Io non ho paura

Io non ho paura – di Gabriella Crisafulli

Era una di quelle albe brumose che fanno rimpiangere di essersi alzati. Ma  era una ragazza tutta di un pezzo. Aveva deciso di andare a messa e doveva farlo a quell’ora perché dopo la zia andava al lavoro e toccava a lei prendersi cura dei bambini.

Fuori dal palazzo le strade erano deserte. I grattacieli di quella periferia svettavano uno accanto all’altro nel silenzio assoluto. Sentì un brivido di freddo. Guardò per bene l’edificio da cui era uscita e se lo impresse nella memoria. Che fortuna! La parrocchia era vicina e aveva in calendario la prima funzione di prima mattina. Così lei poteva garantirsi, malgrado il suo impegno a Milano, la sequenza continua dell’eucarestia nei primi venerdì del mese, cosa che le avrebbe garantito la salvezza eterna.

Accelerò il passo per la preoccupazione di trovarsi in un posto sconosciuto. Riuscì a scaldarsi un pochino e resistette al ghiaccio della chiesa.

Tornando a casa era felice: operazione riuscita in perfetto orario.

Dentro all’androne cominciò a scongelare e all’uscita dall’ascensore, all’undicesimo piano, era pronta per badare ai suoi cugini.

Quando suonò il campanello le venne ad aprire una donna sconosciuta che la guardò con sospetto: che ci faceva quella ragazzina davanti al suo uscio a quell’ora del mattino? E chiuse la porta.

Etta guardò la targa affissa accanto all’ingresso dell’appartamento, ma effettivamente non c’era scritto il nome dei suoi zii.

Pensò di aver sbagliato piano. Salì a quello di sopra, scese a quello di sotto. Se li fece tutti. Niente: spariti. Dissolti nel nulla. E lei con loro.

Uscì per strada, esaminò con attenzione la pulsantiera alla ricerca del cognome: ma Cosenza non era scritto da nessuna parte.

Ripercorse il tragitto fatto e di nuovo le sue gambe la portarono in quel luogo. Si stava facendo tardi: la paura le cresceva dentro. Si vedeva in un film di terrore.

Percorse le scale del grattacielo a destra e poi di quello a sinistra.

Nulla.

Si disse “io sono qui, sto pensando, non sono matta, non credo ai fantasmi, devo solo trovare dove andare.”

“Io non ho paura. Lo sanno in tutta Italia. Lo ripetono sempre i miei genitori. Mai avuta, fin da piccola. Non ho mai pianto di paura: non era possibile”

– Etta è una bambina coraggiosa – dicevano.

Erano sette i palazzoni identici uno accanto all’altro.

Se li fece tutti.

E all’undicesimo piano di uno di questi, alla porta giusta, la zia l’accolse col suo sorriso bonario.

Mentre si toglieva la giacca, le venne accanto la piccola Daniela. Senza una parola le si strofinò vicino per farle festa, piano piano, timida e riservata come sempre.

Il diavolo

Il diavolo – di Gabriella Crisafulli

Le piaceva molto quella casa. Dopo che la sua famiglia di quattro persone aveva vissuto  nell’alloggio militare (due stanze senza bagno), finalmente avevano trovato posto in un appartamento vero: cucina, tinello, soggiorno, due camere e un corridoio a elle che dalla porta d’ingresso portava al bagno.

Erano stanze luminose, assolate, accoglienti.

Dal balcone più grande ci si affacciava sulla collina del Baradello tagliata a mezza costa dalla Napoleona.

Dalla parte opposta si apriva la visuale del cortile di accesso alla palazzina.

C’era persino una grande vasca da bagno che serviva anche per il bucato. Etta aveva il compito di passare il sapone in pezzi sui fazzoletti a mollo e di strofinarli fino a togliere il muco: era molto orgogliosa che la mamma avesse bisogno di lei e si impegnava con tutte le sue forze quando teneva le lenzuola da un capo perché lei potesse strizzarle torcendole dalla parte opposta.

Non c’era riscaldamento centrale ma due stufe, quella economica in cucina e una di ferro, adiacente alle camere, nel punto in cui il corridoio si piegava a gomito.

All’inizio della bella stagione quella nel corridoio veniva dipinta con una vernice d’argento che la faceva risplendere.

All’arrivo del freddo, quando era accesa di nuovo, sprigionava un fumo denso ed acre che impediva di respirare e faceva piangere.

Alimentata a carbone, si arroventava e diventava completamente rossa. Quel cilindro incandescente si stagliava nel buio della notte emanando bagliori di fuoco.

Etta aveva paura.

Ogni volta che andava in bagno si muoveva intorno a lei con circospezione scivolando lungo la parete opposta a quella dove si trovava.

Le sembrava il diavolo.

Come quello che aveva incontrato sul treno Milano – Palermo.

Nel silenzio della carrozza, mentre padre e madre dormivano, la guardava con due occhi che sembravano fanali.

Lui le faceva cenno di stare zitta.

Lei sentiva il suo corpo.

Rimase zitta.

Era paralizzata dalla paura.

In fondo la situazione in cui si trovava non le dispiaceva.

Aveva paura e un grande senso di colpa.   

Voltare pagina

La finestra sul cortile – di Gabriella Crisafulli

E all’improvviso il mondo si ferma di nuovo come allora.

La finestra è aperta su un agosto implacabile, l’aria è immobile, la temperatura cresce di ora in ora.

Siamo sole, io e te, bambina mia, mentre un martello pneumatico batte accanito sulle pietre.

Proseguirà fino a sera, così come ieri, così come domani, così come sempre, esclusa la domenica.

Ci sono da realizzare le nuove cucine e si approfitta dell’agosto per ultimare le opere prima che l’attività ricominci a pieno ritmo.

