
https://erbaeradici.wordpress.com/2015/08/15/ferragosto-2015-di-cecilia-trinci/
https://erbaeradici.wordpress.com/2013/05/23/collezione-di-ricordi-villa-palmieri-di-laura-casati/

Carla Faggi – L’isola dei limoni
L’isola era come una prigione, bellissima ma sempre una prigione.
Armandino, un giovane di undici anni, così pensava, mentre, seduto sul muretto di fianco alle mura del parco della grande villa, guardava assorto i traghetti che portavano nel continente.
Amava quel posto, quel muretto di pietra che giornalmente lo accoglieva, le foglie del limone che si affacciava dal muro. Quel profumo intenso dei frutti maturi. La brezza marina che lo rinfrescava.
Ma principalmente amava guardare i traghetti che partivano ogni giorno verso chissà quali avventure, e quante storie e sogni si portavano con sé.
Armandino amava fantasticare e inventare storie sui passeggeri che ogni giorno salivano sul traghetto.
Come quella signora che trascinava una valigia enorme. Forse quella valigia conteneva un tesoro, monili ed abiti di qualche vecchia contessa dell’isola.
E quella bella signora tutta vestita di nero con quel buffo cappellino a sghimbescio. Forse se ne va e lascerà per sempre nell’isola il ricordo di quell’uomo che non aveva mai corrisposto il suo amore.
Eppure era bellissima, come può un uomo non amarla, pensò. Forse le era solo amico, come io sono amico di Emma. Ma di Emma si può solo essere amici, non la si può amare, è grassa e veste come un maschio, e poi è più brava di me a catturare lucertole. Non si può amare una bambina così. Invece, pensò Armandino quella signora vestita di nero con i tacchi alti alti è meravigliosa. Si sta guardando attorno come a cercare qualcuno. Forse aspetta che il suo amato ci ripensi e la raggiunga e parta con lei. Oppure la preghi di non lasciarlo da solo ora che ha capito di amarla.
Armandino chiude gli occhi e sogna di essere lui l’uomo così fortemente amato, lui sì che l’avrebbe raggiunta e portata con sé. Il suono del traghetto in partenza lo scuote. Verso il mare e verso il continente partono i sogni e le storie.
***

Roberta Morandi – Dalla Sicilia alla Norvegia e … ritorno
Sicilia, primi anni del ‘900, in un agosto assolato, come deve essere, una strada di campagna, o meglio un viottolo delimitato da muretti a secco, interrotti a tratti da alberi di fico a fare poca ombra, una bambina col vestitino a quadri dai colori sgargianti è seduta su un sasso ai margini con un cestino di limoni gialli, profumatissimi, in grembo.
L’afa dell’aria attutisce ogni rumore, solo imperterrito e inquietante il frinire delle cicale…
Quel ricordo me lo sono portato dentro da sempre: la tua terra, la tua isola, i limoni, i profumi, il caldo e te piccina ad aspettare chissà cosa in quella strada polverosa e arida.
Oggi vorrei ancora essere allora e non ora, qui al freddo, anzi al gelo del fiordo.
Siamo stati catapultati fuori dai nostri luoghi, la vita ci ha riservato stranezze come questa, in questo paese così inospitale per noi. Io ricercatore nucleare e tu insegnante di lingue…mi hai voluto seguire…allora…e poi? Poi tutto si è congelato come può succedere solo in questi fiordi lunghi e stretti e ghiacciati…come il nostro amore. Te ne sei andata una mattina che non era ancora giorno, o meglio in quella parte dell’anno che è sempre un po’ giorno e un po’ no.
Sei andata con tutte le speranze, le mie speranze, ora lo so, che erano solo mie, non ho mai fatto molta attenzione ai tuoi perché, ai tuoi silenzi, ai tuoi sorrisi così poco sorrisi.
Ecco, ora sono qui nel ghiaccio anche del mio cuore a ricordare quella bambina solare e calda che ormai ho perduto molti anni fa.
***

Chiara Bonechi – I limoni di Maciarello
Isola d’Elba: la casa di Renza e Carlo è a Maciarello, un piccolo agglomerato di casette che un tempo appartennero a contadini.
Quelle casette, ora in buona parte ristrutturate, sono di chi, venendo da fuori, ha scelto quel luogo per le vacanze.
Là, dietro la casa di Maciarello, c’è un prato con piante grasse, palme e lantane e in fondo, verso il mare, davanti al grande fico troneggia un albero di limoni che offre i suoi frutti gialli succosi e dolci.
Renza regala volentieri limoni adagiati nel cestino comprato sul mare dove ogni giorno, nel luglio assolato, ci incontriamo.
Nell’isola, un tempo non era così.
Chi viveva a Maciarello era lontano da tutto e da tutti, lontano dal mare, lontano dai paesi più abitati dell’isola, lontano dalla gente…i momenti del giorno erano scanditi dalla luce del sole e quelli della notte dai rumori del vento, del mare in lontananza, dei cinghiali e dei mufloni che si avvicinavano alle case.
Questo raccontava a Renza la vicina ormai anziana, le raccontava di quanto avrebbe voluto trascorrere alcuni momenti delle sue giornate in compagnia, in quel luogo dove invece si cerca adesso la bellezza della solitudine.
Racconta ancora dello spavento che provò quando, dal chiuso della sua cucina, udì dei passi, insoliti, inaspettati… Il cuore cominciò a batterle forte, le tempie a pulsare, la paura la rese immobile.
Una presenza… Il pensiero di incontrare qualcuno la imbarazzava: cosa avrebbe potuto dire lei che conosceva solo il mare, il bosco, i campi?
Si affacciò ma non vide nessuno. Si fece coraggio e uscì.
Sotto il capanno la sagoma di un uomo si mosse e tutto fu facile…
Da quel momento non fu più sola.
***

Mirella Calvelli: I limoni e la coperta
Una lingua di sabbia rossastra , onde lente la lambiscono, i rumori sono quasi impercettibli.
E’ da poco spuntato il sole che tinge quello specchio del golfo , striando l’acqua di tonalità che vanno dall’ocra al rosato.
Più avanti in una piazzetta piastrellata di maioliche, un vecchio venditore canuto sta distendendo un telo, ancor più colorato delle mattonelle stesse.
Colori vivaci che vanno dal fucsia al blù elettrico, passando da una sfilatura dorata…Di lì a poco dai sui cestini di vimini prenderà dei limoni succosi, pronti per creare delle ottime spremute.
In fondo possiede solo quelli. Alcune piante di limoni, che con molta cura annaffia, di altro non hanno bisogno in quella terra sempre scaldata dal sole, rinfrescata soltanto la sera da un leggero vento, che si alza giusto per togliere dalle foglie smeraldo i residui dei granelli di sabbia rossastra che arrivano dal mare.
E lui accovacciato su quella bella coperta brillante, aspetta fissando l’infinito……
Dal gruppetto di pescatori vicini al molo, si stacca un giovane uomo ed inizia a percorrere il lungo mare, sembra assorto nei suoi pensieri.
I piedi nudi vengono ripetutamente bagnati dalla spuma del mare. Affonda prima a destra e poi a sinistra a seconda della presione delle gambe. Le braccia abbandonate lungo il corpo, i ricci mori scompigliati dal vento…si piega in avanti, si inchina, osserva e si rialza, nelle mani qualcosa di particolarmente brillante..poi di nuovo si genoflette e si riallunga.
In lontananza un’altra figura gli viene lentamente incontro, più piccola, lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle…ma stesse movenze…in avanti…in basso e in mano sembra lo stesso bottino.
Da quassù, dalla piazzetta di maioliche sembra la danza di due flamenco.
Abbandono la balaustra e mi siedo ad un tavolino di un bar in angolo. Mi verso il caffè dall’aroma prorompente e inebriante che allevia subito la mia gola arsa. Un piacere enorme!!!
La radio continua il chiacchericcio imperterrito e il giovane barman cerca disperatamente un po’ di musica decente.
Impaziente, si sfrega le mani al grembiule consunto…….intanto volgo lo sguardo altrove, lascio i raccoglitori di conchiglie lungo il bagno a sciuga, il venditore di limoni sulla sua coperta scintillante e il giovane amante della musica.
Anellano lo scenario aspre montagne innevate che si stagliano contro l’azzurro del cielo.
E così, fra mare e cielo il cerchio si chiude e un benessere mi pervade………..
***

Tina Conti: I limoni e il rimpianto
Una casetta bianca fatta di sassi che si affaccia sul mare, un orto con alberi di melograno, mandorli, aranci e limoni.
La bambina con il piccolo cestino raccoglie contenta i limoni dall’albero che ha piantato con la nonna.
La mamma, seduta sulla panca di pietra davanti casa si avvolge pensosa nella sciarpa che ha ricevuto in dono dall’amica di Lima. E’ bella e morbida.
Ripensa a quei giorni trascorsi in leggerezza, l’incarico per la ricerca che le ha fatto scoprire abitudini e tradizioni così diverse da quelle europee.
Risente nell’aria i profumi,i colori, le musiche che tanto l’hanno emozionata.
Ricorda l’amore spensierato per quel collega arrivato negli ultimi giorni del suo soggiorno di lavoro.
Si sente invadere da una nostalgia morbida, una tristezza lieve pensando che ormai è tutto finito.
Ritorna alla realtà quando sente nell’aria odore di zucchero bruciato.
Doveva preparare i canditi al limone per la festa del patrono, la bambina rincasata la guarda dubbiosa è abituata a questo sguardo sognante e perso.
Mamma? Stai sognando? Cosa porterò al paese se continui a bruciare tutto?
La mamma si alza con energia,,ha deciso che non è tempo di rimpianti, vuole riprendere la sua vita, dare nuove possibilità alla sua esistenza.
Mette nell’acqua il pentolino bruciato e ricomincia con una nuova preparazione.
Nella tasca del suo lungo abito pesa quella lettera stropicciata che ha riletto infinite volte e che conosce a memoria.
La nostalgia la riprende mentre mescola lo zucchero e le scorze profumate dei limoni.
Ormai terminato il lavoro versa il contenuto del pentolino su carta oleata e poi lo mette ad asciugare sulla mensola sotto la finestra .
I suoi occhi si perdono Di nuovo in quel mare ora calmo ora mosso dal vento per l’arrivo di un inatteso temporale.
Aveva detto che non si sarebbe dimenticato di noi,! gli uomini sono inaffidabili e infingardi, hanno paura degli impegni .
L’acqua martella sui vetri, si infila sotto la portafinestra.
Nella stanza accanto suona il telefono ma non si sente la voce di chi chiama solo un ronzio indistinto con parole in inglese.
Alla porta la vicina bussa con urgenza, chiede ospitalità e riparo fino a quando il marito non tornerà a casa, ha subito un furto e non ha più le chiavi di casa rimaste nella borsetta che lo scippatore le ha sottratto alla stazione dei treni.
Le due donne che condividono spesso momenti di confidenza e svago si siedono in cucina, per riflettere sul da farsi.
Dovrà essere sostituita la serratura e fatta una denuncia.
***

Ivana Acciaioli: I limoni e le scarpe col tacco
Il piccolo paniere dondolava nelle sue mani mentre saliva su per la collina. Non era partita con uno scopo preciso, non era la stagione delle fragole e neppure quella dei funghi quindi non sapeva con cosa avrebbe riempito il cestino; lo aveva portato forse per abitudine, forse per compagnia, ma il vero scopo era arrivare sulla sommità, per godere della vista e del piccolo paese che bianco e silenzioso si stendeva ai piedi della sua solitudine.
Alcune piante di limoni abbandonate con i loro ciondoli biondi e lucidi la invitarono a fermarsi.
Il cestino adesso accoglieva colore e profumo ed era meno malinconico.
Sulla cima trovò, inaspettata, una coperta stesa sul prato, si sedé ed attese.
Chi poteva aveva desiderato sdraiarsi su quella coperta dai colori vivaci proprio lassù? E perché l’aveva abbandonata definitivamente o solo momentaneamente?
Pensò che non poteva portarla via, di sicuro qualcuno la pensava distesa con garbo sull’erba lì al culmine dove certo non si capita per caso.
La curiosità mista a qualche timore la prese. Il profumo intenso dei limoni, la leggerezza del vento ed il mistero la avvolsero. Si addormentò.
Sognava?
A piedi scalzi, con assurde scarpe con il tacco in mano e l’altra a reggere il cappello nero a sghimbescio, stretta nel suo abito nero, la ragazza spuntava dalla salita sbuffando per la fatica. Si lasciò cadere affranta sulla coperta.
Percepì il calore del suo corpo scoprendola reale.
Poi la sua voce: -Perché non è qui! Lo sapevo!
Intanto accarezzava la coperta intrisa del ricordo di baci e amplessi giovanili.
Forse fu l’aroma dei limoni a guidare la sua mano verso il cestino, qualcosa di bianco sbucava da sotto,un biglietto sgualcito, sofferto.
– Mi dispiace ma non scappo con te. Ho paura, è troppo presto, non sono pronto.
In silenzio piegammo la coperta che adesso accoglieva anche le sue lacrime silenziose, spaventate.
Moriva un amore che non era abbastanza grande ma nasceva un’amicizia che sarebbe diventata immensa. L’aiutò a crescere il suo bambino.
***

Gabriella Crisafulli: I limoni e il mercato
Il mercato era affollato. Sulle bancarelle la merce veniva esposta in quantità: montagne di terraglie, cumuli di verdure, cassette di legumi e cereali, mazzi di fiori, cesti di frutta, … Le voci dei venditori si rincorrevano fra loro per attirare le persone.
Lei si fermò davanti al banco della frutta. Avvolta nello scialle colorato, allungava la mano quasi ad accarezzare i prodotti della terra, rimestò le noci, si mise in bocca un acino d’uva, prese un limone.
Dalla parte opposta lui la osservava tra infastidito e incuriosito. Professore universitario intorno alla cinquantina, dai capelli brizzolati che impreziosivano il bel volto abbronzato, non era abituato a passare inosservato. Le studentesse del suo corso sgomitavano per attirare la sua attenzione. Carla non lo aveva degnato di uno sguardo finché, mentre mordeva una susina, lo vide e lo riconobbe: un vicino. Era apparso proprio quella mattina nel rifugio vicino a casa sua che lei finora aveva visto sempre chiuso. Era con diverse persone ma si contraddistingueva oltre che per la bellezza anche per il suo atteggiamento algido e distaccato. Gli altri si muovevano scherzando, ridendo, parlando a voce alta, chiamandosi fra loro, in una sorta di festa fatta dal ritrovarsi insieme.
Carla avrebbe voluto conoscerli ma non sapeva come fare.

Simone Bellini: I limoni e la neve
Era il silenzio ovattato nel freddo delle montagne che strideva col ricordo del frinire delle cicale.
Era quell’ambiente dal legno cupo ma accogliente e quell’ipnotico calore della danza del fuoco che si opponeva alla accecante luce del sole aperta su tutto l’agrumeto e fu proprio il calore del tè con il profumo del limone, che le fece apprezzare il forzato cambio, che unì ancor più la loro passione.
***

Rossella Gallori: I limoni e il caffè
Una dignitosa povertà, un giallo assordante, un bianco che fa sole, che fa sale…..Quante volte ho bussato, alla porta di Lino e Carmela , senza scarpe su per le scale, fughe brevi , che sapevano di zucchero e limone, di pane e panelle, di fave secche da sgranocchiare …..Casa Basiricò era così , tutto sapeva di limone, anche il bucato…e la porta sempre aperta per me, che cercavo di scappare dai caffè della mamma , che non eran tazze, ma flebo. Tutto sapeva di caffè in casa Gallori, anche i pantaloni del babbo che la mamma smacchiava con quell’acquetta marroncina, sul tavolo di cucina , con quella copertona di feltro……”la coperta del cavallo”, come diceva la solita carogna della nonna …..”un cavallo???” ma chi lo aveva mai avuto un cavallo…..se ci fosse stato se lo sarebbero mangiato…..per fame, non per cattiveria…..
Quindi a pian terreno odore di caffè, al secondo di limoni …..e più in su la musica….quella della vita…che non sempre era ben sintonizzata….
***

Aldo Bombaci – I limoni e la casina bianca
Un campo di limoni ben tenuti, coltivati, ricchi di frutti.
Al margine dell’orto una casa non grande come superficie e altezza, i muri bianchi sia esterni che interni, una cucina, un tavolo con attorno quattro sedie, un cestino vuoto.
Dentro al frigo una brocca di vetro contiene la spremuta di limone, bevanda fresca in usanza del luogo, caldo secco.
Una donna dai capelli grigi è ricurva sul telaio, sta tessendo una stoffa dai colori variegati, il rosa prevale e poi altri a decorare il futuro scialle con filamenti dorati.
Una dignitosa povertà si avverte dentro quella casa pulita.
***

Maria Laura Tripodi – I limoni e il telaio
Non fu il rumore a svegliarmi. Piuttosto la sensazione che il silenzio non fosse più così totale. Mi buttai di sotto al letto alla svelta, mi infilai le ciabatte e corsi davanti alla finestra che dava sulla terrazza……………..
Ma il giardino dei limoni sembrava immobile e silenzioso come sempre. Un gatto sonnecchiava al sole del primo mattino con posa impertinente.
Però dabbasso qualcosa era mutato. Dal silenzio assoluto si percepiva appena il battere ritmico sul pedale del telaio. La nonna doveva essersi alzata di buonora e stava tessendo la stoffa per il mio abito da sposa.
A entrare lieve nel mio sonno era stato un sentimento profondo di commozione e tenerezza.
***

Stefania Bonanni – Limoni e realtà
Comincio le giornate con un bicchiere di succo di limone, in un po’ d’acqua calda.
Così, la scossa sveglia e caso mai fosse rimasta in circolo qualche notturna dolcezza, magari sognata, sarebbe tutto riportato alla realtà. Perché la realtà è acida. Aspra ed acida.
Il limone: una bella metafora. Si strizza finché ce n’è, si usa anche la buccia, e mai per farne il protagonista di qualcosa, quasi sempre per profumare, per correggere, per dare sapore ad altro.
Cuoce senza fuoco, per magia. Si arrangia, è multitasking, come le donne. Può servire per le pulizie, per fare brillare i capelli, per pulire la pelle, per schiarire le macchie sulle mani, per disinfettare, per sfiammare, per digerire, per vomitare.
Si fanno torte insipide, senza una grattatina di buccia. Fa rimanere bianche le mele sbucciate, verdi i carciofi tagliati. Diventerebbe tutto marroncino, senza limone.
A volte ne basta mezzo, ed allora succede che la mèta che non serve, sia riposta in frigo e dimenticata. E le gocce, le lacrime, piano piano si seccano, dal dolore dell’abbandono.
Resta mezzo limone, a volte non ha più neanche l’alibi della buccia brillante, resta quella pellolina ruvida che diventa sempre più grigia, e rinseccolisce, si ritrae, il frutto diventa secco così solitario. Così duro che non si potrà più strizzare, così risecchito, che si può solo buttare.
Era stato conservato perché poteva ancora essere utile.
Sarebbe finito con l’ultima, violenta stretta, forse un goccio in un the
Invece, si sono scordati. Proprio non l’hanno più visto, quando hanno aperto il frigo.
Era lì, come sempre, in quel suo solito posto, ma nessuno l’ha più guardato.
Ecco, alla fine non è complicato. È questa la dimensione, la lotta giornaliera, il progetto per il futuro. Non diventare quel mezzo limone inutile, secco e ammuffito. E dimenticato, ignorato, per la consapevolezza di tenerlo al posto giusto, lì dove è giusto che stia, lì dove ha un posto.
Lì dove può ancora scegliere: se essere strizzato fino in fondo, o ammuffire per dimenticanza.
***

Emilia Caravaggi: I limoni e la 500
Filavo con Licia nella 500 filavano a tutta birra, come solo una 500 può andare. La campagna scorreva via mentre, da lontano, la casa di campagna dalle mura tutte bianche, si avvicinava sempre di più. Finalmente ci fermiamo accaldate e assetate mentre la vecchia signora stava portando fuori una bella limonata profumata. Ce la offre e mentre ce la gustiamo ci guardiamo intorno ammirando il giardino pieno di limoni, dal giallo intenso e ben succosi. In un angolo un telaio con una bellissima coperta colorata in procinto di essere finita. Chissà quante ore avrà passato la signora, china sul quel telaio pensando a chissà cosa. E’ arrivata l’ora di ripartire Licia ed io risaliamo in macchina e dopo qualche bizza parte scoppiettando. Dovrà affrontare una brutta salita e tutte e due abbiamo paura era che non ce la faccia. Infatti si ferma, tossisce un’ultima volta e non riparte. Con calma e allegria scendo, apro il cofano e guardo smarrita il motore. Poi l’idea : prendo una candela la ripulisco e la rimetto a posto. Miracolo! la 500 riparte alla volta di Firenze, a casa. L’avevo visto fare da un meccanico e così avevo provato a farlo. Per questa volta è andata bene!!!
***

Simone Bellini – Limoni limoni limoni…….
Limoni, limoni, limoni, il frigorifero pieno di limoni! Come mai?
La salute signori, la salute; le mie donne salutiste sono convinte che, appena alzati dal letto, una bella spremuta di limone con acqua sia miracolosa. Brucia i grassi, fa bene alla pelle, dona energia per tutta la giornata. Chiaramente senza zucchero, bella, aspra da strizzar gli occhi. Vogliamo prendere un tè? Bene a casa mia si può dire che si prende una limonata col tè!
Ma che vuoi mettere una bella granita siciliana!!
***