Devo scegliere: o si chiude la finestra e si muore dal caldo o la si lascia aperta e si impazzisce dal rumore.

Siamo sole, io e te, bambina mia.

Anzi, no.

Ogni giorno alle quattro del mattino arriva l’infermiera: mi mette in gola un sondino lungo un metro che terrò per alcune ore.

Poi c’è chi consegna il mangiare tre volte al giorno.

Alle 9 passa un medico.

Nient’altro.

Cinquant’anni fa non esisteva il telefono in camera né il televisore o la radio. Non era ancora tempo di cellulari.

Potevo leggere, scrivere, sognare: era meglio non farsi troppe domande. Ero spaventata. Però potevo lavorare a maglia.

Mi hanno anche proposto di abortire, ma quando me l’hanno detto tu ormai eri la mia piccina.

Siamo sole, io e te, bambina mia, sul basso continuo del martello pneumatico che si fermerà a mezzogiorno: a mezzogiorno gli operai mangiano.

Li vedo bagnare il pane con l’acqua e strofinare sopra il pomodoro. Qualcuno ha anche la cipolla di Acquaviva.

E si fermerà alle 18: alle 18 smettono di lavorare.

Proprio sole forse non siamo: vengono a trovarci quattro persone. Si tengono a debita distanza: siamo in isolamento.

La domenica arriva il tuo papà.

Non ci domandiamo se questa malattia danneggerà la tua salute, ma il pensiero è sempre lì.

Ti parliamo.

Ma gli altri giorni mentre altre mamme e altri bambini sono immersi in un universo sonoro di voci e musica, per te e per me c’è solo il martello pneumatico.

Dopo mesi di malattia, all’ennesimo rialzo termico, vacillo e penso seriamente che non ce la faremo: il medico ride della mia paura.

Non riesco a difendere la mia bambina a cui arrivano tutte le medicine che mi intossicano.

Me ne sto lì, immersa nel vuoto.

Ormai la fede scivola via dall’anulare e la sposto al medio.

In quei giorni gli astronauti sono scesi sulla luna, ma te ed io non possiamo andar via di lì.

Poi sei nata.

Ti ho esaminata centimetro per centimetro: eri bella, eri dolce, eri soffice, eri sana.

Ho tirato un sospiro di sollievo.

Ho aperto le porte ad una incontenibile felicità.

Avevo tanto latte e tu ne prendevi a volontà.

Ho voltato pagina.

Ho pensato che tutto quello che avevamo passato sarebbe stato cancellato per sempre dalle nostre vite.

Un giorno ricorderemo

Un giorno ricorderemo questo periodo e magari faremo fatica a credere che sia davvero esistito.

Un giorno.

Per il momento lo stiamo vivendo. Ci stiamo organizzando come meglio si può.

La “Matita per scrivere il cielo” ha deciso di essere prudente, rispettosa delle indicazioni che coinvolgono tutti noi, ma vuole anche continuare a esserci. Continueremo a mandare “scintille” come dice Chiara, a mandare segni di unità e speranza.

Per questo i nostri incontri cambieranno modalità. Useremo video e messaggi online.

Noi Matite ci siamo, ma in modo assennato, prudente e responsabile.

Buon cammino in salita a tutti!

Instantanea di un giorno di paura

PAURA – di Sandra Conticini

Le giornate passano lente e solo brutte notizie, meglio non ascoltare tutti i telegiornali, servono solo a mettere ansia.

Anche i messaggi che arrivano sono negativi. Tutte le attività sono sospese e quelle non sospese eviti di farle perchè per la testa hai sempre quel virus dal nome regale, ma meglio evitarlo!!! Vado per i campi, aria pura, cielo azzurro, prati pieni di fiori dal giallo al bianco al viola, ne colgo qualcuno così porto a casa un po’ di colore  in queste giornate grigie e tristi.

Ora mi sono un po’ scaricata  ma, ritornando per le strade del quartiere, mi  si riaccende la tristezza, non vedo più le coppie di persone anziane a prendere il sole sulle panchine. Persone che prima stavano per ore sul marciapiede a conversare ora dicono un semplice “Buongiorno” e sembrano  scappare per paura che l’altro sia l’untore.  Gli unici sono i nonni che, visto le scuole chiuse all’improvviso, portano i nipotini ai giardini, qualcuno con molta difficoltà e non si capisce se sia il nonno che porta fuori il bambino o il bambino che porta fuori il nonno. Si lamentano dei loro dolori e dei vari acciacchi, ma gli occhi brillano perchè si sentono utili e nei loro cuori entra una ventata di allegria.

Torno a casa mi inventerò anche il pomeriggio, cucinare qualcosa, leggere,

scrivere in questo momento mi riesce poco, ma ci proverò, fare qualche lavoretto, insomma tenere il cervello occupato perchè per ora più che la paura mi è preso l’avvilimento per l’impotenza che il mondo ha  davanti a quests mlattia sconosciuta.

Passerà, certo che passerà e spero molto presto! 

Isolamento

Quella volta che fui io l'”untore” – di Stefania Bonanni

Mi è  venuto in mente solo oggi, e questo è  davvero strano. Fu un momento  difficile della mia adolescenza,  strano sia scivolato giù in fondo, tra i ricordi poco importanti.

 Fu quando fui io l’untore.

Mi ammalai, ed il paese tremo’. Un paese di mezzo secolo fa, popolato da persone ingenue, niente a che  vedere con gli specialisti di oggi. Dopo che andai in ospedale, mi raccontarono di chi si avvicinava a casa mia per chiedere notizie,  e avvolgeva nel fazzoletto o nel grembiule, il dito con il quale  intendeva suonare il campanello.  E chiacchiere, chiacchiere. ..Ero grave, chissà. .