Monica Baldi – Il giardino dei limoni e lo scialle
I limoni mi avevano incantato. Il mio occhio non riusciva assolutamente a staccarsi dal colore che emanava da quei frutti, un giallo luminosissimo che sembrava irraggiare, intorno a sé, tutto il sole e il calore che avevano catturato durante quell’estate chiara e radiosa. Mi trovavo nella serra del giardino, a pochi metri dalla fontana. Era umida e c’era un’atmosfera silenziosa, ovattata. Il colore dei limoni vibrava così intensamente che sembrava quasi che emettessero dei suoni, un che di argentino, in quell’aria opprimente, da serra.
La vidi all’improvviso.
Stava chinata davanti ad un vaso. Riccioli morbidi, ramati e ribelli, scendevano giù, sulla terra della grande pianta cui stava dedicando le sue cure. Non si era accorta della mia presenza. Lavorava alla terra, con dita forti, magre, un po’ nodose, come radici. Continuai ad osservarla, cercando di intuirne il volto, il tono della voce.
Non si accorse di me fino a che non le fui vicinissimo. Ero stato molto silenzioso; immaginai che avesse percepito la mia presenza per un lieve spostamento d’aria, oppure per un qualche odore che il profumo inebriante dei limoni non era riuscito a mitigare. Si voltò di scatto e feci appena in tempo a scorgere i suoi occhi. Si alzò e sparì in un tempo infinitesimale. Non avrei saputo dire né come, né dove fosse andata. Si era mossa con una leggerezza inaspettata, sorprendente. In basso, accanto alla pianta, uno scialle rosa con dei motivi colorati, che richiamava paesi esotici, (America del Sud?), testimoniava che non avevo avuto una visione.
Tesseva, insieme ai fili di cotone, i suoi pensieri. Immagini che si sovrapponevano ai colori del tessuto ed entravano a farne parte, tesseva la sua vita. Romina da piccola, scalza, i capelli stopposi, mentre la guardava facendo ciondolare le sue gambette sporche lungo il tronco dell’albero su cui si era arrampicata. Uno sguardo attento, severo, distaccato.
Romina quindicenne, con la fionda del fratello, che tirava sassate a tutti quelli che si avvicinavano, dal tetto del fienile.
Ennio…Ennio e Romina, le grida, le botte, la fuga da casa…l’odio che aveva provato per suo marito, la disperazione per la perdita di quella figlia che non voleva intrecciarsi nel tessuto della loro atona normalità, filo ribelle, filo ritorto, filo raro, filo d’oro della sua vita…giorni bui, occhi spenti, gli stessi che aveva visto, poi, in seguito, nel volto del marito di Romina, perdutamente innamorato e senza alcuna speranza di poter condividere alcunché con lei.
Filo spezzato.
***

Lorenzo Salsi: I limoni e la fantasia
Quella mattina mi svegliò un rumore sordo, un tonfo. Rumore come di qualcosa di pesante che cadeva però sul morbido, su della terra smossa, lavorata. Mi alzai e lì per lì non vidi niente, solo affacciandomi vidi l’albero di limone, stracarico come sempre di frutti.
Mi accorsi però che il tonfo, botto, rumore era stato generato dalla caduta della mia fantasia; sì, lei era lì quasi esangue proprio sotto l’albero di limone, con un fil di fiato che le usciva da un racconto non finito.
“Sogno o son desto?” mi chiese il limone ” Sbaglio o questa è la tua fantasia?” continuò ” ma sei pazzo a lasciarla andare così ….. mica sei Montale?”.
“E ora che c’entra Montale?” chiesi all’albero, un po’ imbarazzato, mai avevo avuto un colloquio con un vegetale, casomai un soliloquio perché non avevo avuto mai risposte .
“Eh dici bene che c’entra Montale….ignorante. Lui con la sua fantasia ha incensato ed eternato la mia esistenza”, disse con aria bon-aria il limone .
“Ma se Montale era un razionale, un pratico mica un sognatore, un fantasioso, si rifaceva alla normale vita quotidiana nella sua opera.
A fatica la fantasia, che si era stufata di questi discorsi, si rialzò appoggiandosi al tronco dell’agrume. Stanca, afflitta, abbandonata , mi guardò con un’espressione fra il grato e l’ingrato e poi disse “…e il gelo del cuore si sfa …”.
Il limone tutto contento mi sibilò “Hai visto anche la tua fantasia si rifà a Montale?”.
Guardai l’albero con sufficienza e feci cenno alla fantasia di rientrare in casa.
Non si vola sempre sulle ali della fantasia, a volte basta un limone… forse un cestino.
*** 
Laura Casati: I limoni e le luci di Amalfi
Sul quel pulmino che da Castellare di Stabia ci avrebbe portato ad Amalfi, attraverso i monti, eravamo in diversi. La strada era in salita, stretta con curve e ricurve a strapiombo sui burroni sottostanti. Sopra a noi i monti Lattari e il monte Faito. Era la fine di novembre e il sole calava presto, ormai stava facendo notte. L’autista era del posto e conosceva come le sue tasche quei luoghi, ma tutti noi eravamo in po’ in ansia per la pericolosità della strada. Scollinato era già buio, fu allora che ripresi fiato e sollevai lo sguardo tutt’intorno, mi apparve un paesaggio fiabesco, piccole case in cima alle colline e chiese arroccate qua e là sui dirupi con campanili che si scagliavano verso il cielo, illuminati da flebili luci artificiali. Un presepe naturale si presentò ai miei occhi. Ora che la strada si stava allargando sperai che l’autista rallentasse o che la strada non finisse per poter godere di quel panorama. Ad Amalfi fu uno splendore di luce le stradine illuminate dai neon dei negozi. In fondo una piazzetta con al centro un camioncino e banchi di agrumi fra i quali i famosi limoni di Sorrento che emanavano un profumo inconfondibile. A fianco la scalinata che conduce alla Chiesa, fu allora che quell’atmosfera mi fece tornare in mente il Sinai con suoi i venditori di tappeti, di tessuti locali e di datteri ed in fondo alla strada il Monastero di Santa Cristina.
***

Sandra Conticini: I limoni e la donna colorata
Un’isola assolata in piena estate con un mare cristallino ed invitante. Sparse qua e là qualche palma con sotto alcune sdraie per dare refrigerio ai turisti in questo paradiso incontaminato. Sulla spiaggia c’è anche una donna di colore, con indosso un bel vestito di stoffa fatta a telaio, dai colori accesi: rosa fucsia con una riga sottile azzurra ed un filo argentato, vende limoni profumati che tiene in un bel cestino di colore verde e marrone, dalla forma armoniosa e particolare…che direi di altri tempi.
***

Patrizia Casati: I limoni e il treno
Il treno va, dai finestrini il paesaggio sfugge: alberi, case ….e via …..si allontanano.
Vedi un’immagine e subito un’altra, non riesci a fermarle.
All’interno del treno una bambina guarda con sempre maggiore curiosità il paesaggio.
E’ colpita dalla velocità e i colori l’attraggono più di ogni cosa.
Ma …alzando gli occhi vede che nel vano portabagagli, in alto, sopra la sua testa, si nasconde un cestino dentro una coperta a quadri.
Prende la tovaglia coloratissima e il cestino (sente che è pesante e manda un profumo di …limoni, sì sono limoni!) e immagina di ritrovarsi in un bel prato. Che delizia! Lei va matta per il limone, se lo mangia sempre con lo zucchero.
Il cestino la riporta alla fiaba di Cappuccetto Rosso che va dalla nonna e ….pensa che anche lei potrebbe portare alla sua nonna qualcosa.
Immagina di apparecchiare sul prato e si mette ad aspettare….
Aspetta che sua nonna arrivi.
***

Elisabetta Brunelleschi: I limoni e U’ Petraru
(racconto tra fantasia e realtà)
Non era vera vacanza se ad ogni agosto non scendevano una o due volte al Petraru.
Si incamminavano al mattino o nel primo pomeriggio per il sentiero dei Pantani, un antico tracciato abbandonato con l’avvento dei motori che Sarina e Salvo ripercorrevano divertendosi a scoprire tracce di volpi o nidi di uccelli.
Nel tratto iniziale il sentiero scendeva ripido tra spini, peri selvatici e balzi profumati di origano. Venivano poi terrazzamenti irregolari irti di paglia stecchita. E via via che la montagna si allontanava, comparivano enormi pale di fichi d’India con i frutti già gonfi, sino alla valle dove vi erano oliveti, alberi da frutto e campi destinati al frumento. Da qui il sentiero continuava verso il mare.
Quell’anno, Sarina e Salvo uscirono subito dopo pranzo, con passo veloce percorsero lo stradone fino alla curva dei gelsi e da lì, a sinistra, entrarono nel sentiero che lassù attraversava una campagna selvaggia e incolta. Nell’andare chiacchieravano, scrutavano l’orizzonte e si tenevano per mano.
Camminarono senza fermarsi, un’ora di strada li separava dal Petraru. Sarina si limitò a raccogliere pochi rametti di origano, una manciata di semi di finocchio e già alle due del pomeriggio avevano raggiunto la valle ampia e riccamente coltivata.
Attraversarono l’oliveto e sotto la loggia del Petraru scorsero da lontano Peppino, Maria e la zia Venera. Li stavano aspettando.
Si sedettero in circolo e con gioia si raccontarono le giornate trascorse tra il mare e la campagna. Al Petraru c’era un grande stalla e Sarina ogni volta amava fermarsi ad osservare le bestie. Quell’anno la vacca aveva un vitellino. Sarina corse a vederlo: la mucca lo stava allattando. Fuori le galline razzolavano la terra alla ricerca di appetitosi vermi e da una parte l’asino se stava tranquillo legato ad un palo.
Dalle stanze dell’umile casetta comparvero come una sorpresa le tre figlie di Peppino e Maria: Giovanna, Esterina e Severina. Sarina fu felicissima e subito tutte e quattro si raggrupparono in chiacchierare e confidenze. Stavano al Petraru da due giorni, dovevano raccogliere le mandorle e il ricavato della vendita sarebbe stato tutto per loro.
Le tre sorelle, nate fitte fitte una dopo l’altra, avevano ormai l’età in cui si comincia a pensare all’amore e alla preparazione del corredo nuziale che laggiù era fatto di lenzuola di lino ricamate, di coperte con tralci di rose a punto in croce e di elaborate trine che Maria col suo uncinetto instancabilmente preparava.
La vecchia zia Venera grossa e ridente sedeva immobile su una bassa sedia e non sapeva esprimersi che in dialetto. Maria raccontava di quando le aveva acquistato le prime mutande e non si sa quanto lei ne fosse rimasta contenta perché nella sua lontana giovinezza le donne non avevano indumenti intimi, stavano senza, oppure avevano larghi mutandoni completamente aperti. Venera si era abituata così e quelle mutandine di cotone tutte chiuse e ristrette quasi quasi le davano fastidio!
Peppino accompagnò Salvo nella proprietà e via via gli mostrava i frutti, la vasca con l’acqua, i campi ormai mietuti, lamentando le fatiche, rallegrandosi per le abbondanze. Giunsero all’arancio vaniglia e Peppino ne staccò due frutti.
Erano arance bianche dolcissime, dal gusto stucchevole, quasi impossibile per un agrume.
Bevvero acqua fresca e fine versata da eleganti brocche di terracotta, sotto la loggia del Petraru seduti tutti insieme.
Poi Maria prese i limoni e iniziò a sbucciarli. Dissero che sulla buccia c’era stato dato qualcosa, che forse poteva far male e quindi era meglio sbucciarli. Con un coltellino Maria tolse con delicatezza un finissimo strato, quello giallo.
I frutti che venivano offerti erano i verdelli, i limoni che si raccolgono in estate, ed erano grossi, belli, non come quelli che arrivano nelle città del continente, piccoli, striminziti, loro quelli lì non li raccoglievano, lasciavano che cadessero a terra. Nemmeno per i porci erano buoni.
Peppino vantava i limoni raccolti nel loro giardino che non era lì al Petraru, ma in paese, a Scifì, vicino alla loro casa.
Intanto Maria tagliava i limoni già privi della buccia e ne distribuiva le spesse fette dicendo che si potevano gustare così com’erano, non avevano bisogno di zucchero.
Sarina li assaggiò e non le parvero così tanto dolci, ma per rispetto dei presenti tacque e mangiò come loro ed insieme a loro.
Poi alla fine arrivò l’ora del ritorno, tutti insieme andarono a piedi a Scifì e da lì Sarina e Salvo dopo i saluti, gli abbracci, gli appuntamenti tra una settimana, un mese, un anno, risalirono verso la montagna con la corriera.