Io non avevo mai dormito fuori casa. Avevo quindici anni. Era la fine della prima superiore. Estate, all’inizio.  Mi porto’ il mio babbo tra le braccia, a  Villa Monnatessa, reparto malattie  infettive, isolamento strettissimo.  Vedevo i miei genitori dietro alla porta a vetri che non serviva per passare,  non si apriva mai. Mi raccontavano quello che succedeva in paese,  la paura che circolava,  la gente che andava a farsi analisi. All’inizio stavo male, ricordo flebo e punture. Appena mi sentii meglio tentai di ribellarmi.  Avevo sempre fatto grandi sceneggiate,  ogni volta che la mamma o anche il dottore di famiglia intendevano bucarmi il sedere, scappavo, strillavo, a volte esasperati avevano lasciato perdere. In ospedale, e questo lo ricordo come se fosse ieri,  un infermiere grosso come un armadio mi acchiappo ‘ al volo e disse tra i denti, e quello fu davvero spaventoso,  che non avevo scampo, potevo anche scappare,  mi avrebbe sempre ripreso. E lasciai mi bucassero. Poi, dopo giorni di sole flebo,  intendevano darmi i pasti dell’ospedale,  non poteva entrare cibo da fuori. Allora si, che feci storie…non mangiavo a casa mia,  figuriamoci. ..digiunai, feci la dura per qualche giorno. Poi una virago più larga che lunga mi spiegò che non sarei guarita, mi dimostrò che non mi reggevo in piedi. Da lì in poi decisi di essere diventata grande. Ero sola, dentro uno stanzone con soffitti a volta altissimi,  dove rimbombavano le parole e rimbalzavano gli sfrigolii dei carrelli degli infermieri. Poi, nulla. Ore e ore, e giorni, settimane, nulla. Facevo parole crociate e leggevo. Quaranta giorni. Avevo l’epatite virale. Non ricordo di aver avuto paura, né  dell’ospedale, né  della malattia. Non era coraggio, semplicemente c’era chi si preoccupava per me, mi guardava dal vetro con occhi teneri, e mi fidavo.

Un pensiero però mi turbava moltissimo. Era stato spiegato ai compaesani che solo chi avesse avuto con me contatti stretti con scambi di secrezioni, era a rischio. “Nessuno”, dissero i miei genitori “figuriamoci, ha quindici anni!” E invece c’era chi era in pericolo.  E allora? L’avesse saputo il babbo, l’epatite virale sarebbe sembrata una passeggiata di salute, al confronto.  Non potevo chiedere,  Non sapevo cosa succedeva fuori. Un giorno dietro la porta a vetri c’era anche mia sorella. Le passai sotto la porta un bigliettino che avevo scritto in forma molto criptica, dove chiedevo mi rispondessero per scritto tutti i nostri amici, tutti…con i saluti, ed un pensiero per me. Giorni dopo il biglietto arrivò,  con le frasi di tutti, scherzose come sempre.  Accanto ad un certo nome c’era scritto: tutto bene, fosse necessario piglierei anche il colera. .Mi rasserenai, e da lì in poi feci solo pensieri romantici.

Parole per un girotondo

Un bel girotondo – di Laura Galgani

(…) Le parole che vorrei mettere in circolazione, per farle risuonare prima intorno a me, e poi, come in un gioco del domino a pedine invisibili, fino in Nuova Zelanda, per vederle tornare indietro, ancora più cariche di significato sono: rispetto, per ogni creatura esistente, fino ai fiori, alle piante, alle pietre. Pazienza, da esercitare ogni giorno, con sé stessi, con gli altri, con la Natura. Prendersi cura, di qualsiasi espressione della vita. Contemplare, perché la bellezza, se vogliamo, è a portata di mano, di sguardo, di tocco. Silenzio, ché la parola può essere tagliente, o di fuoco, e distruttiva. Umiltà, perché siamo fragili, e piccoli, e soli, e impauriti, e abbiamo davvero tanto, tanto bisogno, l’uno dell’altro.

Un anno fa

Il miraggio della normalità – di Cecilia Trinci

Chi l’avrebbe detto un anno fa!

Un anno fa andavamo a piedi per le vie secondarie dell’Antella, si cercavano fiori, si chiacchierava, si ascoltavano racconti e storie. Erano giornate calde, con tanto sole e non eravamo mai sazi di piacevolezze.

Un anno fa eravamo stati alla Chiesa di S.Quirico a Ruballa, si scoprivano tesori artistici, artigianato di qualità, il museo del legno. Tutto a pochi passi dalla piazza di Antella. Camminando facevamo progetti per le passeggiate seguenti.

Ci sentivamo normali. Eravamo normali.

Quanto mi pare lontana e preziosa oggi quella normalità. Quel sedersi sul muretto della chiesa, guardare l’infinito dietro le nuvole di Antella e sentirsi in pace, appagati. Le voci indisciplinate nella chiesa, le foto e le telefonate al cellulare, i pettegolezzi fuori campo, la fila per toccare gli armesi per il legno. E poi quel salutarsi, promettendosi una merenda in allegria su quel sagrato potente, ai primi caldi della primavera.

Quanto vorrei, oggi, tornare lì e guardare l’infinito dietro le nuvole di Antella e sentirvi parlare e ridere e scherzare, quanto vorrei scendere da lassù con la notte invernale che incombe e i piedi leggermente stanchi affrettati dentro le scarpe e il cuore pieno di vento e di parole.

Le “Parole del Piccolo Mondo” – M.L.