Ti ricordi? È stato complicato ma ce l’abbiamo fatta. Sembrava la nostra nuova vita. Io andavo in bicicletta e tu facevi il tragitto in auto. Lungo la strada per il mare si sentiva l’eco del disastro di qualche giorno prima nel rombo dei cavalloni e nel sibilo del vento. Ma il sole splendeva nell’aria tersa e frizzante. Io mi sentivo euforica. Una nuova vita. Mi andava bene anche così. Pensiero positivo sebbene nell’abbaiare nervoso dei cani si sarebbe potuto avvertire un presentimento.
La burrasca aveva fatto mille danni e sulla spiaggia erano ammassati cumuli di canne, tronchi, rami. Un disastro. Ma era passata. Ci si faceva strada a stento. Ma tutto brillava.
Siamo rimasti seduti nel sole a scrivere poesie. Una delle tue è rimasta incompleta. Ho perduto la brutta.
Forse siamo rimasti lì.
Ancora una rosa fiorisce per te a novembre,
profumo e colori sono ancora racchiusi nella forma,
sullo sfondo tu: lo sguardo fisso sul mio viso,
una smorfia , un pensiero, o forse il nulla.
Le mani contratte ad abbracciare un cuscino,
ombra di un affetto sfumato nel tempo.
Le parole che dico sono lontane, suoni senza profilo
A cui neppure sorridi più.
Accarezzo il tuo corpo rigido e duro
che non ricorda come aprirsi e accogliere
ma prosegue il cammino anche help senza la mente.
Ti guardo e vorrei non vederti così.
Basta. Il mio urlo feroce, ora è tempo di lasciarci andare…
Mi manchi già…
L ‘ AMORE NON MINACCIA, PROTEGGE.
L’ AMORE SCALDA, NON SOFFOCA .
L’ AMORE FA VIVERE, NON SOPRAVVIVERE.
….DI ME UNA MORBIDA, LUNGA SCIARPA ROSSA.
DI TE , UN SILENZIO COLOR CENERE.
Quella sera stavamo aspettando il babbo. Non tornava, era in ritardo.
Con le orecchie tese siamo sedute in cucina pronte a percepire da lontano il ronzio del motore che non arrivava.
Oppure sì, da lontano giunge uno scoppiettio.
No, non è il suo!
Dal rumore del motore si poteva riconoscere il proprietario.
<< Questa è la lambretta di Antonio, senti come va!>>
<< Si è fermato laggiù, è la giardinetta del Tucci>>
<< Sale ancora, sarà quello del Cerrini. Eh, torna anche lui tardi!!>>
E poi tra un motore e l’altro il silenzio, solo silenzio profondo, denso, un silenzio da sprofondare.
Chissà forse la mamma era in ansia. Ma non lo dava a vedere.
Intanto noi continuiamo ad aspettare. La tavola è apparecchiata e le nostre mani si allungano verso la cucina economica accesa dove sono appoggiati i tegami con la cena.
Ecco un suono lontano come un friggere che sempre più distinto si avvicina: è lui, è il suo motorino: il Mival.
Chissà quali ritardi: il magazzino, il camionista, la strada, …
Il motore si spegne, la porta si apre e il silenzio finisce con il nostro parlare.
Rossella Gallori – Rumori al buio…e non è notte
Non era stata una vacanza, speciale niente era più da tanto tempo, se non fosse stato per quel cane, che ogni tanto abbaiava, ed il mare che sbatteva il suo io sulla roccia, non mi sarei svegliata. ….ed avrei continuato a dormire forse per giorni, senza cibo per il corpo, senza luce per l’anima. Quella casa vicina al mare, mi era stata forzatamente consigliata, tipo : vai ti farà bene devi staccare!!!!
Più che staccato, avevo steccato, come un vecchio giocatore di biliardo, che non prende più un colpo, perché le buche si chiudono dispettose, ed il panno verde è solo uno stupido cencio.
Ma ormai ero li, con due gatte grasse e rosse, con una coperta patch work sbiadita e scucita …toppe solo toppe.
Misi qualcosa addosso, una vestaglia grigia trovata in bagno, un bagno freddo e segnato dal tempo, dove l’acqua scendeva a gocce dal rubinetto chiuso, battendo un ritmo snervante; sgualcita ma pulita mi scaldò, un’amica di stoffa…..
Trovai la forza di farmi un caffè, scottandomi…
I croccantini per le belve, il pane per me, fuori pioveva…..io sola…sola …
Fuori….fuori qualcuno cantava.
***
Lorenzo Salsi – Temporale
Lasciammo che l’acqua ci bagnasse. I tuoni ti facevano trasalire ed io cercavo di proteggerti con un abbraccio serrato ma non potente.
Fu piacevole essersi fatti sorprendere dal temporale, un po’ pericoloso per i fulmini ma la giovinezza non prevedeva il pericolo, anzi, come figli di Odino, rimanemmo lì fermi, contenti.
Poi superato il culmine delle dune, lasciammo il temporale a sbizzarrirsi in mare. Dietro le spalle.
***
Chiara Bonechi – La carrozza
Al buio ho ascoltato…
All’inizio sembrava il rumore del vento, subito dopo no, ho sentito il rumore delle ruote di un carro che procedeva, non troppo veloce, verso la destinazione e mi sono immaginata un carro, poi una carrozza trainata da cavalli lungo un percorso su strada sterrata che si apriva fra campi e boschi. Mi sembrava di scorgere una gentil signora nella carrozza.
Il cocchiere spingeva i cavalli verso la villa di lei, lei che si poteva permettere, verso la metà dell’800, questo lusso; era davvero una signora.
Il suono di un campanello ha annunciato l’arrivo.
Vedo il cocchiere che scende e che fa scendere lei.
Finalmente si svela il suo volto, il suo corpo con abiti da viaggio, il suo cappello e con fare elegante si muove, sorride e si avvia verso casa.
***
Aldo Bombaci – Il vento
Sono dentro un canyon, il vento soffia, a momenti è troppo forte, mi spinge, mi butta giù per terra; poi si placa, diventa dolce e dalle rocce sento il cader delle gocce d’acqua che non hanno avuto il tempo di ghiacciare.
Fa freddo!
Sono solo in mezzo al nulla, soltanto il cielo sopra me mi accompagna e guida verso la meta sperata.
Odo lontano il latrare dei cani, là è la civiltà, chissà se potrò raggiungerla, chissà se potrò salvarmi, sono loro a condurmi; ma posso fidarmi o è solo una eco ingannatrice che rimbalza sopra queste antiche rocce?
***
Carla Faggi – Passeggiata
Questa mattina sono stata a passeggio sulle colline sopra casa mia.
Volevo fare una passeggiata meditativa, quindi mi sono concentrata sui rumori attorno.
Il fruscio del vento, voci lontane, il pesticcio dei miei scarponi, poi lontano lontano l’eco dell’autostrada.
Dal silenzio iniziale interrotto solo dai suoni della natura sono passata a sentire principalmente i rumori lontani della città.
Volevo staccarmene ma non era facile.
Mi arrivavano pure pensieri su cose e persone e non riuscivo a liberarmene.
Provavo a concentrarmi sul respiro, sui miei passi. Niente da fare.
Allora mi sono detta “va beh, lascia che sia!” quindi libera dalla concentrazione e dalla ricerca di mente libera mi sono dedicata con leggerezza e tranquillità a pensare cosa preparare a pranzo!
***
Mirella Calvelli: Suoni e rumori nel buio…………
Era l’estate del 1970, avevo compiuto 8 anni e i nonni avevano preso in affitto una casa nel Senese.
Arrivammo eccitati, io e i miei 5 cugini, di cui io ero la più piccola e l’unica femmina.
Felici senza i genitori, pieni di progetti per quei 15 gg all’insegna della libertà.
Disponemmo i nostri bagagli nelle stanze che la nonna ci aveva assegnato e cominciammo a progettare con chi e soprattutto a che ora saremmo andati a dormire.
Arrivarono in un lampo le dieci e la nonna ci intimò di andare a dormire, non prima di essersi lavati i denti…
“Nonna non c’è acqua!!! Nonna qui puzza ed esce marrone….”
Ci portò sopra una bottiglia di acqua minerale e quella sera ottemperammo così a quella funzione.
Che bello quel letto fresco, lenzuola pesanti, ma bianche e un po’ ruvide.
Non riuscivo a prendere sonno e dopo aver provato a comunicare con gli altri, la figura della nonna apparve sulla porta per spegnere la luce…..”Nonna non è giusto io sono da sola!!”
“Ma tu sei una femmina, non puoi stare con gli altri!! Ora dormi e domani vedremo”
Sarà trascorso poco più di un’ora, che il letto era diventato un groviglio a forza di rivoltarmi in giù e in su…il cuscino piegato, poi sotto l’avambraccio destra…”Uffa, non si dorme” “Conterò le pecore…1, 2, 3…ma cos’è questo rumore? Nacchere?…no una vecchia radio transistor che gracchia rumorosamente….Ma qui non ci sono né spagnoli, né dj…allora saranno gli Ufo che cercano di mettersi in contatto….”
Lo strascichio della rete ora si sente bene, sembra vento e poi due bip…..”E se fossero i fantasmi?, questa casa è così vecchia che saranno su nel solaio…..Lì ho visto, durante la perlustrazione, due grossi bauli, di chi saranno stati? Sento il suono delle campane in lontanaza che mi riporta alla mia camera…e la voce del nonno imprecante che stava cercando di far tornare l’acqua…
Meno male è solo una questione di idraulica!!!
Dai Mirella, ora puoi dormire…
***
Maria Laura Tripodi: Rain Man
Gastone era bagnato fradicio. Il cappotto inzuppato gli pesava addosso e il temporale non accennava a diminuire di intensità.
La boscaglia era fitta e a tratti inciampava, ma in lontananza, nel buio della notte, gli parve di intravedere una luce. Nello stesso momento udì il latrare di un cane e fu certo di essere quasi arrivato a un rifugio sicuro.
Camminò ancora per un po’, ma gli sembrava che la luce invece di avvicinarsi si allontanasse.
Alla fine arrivò. Il cane lo accolse abbaiando come un forsennato e tirando la catena con violenza. Poco lontano si udiva lo sferragliare di un treno che con malavoglia affrontava il suo cammino nella pioggia.
Bussò.
Venne ad aprirgli un’anziana donna. Lo guardò senza sospetto e accennando al suo cappotto zuppo lo invitò a entrare.
All’interno c’era un bel calduccio e tre bambini stavano ascoltando una favola seduti intorno al camino acceso.
Si sedette insieme a loro e gli sembrò di essere arrivato a casa.
***
Elisabetta Brunelleschi: ATTESA
Una sera, in casa, tanti anni fa.
Io e la mamma siamo in cucina e tutto è silenzio.
Nella campagna notturna della mia infanzia i rumori sono rari.
Nella strada, dalle sette in poi, transitavano uno o due mezzi e niente più.
Quella sera stavamo aspettando il babbo. Non tornava, era in ritardo.
Con le orecchie tese siamo sedute in cucina pronte a percepire da lontano il ronzio del motore che non arrivava.
Oppure sì, da lontano giunge uno scoppiettio.
No, non è il suo!
Dal rumore del motore si poteva riconoscere il proprietario.
<< Questa è la lambretta di Antonio, senti come va!>>
<< Si è fermato laggiù, è la giardinetta del Tucci>>
<< Sale ancora, sarà quello della Cerrini. Eh, torna anche lui tardi!!>>
E poi tra un motore e l’altro il silenzio, solo silenzio profondo, denso, un silenzio da sprofondare.
Chissà forse la mamma era in ansia. Ma non lo dava a vedere.
Intanto noi continuiamo ad aspettare. La tavola è apparecchiata e le nostre mani si allungano verso la cucina economica accesa dove sono appoggiati i tegami con la cena.
Ecco un suono lontano come un friggere che sempre più distinto si avvicina: è lui, è il suo motorino: il Mival.
Chissà quali ritardi il magazzino, il camionista, la strada, …
Il motore si spegne, la porta si apre e il silenzio finisce con il nostro parlare.
***
Lorenza – L’importante è andare.
Un attimo prima che arrivi il buio sento la sirena dell’ambulanza, poi con l’oscurità arriva il rumore dell’acqua, un cane che abbaia, e poi mi sembra di udire un treno che passa.
Fra questi suoni e rumori scelgo il treno che rappresenta per me “l’andare”. Dove non importa, quando non si sa, il bello è andare, vedere, conoscere, sperimentare, gustare cibi, odorare profumi, ascoltare suoni e sentire sensazioni. Ogni volta che ho viaggiato è come se avessi vissuto altre vite. Non ero più io, ma un’altra persona, in un altro mondo, con altre persone. Io stessa cambiavo il mio modo di essere e sentire. Nel buio ho viaggiato e ricordato.
Mi ha riportato qui il suono delle voci dei bambini, entusiasti e allegri, le stesse che hanno quando escono da scuola; un luogo che li ha trattenuti contro la loro volontà, che forse era quella di andare via, dove non si sa. L’importante è andare.
***
Stefania Bonanni: L’albero di Natale
Non fu il rumore, a svegliarmi. Piuttosto la sensazione che il silenzio non fosse più così totale. Mi buttai di sotto al letto alla svelta, mi infilai le ciabatte, e corsi davanti alla finestra che dava sulla terrazza. Nonni chiudevano più le imposte di quella finestra, da quando si era fatto un albero di Natale grandioso, in terrazza.
Oddio! L’albero di Natale!! Non c’era più!
Restavano due tremule lucine, a nuotare nella notte, una rossa ed una verde, in alto, come lucciole.Come poveri resti di uno spettacolare filo di luci, di addobbo rosso e verde. Nulla, non c’era più nulla. Continuava nella notte un gentile, piccolo crepitio, a non infastidire. Sarà stato un corto circuito, sarà stato l’umido. Sarà stato un sovraccarico di corrente. Non era il caso di lasciarlo acceso tutta la notte, in terrazza. Ma era così bello!! Si vedeva da lontano. Un peccato, spengere la meraviglia.
Ho raccontato che è stato un incidente aereo. Che babbo Natale, con la slitta, non ha resistito, ha provato ad atterrare in terrazza, e le corna delle renne hanno provocato un disastro impigliandosi nei fili elettrici.
Nessun animale si è fatto male in questo racconto, solo un’abbruciacchiatina alle corna.
In lontananza si sentivano ancori piccoli latrati. Non erano cani, erano le renne che si lamentavano riprendendo il volo.
***
Roberta Morandi: All’improvviso il buio
La luce va via insieme a quel senso che primo fra tutti ci fa percepire la realtà intorno, lasciando campo libero all’udito e all’olfatto. Ecco, appunto, il pane di Mirella ha invaso tutti i miei sensi e al buio è subito esploso, poi, lentamente sono arrivati suoni e rumori che mi hanno catapultata nei cantieri dell’autostrada, invasivi e padroneggianti le nostre esistenze, sia di giorno che, talvolta anche di notte. Sensazione sgradevole, per cacciarla lontano da me ho dovuto concentrarmi sull’altro “rumore”…
Piove, in riva al mare, le onde hanno la solita ritmicita` di sempre: quel loro ritirarsi dopo aver spumeggiato sui miei piedi mi fa sentire bene, in armonia. Chissà perché il mare mi da pace, e, per parafrasare Edoardo de Filippo, “ una pace senza tempo” immutabile e fresca, e poi piove, piano, leggero, non mi bagna e basta, mi accarezza e mi accoglie in un abbraccio umido e lieve.
***
Sandra Conticini: Il treno
Oh dove arriverà quel treno che sento in lontananza, e da dove verrà. Sono qui in questa campagna sperduta e non riesco a capire cosa possa essere quel rumore che io penso sia il rumore di un treno che corre sulle rotaie. Immagino sia degli anni 40-50 con i seggiolini di legno duri e sopra vi siano signore con i grandi cappelli e colli di pelliccia tutte incipriate, imbellettate e profumate con i loro compagni vestiti con mantelle nere e bastoni d’argento.
Le aiutano a scendere come dei veri gentiluomini.
Il rumore del treno non si sente quasi più, ma vedo una lucina rossa in lontananza, deve essere il cosiddetto fanalino di coda……ma allora era proprio un treno, non ho sognato!!!
***
Ivana Acciaioli: Silenzio
La casa è silenziosa.
Il senso di vuoto che è in me affiora.
Rumori lievi giungono senza offesa.
Il tempo inganna le assenze.
Piove.
Cambia la luce nella stanza mentre la penombra avanza.
La solitudine si fa più densa.
Piove e tutto si infrange.
In me non cambia niente.
***
Tina Conti: Emozioni al buio
Notte, buio ma non troppo, un uomo prepara la paglia per le sue bestie, si sente calore, alitano insieme, gli animali si muovono al buio, lo riconoscono, l’aspettavo.
Si apre il portone, le assi scricchiolano ,i portelloni sbattono.
Dalla cucina una folata di vento fa entrare l’odore del pane appena sfornato.
Laggiù si sentono rumori di festa, ci si prepara per la veglia di Natale.
Ormai Valerio può prepararsi, tutto è stato fatto, andrà con la sua slitta alla chiesa.
La sua bella sposa con il vestito della festa è già andata, ha ancora un po’ di farina sul naso, e le mani hanno segni di farina sulle unghie.
Senso di pace, di serenità, di vita concreta.
Il lavoro, la famiglia, gli animali amati e da accudire riempiono la vita.
Tutto procede con armonia ,la famiglia gode della semplicità e essenzialità delle cose.
***
Simone Bellini: Piove!
–Allora vado a portare fuori il cane ,che questo tempo mi pare stia cambiando. Stamani c’era un sole che spaccava le pietre !-
– Va bene , poera bestia e’ da un po’ che mugola, vai vai !-
Non si fa in tempo a voltare l’angolo che comincia a tuonare, non piove ancora, ci dirigiamo verso il prato dove solitamente andiamo ed ecco le prime gocce .
– Dai sbrigati Gigler, fai quel che devi fare e torniamo a casa.-
Ma quello se la prende comoda, gira di qua, gira di là, annusa dappertutto ed intanto la pioggia aumenta.
-Andiamo, che ci si inzuppa tutti! –
Si scatena il finimondo. Quando arriviamo a casa siamo da strizzare per quanto siamo bagnati.
Dopo una bella asciugata giocando alla fune con un panno di lino, ci riposiamo. Che fare con un tempo cosi’?
Quasi quasi mi metto a scrivere!
Un tuono, un lampo…..via la luce! PERFETTO !!!!!
***
Gabriella Crisafulli: Burrasca in Maremma
Ti ricordi? È stato complicato ma ce l’abbiamo fatta. Sembrava la nostra nuova vita. Io andavo in bicicletta e tu facevi il tragitto in auto. Lungo la strada per il mare si sentiva l’eco del disastro di qualche giorno prima nel rombo dei cavalloni e nel sibilo del vento. Ma il sole splendeva nell’aria tersa e frizzante. Io mi sentivo euforica. Una nuova vita. Mi andava bene anche così. Pensiero positivo sebbene nell’abbaiare nervoso dei cani si sarebbe potuto avvertire un presentimento.
La burrasca aveva fatto mille danni e sulla spiaggia erano ammassati cumuli di canne, tronchi, rami. Un disastro. Ma era passata. Ci si faceva strada a stento. Ma tutto brillava.
Siamo rimasti seduti nel sole a scrivere poesie. Una delle tue è rimasta incompleta. Ho perduto la brutta.
Forse siamo rimasti lì.