Gli autori di questa sezione hanno collaborato al progetto di scrittura creativa “La Matita per scrivere il cielo” come ospiti esterni, regalandoci immagini e ricordi di quello che loro stessi hanno definito “Il Piccolo Mondo”, cioè il mondo antico della vita quotidiana, che risalta vivida e appassionata.

La musica  della speranza –  di M.L.

C’è sempre stato il mare nella mia vita e la musica.

Sono di La Spezia, lì andavo a scuola……ma  non c’era l’Università; per frequentarla dovevo andare a Genova tutti i giorni e prendevo il treno. Vedevo il mare per tutto il viaggio.

Studiavo, leggevo, in treno. Dopo i primi viaggi di curiosità sul paesaggio poi prendevo quel tempo come solo mio per leggere tanto…..vedevo quel tempo in treno come spazio di conoscenza. Ma per tutto quel periodo  vedevo sempre il mare.

Il mare lo associo al  porto di La Spezia. E’ un rumore di lavoro. Bellissimo da visitare quando fanno andare (perché non sempre è possibile accedere  al porto) e si può vedere come lavorano. Bello per chi ama l’avventura. Il lavoro è importante per una città modesta come La Spezia. Il porto è un rumore di speranza. E’ la vita di quella città. La vita di quella città è basata sul porto e su quel rumore. Il lavoro sul mare. La vita economica è quella. Consola quel  rumore di lavoro.  

Il silenzio lo associo al buio alla guerra,  a qualcosa che non si esprime, non vuole apparire, un vuoto che non vuole essere vicino agli altri, partecipare. E’ qualcosa che si chiude, si nasconde, è terribile. Il buio è impossibilità di comunicare. E’ Il tempo di guerra quando   voleva dire morte.

Avevo dieci anni durante la guerra, poi la guerra è durata e quindi avevo anche  più di dieci anni. Era invisibile la guerra ma la sentivo vicina anche per quello che non c’era, che era latente.

Posso associare questo ricordo di bambina al timore di non riuscire a capire cosa c’era in quel buio. La paura di non essere capace di decifrare cosa mi stava intorno.

Poi la vita è passata, sono successe tante cose, ma sono rimasta sempre così, innamorata del mare e della musica, sono una persona che ascolta con piacere, anche le vite degli altri.

Paura e basta

Paura – di Gabriella Crisafulli

Scivola, scivola, scivola

giù giù

fino al fondo

più fondo

dell’abisso

il timore che si fa paura

Avrà il dominio

sullo sciame sismico

di gorghi notturni

mentre risuonano

i terrori

nascosti

Avrà il dominio

sul mare

sul vento

nel freddo delle onde

tra mille maledizioni

di guizzi improvvisi

Paura paura quasi terrore

Paura – di Roberta Morandi


Camminavo con la mezzina  in mano che quasi toccava terra, tanto era sproporzionata rispetto alla mia altezza. Avrò avuto sette anni o poco più, sì perché mia sorella era già nata ed ero io che dovevo occuparmi di andare a prendere l’acqua buona al pozzo dei Tortoli.
Dovevo fare la salita, oltre l’ultima casa stonacata, poi solo campi e un viottolo, il piccolo cancello di ferro arrugginito che cigolava sui cardini secchi, ed ero arrivata al giardino col pozzo dove avevo il permesso di attingere l’acqua.
Era una serata fresca di fine estate, indossavo un vestitino a fiori, infilato in vita e con le maniche corte, fatto dalle sapienti mani della Luciana, non era ancora buio, ma neppure era giorno, era quell’ora in cui le ombre si allungano e sembrano prolungare il cammino, quell’ora in cui aspetti il momento del buio che arriva in un attimo.
Avevo cincischiato a lungo prima di andare, la mia mamma aveva dovuto ripetermelo più volte “vai  che poi non ci vedi”, ma io quel giorno non avevo voglia di andare a prendere l’acqua al pozzo, poi avevo dovuto  e mi ero incamminata.
Quella sera c’era una luna piena bellissima e grandissima davanti a me, illuminava tutto è mi ripetevo che anche se fra poco avrebbe fatto buio, ci avrei visto benissimo. Camminavo e fantasticavo su quella luna così grande rispetto alla collina di Montisoni che si intravedeva ancora, quando si affaccia alla finestra della casa stonacata una ragazzina poco piu grande di me con cui a volte giocavo, ma spesso mi prendeva in giro chiamandomi maschiaccio per la mia abitudine di stare in pantaloncini corti e giocare coi maschi a fionda o cerbottana. 
Mi sento chiamare e poi ridere – dove vai con quella mezzina? Non vedi che fa buio tra poco?-  Io che ero una bambina educata anche se giocavo coi maschi, le rispondo che stavo andando al pozzo dei Tortoli a prendere l’acqua.
– Ma lo sai che lassù, la vedi quella lucina?, ci sta una vecchietta  che scende in paese quando c’è la luna piena e viene a prendere i ragazzini soli?
Quelle parole con quella luna  in quella penombra, mi si stamparono nella mente e  in un attimo quelle ombre allungate e quella finestrella illuminata sulla collina di Montisoni presero la forma delle mie paure più profonde e nere. Rimasi lì impietrita, incapace di avanzare o arretrare, con la mia mezzina vuota stretta nella mano. Una lacrima cominciò a scendere lenta fino all’angolo della bocca, mentre la ragazzina dalla finestra rideva – fifona, fifona, sei solo una fifona –
Aveva ragione. La paura si era impossessata di me e non mi permetteva alcun movimento, solo le lacrime potevano uscire liberamente, bagnando il viso e il vestitino a fiori. Non singhiozzavo, ero immobile, pietrificata.
La paura, quella paura era diventata terrore.
Oggi, da grande, ho imparato a ironizzare sulle parole della paura per non farle diventare terrore.

Due parole: paura e fiducia

Paura e fiducia – di Chiara Bonechi

Quando arriva il primo freddo ho paura che il gelo della notte rovini le mie piante, in particolare temo per il mantofilo e per l’ azalea, mi precipito a coprire i due grossi vasi con i cappucci di carta stoffa sperando di proteggerli.

A primavera, scoprendoli, trovo le piante un po’ abbattute ma pronte a tornare vigorose.

In questo momento difficile dominato dal virus che si sta diffondendo, ho paura per l’impotenza che noi umani abbiamo verso l’imponderabile.

La paura che sento non degenera in panico, è lieve, il giusto sentire che mi impone di fare attenzione perché i contagi si riducano.

Attenzione dovuta a me e agli altri, una necessaria copertura come i cappucci per le mie piante.

Non sono sicura che le cautele igieniche e qualche restrizione alla nostra libertà di agire ci protegga  da questa brutta malattia ma so anche che di più non possiamo.

Limitare le scelte, gli incontri, i movimenti è faticoso, ci accorgiamo della nostra fragilità quando la quotidianità si interrompe ma lo sforzo è importante per contenere i danni e per il rispetto che dobbiamo alla vita.

E quando potremo spogliarci dalle restrizioni torneremo ad essere forti e pronti a ricominciare, io ho fiducia.

Le “Parole del Piccolo Mondo” – di Jolanda V.

Gli autori di questa sezione hanno collaborato al progetto di scrittura creativa “La Matita per scrivere il cielo” come ospiti esterni, regalandoci immagini e ricordi di quello che loro stessi hanno definito “Il Piccolo Mondo”, cioè il mondo antico della vita quotidiana, che risalta vivida e appassionata.

Il rosa del pepolino – di Jolanda Vignoli

Sono nata nel Casentino. Il mio paese era di montagna, c’era sempre la neve alta, il lume a petrolio, il foco per riscaldarsi, le mezzine per prendere l’acqua alle fontane. Si chiamava Cozzo, vicino a Montemignaio. Nevicava sempre tanto. Quando s’andava a scuola d’inverno ci dovevano spalare la strada.

Era un paese povero, qualcuno  lavorava nei campi o  alla macchia. Ma il lavoro non c’era: molti andavano in Sardegna.  Andavano a Grosseto, in Romagna, verso Roma, ….per tagliare la legna, ma anche per qualsiasi altro lavoro.

Stavano via 5 o sei mesi. Partivano con una cassettina di legno con un po’ di roba…mica si lavavano, mica si cambiavano tanto, quindi avevano bisogno di poche cose.

Andavano col treno merci a carbone e s’era tutti sporchi quando si scendeva per colpa di quel vapore….mettevano la paglia in terra sul vagone merci, ci si stava sopra come le bestie…

S’andava alla macchia anche noi bambini e non s’andava nemmeno a scuola se si stava lontano.

Andavano con la Sita o coi somari o coi ciuchi e andavano a prendere il treno a Porrena per prendere poi un altro treno per Arezzo. Anche per andare a Firenze si doveva fare un pezzo nel bosco con l’asino per andare alla Consuma. Allora i bambini si operavano tutti di tonsille. Si partiva per l’ospedale di Firenze con un ciuco carico. Per arrivare alla Consuma dove si prendeva la Sita per Firenze, bisognava alzarsi presto, passare  per i boschi anche se pioveva. Ci lasciavano un giorno ricoverati e poi il giorno dopo i familiari venivano a riprenderci alla Consuma coi ciuchi e poi ci portavano a casa.

Non c’erano strade.

La Sita ci faceva male perché c’era quel puzzo di benzina e ci faceva dare di stomaco.

Ho fatto tante volte questi viaggi: si pativa freddo, i vestiti addosso erano tutti di lana e pizzicavano, non ci si poteva stare nemmeno dentro, sembrava d’averci gli spini dentro la schiena

Io ho giocato poco, c’era da fare le cose in casa…..i giochi non c’erano….Al mio fratello gli  compravano il cavallino di cartapesta con le rotine …un genitore lasciava tutto al maschio, ma le donne non erano considerate….s’era anche gelose. Io ero gelosa del mi’ fratello. Un s’aveva nulla tutto ci pareva bello, le bambole si facevano con le spannocchie di granturco, si pettinavano…..si facevano con un mattone o un pezzo di legno, si vestivano… erano quelle le bambole. Ci mettevano un cencio o una sciarpa attorno a un pezzo di legno e ci bastava, si teneva abbracciata come una bambola vera. A Firenze c’era qualcosa, ma lassù un s’aveva nulla.

D’inverno andavo poco a scuola perché avevo sempre la sinusite mi sono operata a 18 anni , sono del 39….. quanto avrò patito…..sempre mal di testa….

Alla fiera ci compravano il croccante, l’anellino con la madonnina,….s’era felici di queste piccolissime cose . D’estate ci davano il pane con il cocomero, l’arancia col pane d’inverno…o bagnavano il pane e ci mettevano un po’ di zucchero se c’era. Nei campi si aveva tutti qualcosa….di fame non si moriva…si mangiava tante castagne …o c’era le mele, le more, le fragole….le patate…

Le balle di canapa, una volta usate, si ricamavano e si facevano le tovaglie. Le persone più anziane le ricamavano a punto a croce, filo erba, punto quadro….giornino.