Sparuti papaveri tra sterpi riarsi
stanno dove il Sole calante
ha reso l’aria afosa e dormiente
Attese sono le fresche ore della sera
per donar vigore alla natura
che morir non vuole
fino al nuovo dì,
rinnovato di raggi infuocati
e gocce bramate
dai rossi petali stanchi
che l’esile stelo ancor trattiene.

(foto di Ubaldo Maurri)
Lorenzo Salsi – L’antipatico. “O come ? La ‘un m’aveva detto che la c’aveva un carico? Mah!”
” Sie… bonasera” , risposi .
” Ma lei che sa giocare a briscola?” disse.
” Poco ! ‘Un mi ricordo mai icchè passa ” bofonchiai.
” E lei quando ha imparato ?” cercai di allungare il discorso.
“Da ragazzo!” . Punto.
Uomo di pochissime parole, ma di vigorosissimo nervosismo.
Dai modi e dalle mani pareva stato, e tutt’ora forse lo era , un artigiano, un muratore o agricoltore.Lo trovai a Monteriggioni a un bar nella piazza. Giocava con altri, ma non capivo se gli fossero amici , non aveva e dava loro molta confidenza.
Mi interpellò solo perchè il “quarto” era dovuto andar via (la moglie si era chiusa fuori di casa) . A vederlo d’acchito mi ricordò P.P.Pasolini, quel magro non del poco alimentato ma del “un po’ bilioso”.
La maglia scura che portava lo faceva sembrare ancor più magro di quanto non fosse. Una testa da uccellino proporzionata al fisico.
Non vidi la fede nunziale , poteva essere come per me che non la porto per paura di farmi male sul lavoro, poteva averla persa oppure data come oro per la patria, a suo tempo, avendo indietro quel simulacro della “vera in acciaio” che dava il partito.
Poteva essere come si dice un “pinzo”.
Non traspariva niente, non ci capivo niente di lui, del suo presente, del suo passato, forse non era simpatico neppure agli altri giocatori.
S’alzò quasi di scatto . “Bona!” disse , che se mi avesse mandato a quel paese mi avrebbe fatto più piacere.
Uno degli avversari rimasti li seduti con me, sgranò gli occhi, mi guardò e muovendo il capo in direzione di Pasolini sibilò “Buco torto”.
***
Mirella Calvelli LO ZIO DINO – Lo zio Dino è sempre stato un uomo semplice, sfilato e magrissimo. La pelle baciata dal sole, mani lunghe e affusolate, ingiallite fra l’indice e il medio per le numerose sigarette che aveva fumato negli anni.
Ha sempre amato il gioco del tre sette, il suo unico passatempo, rubato ad un lavoro duro, quello di ciabattino. Tante ore reclinato su se stesso, con le mani sporche di mastice ed anilina.
Il ciuffo dei capelli disturbava la visione, quando era intento al lavoro, ma appena finito abili colpi di mano, come in un fiacco flamenco, riportavano quei ciuffi ribelli all’indietro immobilizzati dalla consueta brillantina. Quindi, uscendo dalla bottega risultava composto e curato, come fosse stato dal barbiere e ricercava in quel gioco e in qualche chiacchiera con gli amici la possibilità di stirare quella lunga schiena per troppo tempo costretta a stare genuflessa.
***
Germana Fantini – Nonno Germano. Avrei molte domande da fargli.
Lo sguardo vigile e nello stesso tempo austero, le mani si vedono poco ma sono mani modeste che mi riportano indietro nel tempo, non sono mani né dà impiegato, né dà pittore, né dà banconiere, ma rivedo le mani di uno scalpellino. Eh si era proprio bello e fiero, un uomo con una sola parola: quello era mio nonno Germano, con lo sguardo severo dal cipiglio austero, ma amante della musica e del buon vino. E quando sentiva la musica o il mio nome i suoi occhi si facevano vellutati, le sue guance si facevano del colore di pesca e le sue labbra aperte lasciavano vedere i denti scintillanti; e come si faceva a non andargli incontro con il rischio di cascare tutti e due? Questo era il mio nonno Germano.
***
Aldo Bombaci – Lo scultore. A una prima occhiata, un po’ perché la stanza era in penombra, un po’ perché la mia vista da quella distanza è un poco sfuocata, mi parve di vedere Pier Paolo Pasolini.
Poi quando mi avvicinai a lui capii che con Pasolini c’era solo una vaga somiglianza, e notai le sue mani, nodose scarne, di quelle che avevano molto lavorato, ed ancora tanto avrebbero potuto lavorare.
Quando si mise a parlare iniziò col dire che stava aspettando un grande pezzo di marmo bianco e da quello ci avrebbe ricavato un cavallo ritto sulle zampe posteriori e la criniera al vento.
Era uno scultore, le due mani parlavano di lui, ed il suo volto scavato, pure.
***
Carla Faggi – L’età degli uomini. Magro,arcigno, legnoso e spigoloso. Vecchio! Avrà sessant’anni! Così penso mentre corro verso il gruppo di amici per giocare a palla avvelenata.
Lo guardo di nuovo: un po’ maturo, fisico asciutto, doveva essere un bell’uomo da giovane, avrà cinquantanni! Così penso mentre vado a ballare la domenica pomeriggio di nascosto a mio padre.
Ancora uno sguardo: piacevole, sta perdendo i capelli, portamento atletico, l’uomo maturo è sempre interessante! Così penso mentre vado a passeggio dopo il lavoro e dopo aver ripreso i figli a scuola!
Lo guardo di nuovo: coetaneo, secco rifinito, un po’ uggioso come tutti i vecchiarelli, comunque un buon compagno di burraco!
***
Rossella Gallori – Ti ho già visto? Forse, dico, forse…per non dire mah…boh…ti ho già visto, hai l’ età dei miei fratelli….ma anche tu qui? Perché? Per cosa?
Si, ecco ora ci sono, facevi canottaggio con Gianni, o no, ricordo meglio, giocavi al club Sportivo Firenze, con Goffredo…
Hai gli stessi colori, scuro di carnagione…non sarai mica un fratello che non conosco?
Sei muto, no muto no, silenzioso , guardi lontano, hai occhi profondi, sopracciglia folte….Tu sai chi sono io? Ti interessa?
Ti prendo una sedia!
Ti offro una penna!
Ti porgo un cioccolatino!
Penso che tu abbia uno zaino, ed anche pesante, dove lo hai lasciato? Sento che lo porti con te , ma non lo vedo , è sotto il tavolo o dietro la sedia? No è dentro di te!
Ti darò un nome sento che ti chiami Francesco, cioè ti voglio chiamare così, mi piace dare un nome alle cose …ma tu non sei una cosa sei una persona.
Ma ho capito chi sei, un allievo di mio padre, eri un ragazzino quando ti ho visto giocare a tamburello, allo sferisterio….
…….Ma vuoi sapere chi sono io…..?
***
Vanna Bigazzi: Non è sapienza. Pier Paolo è un uomo interessante, un intellettuale, molto vissuto. Nei solchi del suo volto c’è tutta la sua storia, il superamento delle sofferenze, il raggiungimento di una stabilità tutta diversa dal concetto di stabilità comune: è un introverso carico di vita, di contenuti solo suoi, di vizi mai confessati. La sua storia lo ha distaccato dal mondo, tuttavia se ti degna del suo sguardo ti penetra nel profondo dell’anima. Le sue rare parole arrivano come inconfutabili verità, ma non è sapienza la sua è intuizione e cultura.
***
Sandra Conticini: Un uomo antico. Finalmente è domenica, giorno di festa, me ne vado al bar a giocare a carte. Dopo aver lavorato tutta la settimana nei campi assolati o con il vento e il gelo mi concedo qualche ora di riposo e gioco a briscola o ventuno con quei tre o quattro amici rimasti.
Ormai gli altri se ne sono andati via dalla campagna tanti anni fa per lavorare nelle fabbriche delle grandi città.
Poi dopo diversi anni molti sentono la nostalgia e provano a tornare, ma non si sentono più a loro agio e così non stanno bene né dove sono nati ed hanno vissuto i primi anni della loro vita né in città.
Sì è vero io rispetto a loro mi sento un uomo delle caverne, ma cosa vuol dire, non cambierei mai la mia tranquillità con la loro insofferenza!!!!
***
Laura Casati: LO SCONOSCIUTO. Alla festa dell’assaggio dell’olio nuovo all’Impruneta l’ho rivisto, era fra i tavoli dove veniva distribuita la bruschetta. Sono rimasta sorpresa non mi aspettavo di incontrarlo, era passato tanto tempo dall’ultima volta che ci eravamo incontrati, mi aveva detto che partiva per un lungo viaggio e non sapeva se sarebbe tornato. Mi sono chiesta, non mi ha avvertita, cosa l’ha costretto a rivedere i suoi piani? E’ tornato proprio ora, in questo periodo, in autunno quando ormai la natura si sta addormentando ed anche i ricordi della bella stagione si stanno assopendo. Nella primavera passata tutto sarebbe stato diverso, l’avrei accolto con un altro spirito. La natura che in quel periodo si stava risvegliando mi avrebbe dato una mano ad uscire dal torpore- Forse è successo qualcosa durante il viaggio, ha incontrato qualcuno che lo ha avvertito della nostalgia che sentivo dei nostri incontri, delle nostre chiacchierate, del suo sapere che riusciva a saziare le mie curiosità. Oppure anche lui ha avvertito la mancanza delle nostre conversazioni, anzi delle mie confidenze. Certo è invecchiato molto, la sua faccia si è fatta più incavata, più rugosa, chissà….Non sono pronta ad incontrarlo, ora, ormai la sua partenza la stavo accettando me ne ero fatta una ragione ne avevamo parlato spesso, come parlavamo di tutto il resto, della necessità di procedere da sola, del mondo nuovo che doveva venire al quale mi stava preparando ma poi da sola mi ero fermata. Ed ora era tornato per stimolarmi a riprendere il cammino?
***
Patrizia Casati: L’uomo al bar. A prima vista mi ha messo un senso di tristezza: il suo volto incavato ,provato dagli anni forse anche dal lavoro,adesso è lì davanti ad un tavolo con amici e gioca a carte. Si sta rilassando dopo una giornata dura. La sua famiglia lo aspetta……
Ecco mi ha fatto venire in mente il babbo che ogni giorno dopo il lavoro andava al bar, ne frequentava due: alle Riffe e al Ponticino; giocava a carte con i suoi amici.
A volte con la mamma andavo in Piazza delle Cure e non c’era una volta che non mi fermassi a salutare il babbo: entravo nel bar e diritta rasentando il bancone e via… mi avvicinavo a lui o allo zio Ugo (anche lui era al tavolo del gioco).
Ecco anche il babbo aveva un viso con i segni degli anni ma i suoi occhi erano più espressivi, era contento di essere lì e passare alcune ore con gli amici.
La sera tornava a casa e raccontava..
Se andava a giocare dopo cena al rientro ci lasciava sul tavolo due cioccolate LUISA che al mattino ci davano il buongiorno.
***
Chiara Bonechi: Amici al bar. Aspetto dalla mattina questo momento,”sono le quattro, sì mi muovo, di sicuro trovo qualcuno”.
E così l’uomo, ormai in pensione, si avviò verso la piazza del paese, là dove c’era il solito bar.