Sfilavano la stoffa, facevano il giornino e poi  le frange e le mettevano sulle tavole come tovaglie. Io non lo facevo ma la mia mamma sì….Magari quando pioveva quando non potevano andare ne’ campi, non potevano fare il bucato facevano queste cose qui…rassettavano, facevano  ricami, lenzoli federe…..camiciole….calzettoni, golfi…. la calza….e con queste facevano le tovaglie non per mangiare ma per bellezza….Le balle le vendevano , ci mettevano le castagne, la zanza delle castagne, le patate, il grano…le utilizzavano per queste cose qui….vengo da Montemignaio….le castagne le seccavano nei seccatoi…..mettevano le assicine, con uno spazio sufficiente perché non cascassero  e a forza di foco le facevano seccare. Le mettevano poi nelle balle e le portavano a macinare. Poi tenevano anche i minuzzolini, per fare il foco durante l’inverno e anche questa zanza la mettevano nelle balle e via via d’inverno la bruciavano….

Ora ci sono tutti questi sacchettini che non son boni. Le balle invece le lavavano e le riponevano per l’anno dopo. Prima non si buttava via nulla.

Con la canapa facevano anche i lenzoli duri che non si bucavano nemmeno con l’ago. Facevano tutto da sé. La lana la filavano con il rocchetto e poi facevano i golfi, le camiciole, le calze…

La lana la filavano, la lavavano, la stendevano, l’aggomitolavano e poi ci facevano i golfi.

Prima era tanto freddo in Casentino ma i cappotti non si portavano. Ci si vestiva a strati e si avevano i geloni alle mani e gli zoccoli di legno con i calzettoni fatti a mano. Freddo non si aveva, ma si pativa una vita dura. Io avevo solo una sottanina e una volta che dovevo andare a Firenze la mamma la lavò la sera e la fece asciugare al foco durante la notte. Ci pativo perché ero ambiziosa. Dopo però, da adulta, non mi sono mai più fatta mancare i vestiti e le scarpe. Ho sempre speso per comprarmi quello che mi piaceva. Poco tempo fa, quando sono  tornata in Casentino e ho ritrovato una mia amica di allora gliel’ho detto: “Ti piace ora come mi vesto? Guardami bene!”

 La primavera veniva tardi e allora tutto si riempiva di fiori. I campi erano pieni.

Il pepolino si metteva nel minestrone: fa dei fiorellini piccolini ma con tanto profumo, delicato. E’ festoso  con  i suoi fiorellini rosa sulle prode dei campi! In primavera tutti i prati si coloravano del rosa del pepolino. Si raccoglieva da bambine, si facevano mazzolini che poi si mettevano sulla tavola, o nelle cappelline. Ce n’era tanti di fiori prima, viole, fiordalisi, papaveri. Quando si tornava da scuola o si usciva ai primi giorni di festa si raccoglievano questi mazzolini e si mettevano nei vasi alla madonnina. Si faceva la gara a chi li faceva più belli. A volte vincevo io a volte le mie amiche, si faceva da noi a dire chi vinceva. “Oggi tu hai vinto te, c’hai più colori, più fiori.” Noi si faceva sempre, ora non ci sono più tutti questi fiori. Si sono persi. C’erano tante belle campanine che sono sparite. Hanno bruciato ogni cosa..

Un sorriso nella paura

LA PAURA DI RINO – di Simone Bellini

Era una notte buia e tempestosa.

I lampi, muti, in lontananza, facevano presagire l’arrivo di una bufera.

La solitudine della casa in mezzo al bosco era il motivo per cui la famiglia Vampi l’aveva scelta. La quiete che vi regnava li allontanava dallo stress imperante della vita moderna.

Ma in quella notte irrequieta, gli ululati dei lupi incupivano i raggi di luna, oscurati da nubi minacciose portate dal vento che si rafforzava sempre piu’,facendo sbattere i contorti rami sui vetri della finestra, insieme ad una miriade di pipistrelli disorientati.

– ORA BASTA !!! – Gridò il giovane Rino, per niente spaventato – ANDATE VIA, stanotte voglio dormire !!! –

Tutto sembrò obbedirgli ; i pipistrelli si dileguarono, i lupi tacquero, il vento cessò, i rami smisero di battere sui vetri. Tornò il silenzio, mentre Rino chiuse le ante della finestra per maggior tranquillità.

– SVEGLIA SIGNORINO ! –

 La voce squillante della nuova governante, appena assunta, scosse il torpore dall’ agognato sonno, mentre ella si apprestava ad aprire le imposte della finestra.

– NOooo ! – Urlò il giovane terrorizzato, mentre il primo raggio di sole bruciò la sua mano protesa a difesa del corpo che in un attimo si decompose, riducendo in cenere la vita del giovane Vampi Rino

Paura dei limiti

Oggi – di Tina Conti

Si, l’orto, i fiori, i bambini, il piccolo mondo intorno

Tutto gira, si deve essere contenti

Ma cosa senti che vorresti?

Non solo la mente per spaziare,

Le gambe per correre,

L’infinito solo per la mente

Vorrei il coraggio di andare,

Oltre, senza limiti

Non è cosi, non lo sapevamo

Non volevamo riconoscere il limite

 Si c’è un limite. E nell’uomo e nella sua bellezza

La natura dell’uomo

Così grande, geniale, sorprendente 

Ha un limite.

Paura. Ma si può vincere!

PAURA ! – di Nadia Peruzzi

E’ l’occhio nero che ti segue e senti pesare dietro alle spalle. E’ insistente e si insinua nel profondo là dove giacciono sepolte le paure ancestrali che hanno attraversato storie e tempi, e che forse ci portiamo dentro nel DNA collettivo come specie umana.

E’ l’angolo buio in fondo alla strada, e quello vicino alla porta di casa venendo dal garage. E’ una stilla, una sola, ma ti prende. La senti appena prima di premere l’interruttore per accendere la luce che cambia tutto lo scenario.

Paure sciocche che si sono sommate ad una serie infinita di altre. Questo siamo in fondo. La somma di linee di paura che abbiamo dovuto superare per arrivare qui dove e come siamo adesso.

Paura di crescere troppo in fretta, paura dell’abbandono o della solitudine. Paura di non essere all’altezza delle prove che ti trovi ad affrontare. Paura di fronte ad una commissione di esame con tutti che ti guardano e tu temi la figuraccia peggiore di tutta la tua vita da studente.

Su tutte la paura del male e della morte, che non ammette repliche .

Avessi vissuto la guerra immagino che avrei scritto di quella.  L’abbiamo vista nei film e letta nei libri ma esserci stati in mezzo deve esser stato terribile . Tutta quella distruzione, quella sofferenza, quel dolore.

Oggi viviamo in un punto della storia e in una parte di mondo che ci dovrebbe garantire serenità e pensiero positivo. Ma solo se ci chiudiamo a pensare a noi stessi evitando ciò che ci circonda.

Guerre in atto, povertà, dolore che si somma a dolore, morti che si sommano alle morti, terrore a terrore in molte, troppe parti di questo nostro meraviglioso pianeta blu.

Abbiamo innalzato muri per fermare esseri umani sofferenti che fuggono da condizioni spaventose per arrivare a scoprire quanto poco possa reggere un muro se un virus dal nome regale viaggia nella valigetta 24 ore di un top manager super accessoriato, partito da migliaia di chilometri di distanza dal nostro piccolo mondo.

Le nostre fragilità e la nostra finitezza un virus impertinente e invasivo ce le può sbattere in faccia in un attimo  e lo sta facendo. Costringe a tenere sotto controllo pure i gesti più semplici ed automatici, quelli che ti accompagnano e sono parti di te da sempre.

Cerchi di non pensarci ma il bla bla bla 24 ore su 24 non ti lascia tregua, ti senti braccato.

Eviti il cinema dicendo tanto per ora non c’è granché di interessante,  ti adatti a malincuore a questa nuova forma di incontro collettivo da Matite ma senza la fisicità e il calore e la complicità del gruppo delle Matite in carne ed ossa.  Siamo file audio e forse se ci riusciamo video…..ma manca la vicinanza, il gomito a gomito anche al di sotto del metro di distanza!.

Passerà anche questo, mi dico. Ce ne dimenticheremo pure. E’ successo con l’epidemia del 1969 che tenne a letto 13milioni di italiani e fece 5000 morti e giace filmata nelle teche dell’Istituto Luce  ma non nei ricordi.

Passerà, speriamo presto. Speriamo con una primavera benevola che ci permetta di uscire all’aperto.  Le migliori energie e intelligenze sono coalizzate e lavorano per contenerlo, neutralizzarlo e sconfiggerlo.

Ha un nome regale è vero, ma non è unto da nessun signore. Per questo non è invincibile.  

STORIA DI UN LIBRO…..CHE NESSUNO  EBBE IL CORAGGIO DI LEGGERE….IN UNA SALA D’ ASPETTO ALL’ ORA DI PRANZO…PER COLPA DEL CORONAVIRUS…. – di Rossella Gallori

Qualcuno lo avrebbe definito “un fulmine a ciel sereno” io  l’ho visto come una nuvola nera, in una volta lunettata e confusa..

Villa delle Rose…la ricordavo come il posto dove eran nati quasi tutti i figli dei miei colleghi più grandi…

Essere li, nel 2020, mi sembrava strano, non lo riconoscevo quel posto…un altro ingresso, un altro scopo…

Il corridoio che portava alla piccola sala d’aspetto. Mi era sembrato stretto interminabile e perfino in salita…

Lui, mi era accanto con l’unico modo possibile: parallelo…mai sovrapposto…al mio modo di essere….

Appena entrata divento un numero un y 214, freddino e sfacciato, che tardava ad annunciarsi nel display posto un po’ troppo in alto…oltre all’ ansia, anche il torcicollo….

Mi è apparso così, come un raggio di sole, abbandonato , su una libreria   malferma, graffiata ma gradevole…un po’ come me…con la gonna buona ed il cardigan giusto ed ampio…per la situazione…il cuore a palla.

Copertina rossa di una “pelle tarocca” il titolo che a distanza non leggo…cerco di innamorarmi di lui di guardarlo con occhi buoni, in un momento di merda….sto per alzarmi, per prenderlo, sfogliarlo, invece un infermiere tatuato forse anche dove non si vede, mi chiama…sempre con il mio anonimo 214…mi porge un sacchetto di ghiaccio, sospirando un delicato a dopo…tra dieci, quindici minuti la richiamo.

Cerco di tornare al mio libro, mi sento sola e non lo sono.

Lui è li, un formato economico, ma pretenzioso, ci somigliamo…chissà perché ho voglia di leggerlo, io che ho imparato a farlo prima di altri bambini dell’epoca…per poi non farlo più, da anni…qualche poesia…righe, mai pagine….

Mi sposto per raggiungerlo, una voce mi ferma, perentoria mi blocca: è bene non toccare niente…con il coronavirus …chissà quanti bacilli tra quelle pagineeeee!!!!

Io vigliaccamente mi blocco e non ti raggiungo…non so nemmeno di cosa parli e già ti volto le spalle…

Vengo chiamata,ho ritrovato il mio nome nella piccola, ma non troppo, sala operatoria piena di monitor… ho un freddo boia…

Divento una cosa per 30 minuti…penso a lui al libercolo orfano e solo, capisco come si sente…buttato lì

Torno in sala d’aspetto con l’ennesima borsa del ghiaccio…mi danno un altro appuntamento…Benigno? Maligno? Chissà? ….appoggio la giacca sulle spalle, il mio compagno di silenzio mi guarda e questa volta mi vede, peccato guardarsi così solo nei momenti di tramontana, mi tolgo la cuffietta e mi avvio all’ uscita, salutandoti da lontano, non ho avuto il coraggio nemmeno di sfiorarti, condizionata da voci ignoranti, che mi han tolto una piccola gioia….