Era ormai primavera inoltrata, i tavolini erano stati posizionati all’aperto e a quei tavolini ogni giorno si sedevano i quattro amici per trascorrere le ore di quei pomeriggi che in casa sarebbero stati troppo noiosi.
Lo stavano aspettando, senza di lui nulla iniziava, nè un commento, nè un racconto, nè un gioco a carte.
“Stasera una briscola!” Disse con piglio deciso.
E così la partita iniziò.
***
Maria Laura Tripodi: Ritratto. Quando è entrato tutti ci siamo chiesti chi fosse. Non si è presentato, ha detto solo un buona sera a labbra strette e si è seduto. Aveva l’aria annoiata di chi deve per forza assistere a un avvenimento.
Non so perché mi sono chiesta dove avesse lasciato soprabito e cappello.
Ogni tanto cambiava impercettibilmente posizione sulla sedia e dietro la sua espressione impassibile si intuiva un’attenzione particolare puntata su ciascuno di noi.
“Ecco, adesso comincia a cantare” ho pensato. Mi trasmetteva la tranquillità e l’armonia che solo la musica sa dare.
E l’ho visto. Camminava sul lungo Senna in una ventosa serata d’autunno, con le mani nelle tasche del soprabito mentre canticchiava a mezza voce una triste canzone d’amore.
***
Patrizia Fusi: Attilio. Oggi è arrivato un signore di mezza età, quando sono arrivata lui era già seduto al tavolo, il suo aspetto mi ha incuriosito, ha i capelli pettinati come mio padre tutti all’indietro e stempiato, la pelle del viso segnata dal sole, le guance infossate, le labbra sottili, gli occhi piccoli con lo sguardo pungente, le sopracciglia folte, vestito di scuro.
Il suo nome è Attilio; mi è sembrato molto riservato, le cose che lo appassionano di più sono la letteratura e la poesia. Gli piace anche scrivere.
Ha un piccolo appezzamento di terra che coltiva ancora.
***
Stefania Bonanni: Il pescatore. Settimo nato di undici maschi, stipati come acciughe nella stanza umida del Vomero, dove da secoli abitava la sua famiglia. Fu subito chiaro che per mangiare doveva darsi una mossa e fin da piccolo andò con i fratelli in barca, prima per aiutarli a gettare le reti, poi anche per tirarle su, sperando fossero pesanti.
E passarono i giorni, i mesi, gli anni. E si vedevano tutti, questi passaggi, sulla pelle sempre più scura e più lucida, sempre più arrostita e riarsa, come ad aver cambiato pelle. Come aver bisogno di una corteccia. Non fu una vita comoda, ma non fu neanche difficile. Non ci furono strade da cercare, scelte da fare. Era già tutto lì. La fidanzatina girava per casa, era la sorellina della moglie di un fratello, sposarsi fu normale. I figli vennero da sé. Tanti, quanti Dio volle. E la fatica cresceva, come gli anni che passavano, e da un certo punto in poi non più in maniera proporzionale. Sembrava avesse cent’anni, quando ne aveva la metà.
Il giorno che al mercato del pesce, un signore elegante lo fissò a lungo, ne fu molto infastidito.
Quando il signore tornò anche il giorno dopo e stavolta gli si fermò proprio davanti, lo apostrofò sgarbato. “Che hai da guardare? Mai visto un pescatore vecchio? ” Ma l’altro insistette, lo guardò in faccia, gli girò intorno, gli guardò le mani, poi chiese di vederlo camminare. Gennarino fece due passi, poi si girò con le mani a pugno, minaccioso. L’altro si mise a ridere. “Sono Pasolini”, disse, ” cerco qualcuno per un film. Un pescatore” “Si, di quello sono capace, si può fare”.
Passarono i mesi, il banco di Gennarino era chiuso. Il rione parlava di fortune che gli sarebbero capitate immense, la gente non vedeva l’ora di di sapere come sarebbe tornato arricchito. E passava il tempo.
Senza preavviso, vestito di nero come quelli che scrivevano poesie in Francia, una domenica pomeriggio riapparve al tavolo da gioco del bar in piazza. Senza una parola. Solo le solite bestemmie, quando non venivano le carte giuste, la solita cicca penzoloni al labbro, a sinistra, o a consumarsi in bilico sull’orlo del tavolino. Non un divo, era il solito Gennarino, quello che giocava la spuma, come premio della partita.
“Ma non facevi l’attore?” “Macché, non ero adatto. Ma lo sai cosa dovevo pescare? Io che credevo di conoscerli tutti, i pesci? Uomini, quello voleva pescassi: Uomini……Non sono stato capace…torno alle acciughe”.
***
Monica Baldi: Il giocatore. L’uomo giocava. Con i compagni, al solito bar. Metteva nel gioco tutta la sua attenzione, come se tutta la fatica della sua vita già passata avesse avuto come unico scopo quello di portarlo lí, in quel momento e in quel luogo; nessun “poi”, nessun “dopo”.
Il volto asciutto, preciso, solcato, mostrava una fronte alta e spaziosa sotto la quale uno sguardo acuto, indagatore, sprigionava forza e autorevolezza. Condensava in pochi scarni tratti tutta l’essenza della sua vita.
***
Ivana Acciaioli: Mio padre. Mio padre giocava a carte.
Era bravo e misurato nel gioco.
Accigliato e concentrato giocava e anche se comparivo al suo fianco a mala pena si accorgeva di me, piegava la bocca sottile in un sorriso appena accennato ed era tutto.
Io che ero piccola non capivo perché la sera doveva lasciarci sempre per andare al bar; non capivo e mi attaccavo a lui abbracciandogli le gambe per trattenerlo, ma non ricordo di averlo convinto nemmeno una volta.
La mattina sul comodino trovavo sempre un chicco , ma quella dolcezza seppure dono raro a quei tempi, non mi compensava.
Frequentavo la prima elementare di pomeriggio, allora usava così, non so se per carenza di aule o perché era ritenuto l’orario migliore per i piccoli .
Mi accompagnava il babbo perché la mamma lavorava nelle ore pomeridiane.
Raggiungevamo la scuola in bicicletta, lui sulla sua nera da passeggio e io sulla mia di terza mano lo seguivo ruota contro ruota.
Poi lo trovavo ad attendermi all’uscita, ed era un bel momento.
Un giorno, però lui non era come il solito ad aspettarmi, allora mi misi fiduciosa in attesa vicino al mio piccolo mezzo a due ruote.
Le custodi si affaccendavano pulendo le aule ed ogni tanto mi guardavano, ma nessuno si preoccupava più di tanto, non esistevano cellulari e nemmeno telefono fisso.
Ero rimasta l’unica bambina fuori dalla scuola, un po’ triste all’inizio poi sempre più infuriata, era evidente che il babbo si era dimenticato di me.
Ad un certo punto presi la decisione, sarei tornata da sola e il babbo mi avrebbe sentito!
Dimenticarsi di me , lasciarmi ad aspettare tanto tempo!
Infilai il manico della cartella nel manubrio e partii, nessuno mi fermò, nessuno cercò di capire il dramma nel quale il mio piccolo essere si dibatteva,la cartella mi sbilanciava, avevo dovuto trovare una soluzione, avevo realizzato che nessuno si sarebbe curato di me se non io stessa.
Mi diressi verso casa con un po’ di timore ricordandomi le parole del babbo:
-Devi sempre stare a destra .
Per mia fortuna avevo abbastanza sale in zucca da sapere quale fosse la destra e ricordare la strada di casa, ma giunta a destinazione non trovai nessuno, il mio piccole essere fremeva di collera..ero stata dimenticata..abbandonata.
Realizzai che il babbo era sicuramente al bar a giocare a carte, solo la sua grande passione poteva averlo distratto da me, infatti era seduto al tavolino con altre tre persone e , super concentrato con le carte in mano, girò appena la testa verso di me, mentre le sue dita continuarono scorrere le carte.
-Ma babbo non sei venuto a prendermi!Sono tornata in bicicletta da sola!
-Brava! Da ora in poi lo farai ogni giorno.
Odiai lui e le carte.
Perché dovevo crescere così in fretta?
***
Gabriella Crisafulli: Un amico. Eccolo pronto per la partita a briscola. Quanti prosciutti e salami vinti nei tornei di carte delle varie Case del Popolo! Vi ci sfamavate, tu e la Paola. Gli occhi di un azzurro trasparente, magnetici, balenavano di un sorriso monello mentre la voce tuonava. È stato un incontro fulminante che ci ha trascinati in avventure estreme. Come quando a Saint Floran, sotto una tempesta notturna con diluvio, mentre il vento portava via la tenda, la piccola chiese “Papà, affondiamo?” Finimmo tutti insieme nella sua canadese che resisteva alle intemperie.
***
Lorenza: Il poeta solitario. Quando ho visto la lontano la persona fotografata ho pensato che quell’immagine avrebbe potuto essere quella di un poeta.
Il volto dai tratti scolpiti, come tagliati con l’accetta, scavati dalla sofferta ricerca delle parole adatte ad esprimere pensieri e profonde riflessioni che riguardavano il sé o il mondo intero. I capelli radi sulla fronte come se la mano a forza di passare e ripassare li avessi tolti uno a uno lasciando i versi che cercava con ansia mai sopita.
Invece guardando meglio da vicino ho visto che tra le mani teneva delle carte da gioco. La bocca era aperta e sdegnosa, il cipiglio alzato. Allora mi è stato chiaro che era un giocatore, impegnato a vincere una partita che sembrava persa a causa delle carta giusta che non entrava o della mossa sbagliata del compagno di gioco. Ebbè certe volte è meglio non vedere da vicino le persone. E comunque a un giocatore incazzato io preferisco il poeta solitario seppure spelacchiato.
***
Roberta Morandi: LUI. La vita a volte è dura, non crudele, ma dura: una vita che ti scolpisce il viso e non ti toglie più quella espressione. Quella ruga lì che scende dall’angolo destro del labbro superiore, e dice quanto la tua sofferenza passata ha inciso anche il tuo cuore.
Una ruga che ancora (help) sorride e quando lo fa riempie il cuore di aspettative…
Asciutto e severo nel tuo vestito della festa, del mio matrimonio, sembri un vero signore, elegante e austero quale sei sempre stato.
Lo stesso vestito di quel giorno radioso, con quella tua ruga che a tratti sorrideva, bagnata di una lacrima felice, quel vestito ancora nuovo lo hai indossato per l’ultima volta solo un anno dopo. Lo stesso abito, la stessa ruga, ora immobile ad abbozzare un finto sorriso, non tuo: ti hanno ricomposto togliendo la sofferenza dell’infarto.
Avevi 60 anni, solo 35 anni prima, in un altro abito, con al collo il fazzoletto rosso della brigata Sinigallia, e la tua solita espressione con quella ruga che non sapeva che direzione prendere, quando trovandoti davanti i tedeschi hai deciso di buttarti lungo i balzi del Lonchio e ti sei salvato. Poi sono nata io…poi ancora tuo nipote e te ne sei andato in silenzio, serio e composto, lasciando un mondo in sospeso: domande, attese, risposte che altri hanno elaborato per te. Tutte quelle storie che ……..prima ero troppo piccola, poi troppo presa dai giochi e poi dagli amori, dagli studi, dal lavoro…e ora è troppo tardi.
Quante domande ora farei a quella ruga lì che un po’ ride e un po’ no, che mi dice di stare attenta a salire sugli alberi, di non aver paura a prendere in mano le cavallette e le lucertole, di guardare sempre avanti, verso sud ovest dove il cielo si tinge di rosso e il vento ti fa strada.
***
Tina Conti: Seduto al circolo – Mi sarebbe piaciuto tanto e ancor oggi credo di cercare il posto dove ritrovarsi senza tante formalità e strutture, parlare, ascoltare, confrontare pensieri e banalità, ritrovare spensieratezza e gioco
Appena sposata e lasciato il mio “il posto delle fragole ” (e Dio sa quanto ho cercato casa nelle vicinanze), dove io, la “contessina” (e non per alterigia ma per il mio cognome), imparavo a ricamare e da dove osservavo il mondo, crescevo e apprezzavo le persone. E avevo un tempo leggero.
Fu quella donnina piccola e gentile che in estate arrivava con la sua seggiola e con tutti quei fili colorati a insegnarmi. Il Punto Palestrina, poi gli sfilati, mi regalava i colori e l’allegria, la voglia di imparare e muovere le mani. Per le donne quello era il nostro tempo magico:
Si ritrovavano in primavera e in estate sotto i platani, vicino al pallaio dove gli uomini facevano sentire il rumore delle bocce e i commenti alle giocate, senza un appuntamento, a piacere. Oggi c’era l’Elvira, la Marisa, mancava la Clara, era dalla suocera, la mia mamma veniva poco , e io preferivo così perché ero curiosa di capire le altre donne, i loro discorsi, le loro storie e i segreti della vita.
Quasi tutte lavoravano con le mani, con il caldo estivo ci si ritrovava anche a frescheggiare. Si diceva “a veglia”, dopocena.
Dopo non ho trovato molto; ho dovuto continuare con caparbietà a cercare.
Dalla strada anonima dove sono andata ad abitare dove tutti stavano nel proprio giardino, alla casa nella nuova zona urbanizzata, dove i progettisti non avevano creato un posto che aiutasse la donne a socializzare, fino a oggi dove ho il posto delle fragole diffuso. Non è lo stesso ma quasi, e io mi ci ritrovo.
Gli uomini invece trovano più occasioni per incontrarsi.
Nella foto, Gustavo vive intensamente il suo tempo fuori casa, il circolo, le carte, ogni giorno con qualunque tempo. Gustavo esprime nel suo volto concentrazione, impegno.
Ha scolpito nei tratti la fatica della vita, ma ora il tempo è suo, gode nel giocare una carta vincente.
Quando avrai l’età giusta…
Per ogni cosa la sua età!
Fino ad una certa età.
Non si addice alla tua età!
Ogni età ha la sua bellezza.
Arrivare ad una certa età.
La saggezza e la forza non hanno età.
Una lotta persa quella contro l’età.
L’età è strana: non arriva mai quella giusta.
Quando son di sopra, fra le mie stoffe, o immersa nei miei scritti, nei miei pensieri.. uno solo ad un certo punto sovrasta.. “ Ohioi via mi tocca tornà giù.. c’ho da accende la stufa e andà a piglià la legna..”
Che bello , penso sempre, trovare tutto pronto, sistemato, caldo..
In questi momenti nonna torna prepotente ( quando mai non torna).. e mi sembra di risentirla che intramena di sotto, canticchiando sottovoce, mentre io nel letto, al caldo sotto le coperte aspetto ancora un po’ ad alzarmi. Poi giù trovo il fuoco acceso, il latte che bolle sul fornello a carbone, le scarpe pronte che si scaldano infilate sugli alari, anzi lei spesso, quando fa le gelate che si trizza anche in casa, prende le molle e raccatta dei pezzi di brace, li infila dentro le scarpe, e mentre io mi sbarazzo in un lampo del pappone zuppato che lei ha preparato per me come colazione, scuotendo le calzature come se il fuoco dentro, fosse un sasso in un barattolo, me le riscalda e me le porge, per farmi avere i piedi bollenti, nel mio avventurarmi dentro il freddoloso inverno verso la scuola.
Con la brace si fa tutto, si accende il fornello, si mette nei caldani, nel braciere.. nonno, con lo stesso gesto di nonna, ne prende un pezzo sempre con le molle e si accende la pipa.. ho visto anche a volte raccattarne dei pezzi con le mani a quei vecchi, di quei carboni, senza bruciarsi, come fossero immuni in modo arcano alle fiamme.
Si presta anche il fuoco.. a volte vengono i vicini.. “ Mi date un po’ di brace Giulia.. così un’ammattisco..”.. e si dà in un coccio di sasso una parte del carbone incandescente che passa nelle mani della vicina e quindi finisce nella vicina casa… e inizia una nuova vita da fuoco in un altro focolare.
Stessa cosa quando rientro dalla scuola.. so che troverò caldo e la tavola pronta, anche se un pezzetto, tanto siamo me e lei.. il braciere sotto la tavola .. il gatto sulla seggiola.. un mangiarino che finisce di sfrigolare sempre sul fornello a carbone, in un tegamino che lei porta in tavola, mentre si siede a fianco a me.. gli stessi posti.. lei a capo, io nel mezzo.. sotto il braciere coi nostri piedi insieme sopra.. ce lo litighiamo come bambine quel calducciolino fra le gambe, mentre si mangia tranquille, perchè è questo il bello di sapere che c’è qualcuno per te.. la tranquillità, la serenità che comporta la presenza costante di qualcuno che ti ama, e che tu sai che sarà sempre presente.. non c’è bisogno che te lo dica, lo sai dentro, e dentro di te rimangono queste attenzioni, che poi crescendo restano e formano le basi di te stessa che, anche se non te ne accorgi… ti porterai dietro.
Non volevo guardare, questo me lo ricordo bene. Lei era lì lo specchio tragico di quello che era successo …..me lo disse piano …feci finta di non capire, le chiesi con lo sguardo di ridirmelo più forte .
Mi alzai ed andai di là: casa nostra era immensa e non usavamo dire la camera, la cucina, il bagno ….il salotto…..c’ era un di qua ed un di là, uno un po’ più freddo e un altro un po’ più rumoroso.
E nel mio “di là” c’era la camera del babbo….cioè la mia, la nostra.
Salii sullo sgabello, quello che la mamma , con la sua aria da signora chiamava “piccola dormeuse”, ero alta, non grande….coprii lo specchio, con il cencio che la nonna portava sul capo alla messa, si chiamava così quel pezzo di pizzo nero, che lei portava in chiesa.
Mi inginocchiai, ma più per il dolore, che per pregare…poi mi alzai di scatto e con tutta la forza che avevo lanciai contro lo specchio oscurato quello spruzzaprofumo di cristallo, con la nappa verde, color salvia poco annaffiata.
Ci fu un rumore sordo, cattivo, non so se si ruppe lo specchio, la toilette o la preziosa bottiglia.
Ricordo il rumore come di biglie di acciaio impazzite, che mi spaccò il cuore….poi fu buio, poi giorno, e di nuovo specchio, cristallo, biglie, silenzio, morte.
Ma poi, il babbo,…… dove era andato e perché …..?
Correvo in un prato, in una notte di luna piena…a piedi scalzi, il rumore dell’erba bagnata e grassa.
Due colori distinti il verde scuro dell’erba e il blu scuro, ma iridescente del cielo…………e in fondo, sulla linea dell’orizzonte, un pozzo che sembrava di pietra.
Mi avvicino a quello che da lontano non sembrava così grande. Gli giro intorno e intanto il mio sguardo va al cielo, dove una palla luminosa la fa da padrona.
Ne prendo le misure, vorrei spostare il pozzo tanto da centrare quella palla così perfetta e distinta.
Mi arrampico con fatica, non sono mai stata così brava a salire sui muretti!!!
Ma il mio sguardo cerca sempre la signora luna.
Una volta salita, mi metto in sicurezza, sorreggendomi ad un’asta di ferro, dove una vecchia carrucola arrugginita tentenna lentamente, lasciando scivolare un pezzo di fune marcia.
Adesso sono ben seduta, aggrappata e guardo il fondo del pozzo.
Che bello, la palla luminosa è laggiù, immobile, meno brillante quasi invecchiata, prigioniera, non più perfetta, come quella che è in cielo.
Adesso, sono io che mi specchio…ora nel pozzo siamo in due, io e la luna, ma io chi sono quella in cielo o quella nel pozzo?
Ancora una volta la solita maschera.
Per fortuna al mattino mancano gli occhiali.
Qui c’è la rete.
Sono in ombra.
La luce riflette alle spalle e mi cela.
Controllare l’ora ogni mattina.
Controllare il calendario.
Controllare la posta.
Controllare il telefono.
Controllare le date di scadenza.
Controllare il conto.
Controllare i capelli.
Controllare l’abito.
Controllare il fuoco ché solo possa scaldare e consolare.
Controllare il respiro per restare vivi e non morire in un attimo.
Controllare la voce per parlarti ogni giorno.
Controllare lo sguardo, il mio sguardo che su di te si posa.
Controllare le tue parole per capirti sempre e sapere dove sei.
Controllare le orecchie che ti vogliono ascoltare tutti i giorni un po’ di più.
Controllare il cielo grigio, bianco, azzurro e rosso al tramonto.
Controllare senza controllo
e alla fine perdersi ad occhi chiusi nell’intorno
Giocavamo con poco. A volte ci bastava una scatola, delle matite, qualche nastro, un po’ di carta, delle forbici e tanta fantasia. Una mattina mia sorella Tilla andò all’Ufficio Postale con la mamma e restò fulminata nel vedere il centralino telefonico dove diverse signorine, con una cuffia in testa, introducevano una sorta di bastoncino, con un lungo filo attaccato all’estremità, in un pannello pieno di buchi e con grande dimestichezza riuscivano a introdurli o a estrarli parlando velocemente nello stesso tempo: “ Venezia, ti includi ? “ “Torino no sto già parlando grazie” e così via.
Tornata a casa, Tilla non perse tempo. Ci chiamò a raccolta dandoci vari incarichi per procurarci scatola, matite, fili e forbici con le quali passammo tutto il pomeriggio ad allestire l’Ufficio Postale. Preparammo francobolli, buste e lettere, telegrammi e poi ognuna di noi aveva un compito. Tilla ovviamente era al centralino, l’altra sorella, Gianna, era allo sportello ed io facevo il fattorino che portava i telegrammi. Ci divertivamo molto e la mamma adorava ascoltarci perché eravamo molto buffe inventando tutto di sana pianta. Un pomeriggio però sentì piangere disperatamente per cui si precipitò di corsa nella stanza e trovò tutte e tre in lacrime. Molto preoccupata e non capendo il perché di questa tragedia iniziò a farci domande e fra le lacrime e dopo varie domande riuscì a capire che io, il fattorino, avevo ricevuto un telegramma che annunciava la morte di mia cognata !!!
Eravamo tanto prese dal nostro gioco che avevamo perso il senso della realtà.

(…) Un libro ci segna, ci accompagna, ci rappresenta, mentre ci rapisce e ci porta lontano. Scandisce fasi della vita. Cosi’ tanto che non riesco a leggere di nuovo lo stesso libro. So che dovrei, so che leggendo in momenti diversi potrei cogliere cose diverse perche’ il mio filtro sarebbe diverso, oppure no e potrei , rileggendo verificare anche questo. Diversa da mia mamma in questo, che ha letto , ma pure riletto, tantissimo.
Le mie riletture si contano sulle dita di una sola mano. E uno dei libri l’ho riletto appena dopo 15 giorni. Perche’ non riuscivo a capacitarmi che la conclusione a cui l’autore voleva portarmi fosse proprio quella a cui in realta’ mi portava.
Ci ho provato piu’ volte con Delitto e castigo, ma no, non e’ piu’ nelle corde. Non scorre. Non riesco piu’ a logorarmi dentro quelle introspezioni e a quella oscurita’ dell’animo che destabilizza.
Tutto scorre, qualcuno ha sentenziato, quasi all’inizio della storia dell’umanita’ pensante. E scorre anche per il lettore. Si cambia, il mondo attorno propone nuovi stimoli e spunti, nuove sfide e nuovi problemi. Alcune ti costringono pure a cambiare generi. Fino a mattoni economici, che mai avrei pensato di affrontare. O i saggi su temi epocali che sono in grado di sconvolgere le nostre vite. Libri non piu’ per perdere la realtà ma per entrarci ancor più dentro, anche soffrendo. Perche’ sapere e conoscere e’ anche aprire la porta a cio’ che preoccupa e fa star male. I libri sono tutto e parlano di tutto. Sono vita nella vita!