MA  torno sai, torno, tra quindici giorni sono di nuovo li, a Villa delle Rose…e ti tocco e forse ti leggo, almeno il titolo, per sapere chi sei, come ti chiami…e forse ti porto a casa e ti rubo….e ti trovo un posticino, nella mia ignorata libreria…e ti vorrò bene…anche pieno di bacilli, perché si sa nessuno è perfetto…ma nessuno deve essere ignorato….abbandonato…

Due parole: paura e speranza

PAURA – di Luca Di Volo

Sulla paura, oscuro e atavico sentimento, si possono fare eleganti considerazioni…quando non ce l’abbiamo addosso…ma..mentre la si prova?E io in questo momento, come molti (inutile negarlo) sento che qualcosa nel sottile strato della nostra tanto vantata civiltà scricchiola e minaccia di sciogliersi come neve al sole mettendo a nudo la debolezza del piccolo “uomo”.

In questo non siamo per nulla diversi dai nostri primitivi antenati, che da tutto erano spaventati, dal fulmine come dalla tempesta,dalle malattie dalla fame e dalla morte. Però lottarono. E furono grandi perché, come noi , con la paura ci convissero,vennero a patti, si inventarono le religioni, la magia,gli esorcismi…ma resistettero. E noi moderni? Poveri signori di un mondo che vorrebbero dominare anche a rischio di distruggerlo, se basta un microscopico piccolo piccolo virus per farli ripiombare nel buio della paura. Però è anche vero che essa ci è stata utile…non si poteva andare a caccia di una bestia zannuta senza averne un salutare timore e prendere le precauzioni necessarie.

Solo che ora sarebbe preferibile avere davanti un mostro visibile.. .l’avremmo già abbattuto, come i vari Godzilla dei film. Ma questo non lo vediamo,non sappiamo che cos’è… già, l’ignoto, quello che non si sa..questo è l’oscuro sentimento che ci procura il piccolo maligno virus…

Sentiamoci invece fratelli di quei nostri piccoli e indifesi antenati,per loro era il fulmine,per noi , più smaliziati, è un virus, ma seguiamone l’esempio, non abbandonarono fiducia e speranza e piano piano scoprirono che il fulmine si poteva evitare, conoscendolo..e in questo momento sento e spero che sappiamo tutti far valere quei principi di solidarietà, di orgoglio, magari, insomma tutto ciò che fa uomo l’uomo, che ci ha salvati finora e ancora ci salverà.

La vita al tempo del coronavirus – di Mirella Calvelli

L’ispirazione e non l’inspirazione, poiché in quest’ultima risiedono tutte le nostre preoccupazioni e paure degli ultimi tempi, va al famoso romanzo di Gabriel Garcia Marquez e all’idea di poter partire su un battello isolando tutte le nostre ansie con l’amore della tua vita.

Ma non è così, noi e sopratutto io sono un animale sociale e penso anche socievole che si alimenta con l’altro e non nella fattispecie solo di  amici o famigliari.

Ho fatto e abbiamo fatto del nostro lavoro la sintesi dell’accoglienza e della condivisione, abbracciando e interagendo con centinaia di persone, da ogni parte del globo.

Ho e abbiamo aperto la nostra casa a tutto questo, reinventandoci un lavoro che traeva sfogo dalla nostra professione, ma che serviva ad attirare un numero sempre più crescente di ospiti che volevano conoscere la nostra tradizione, non solo culinaria, ma anche sociale, culturale e storica.

Ero ed eravamo orgogliosi di avere avuto l’opportunità e permetteteci  la genialità in tutto questo.

Ho iniziato queste poche righe utilizzando i verbi al passato, come se dessi per scontato che non c’è più nulla da fare…ed invece no!!

Lotterò in questo momento terribile per la nostra comunità, le nostre famiglie , il nostro paese ed il nostro lavoro per infondere un sano ottimismo, il desiderio di umanità e lo spirito di non arrendersi mai.

Cercherò di valutare e non infondere notizie vere,  infarcite di allarmismi gratuiti ai quali i media hanno contribuito con tutta la loro capacità di” penna”.

Sono una matita fiera e contribuirò a colorare il mondo e non a cancellarlo.

Voglio rassicurare chi mi sta vicino, trasformando questo triste periodo in linfa vitale  per creare nuove opportunità e sopratutto…VIVERE. Senza rifugiarsi nel piccolo io, dominato dall’arroganza, dall’egoismo, dalla paura, dalla sfiducia e dalla rassegnazione.

Siamo tutti legati ad un doppio filo e tutto quello che oggi ci accade è sicuramente l’effetto di cause che abbiamo messo in passato.

Non voglio continuare ad alimentare l’ignoranza e la disinformazione, suggerendo e suggerendomi che c’è sempre un’altra angolazione, un’altra realtà da quella soggettiva a quella oggettiva e viceversa.

Non voglio essere alleata delle mie paure e delle mie incertezze, voglio pensare positivo.

Non voglio analizzare, perlomeno qui, le cause e  l’indotto che troveremo presto in tutto quello che sta accadendo.

Sempre nel rispetto di chi se ne è andato a causa di questo virus. Poco importa se vecchio, malato o con patologie conclamate, questo nel rispetto della vita sempre.

Pare che questo virus, non sopravviva al caldo e allora spero che il paese del sole, dia il suo impegno a surriscaldarci, come altre volte ha fatto anche se non richiesto.

Da permettere ai nostri ricercatori, non solo di isolare (già fatto), ma anche debellare definitivamente questo virus prima del riproporsi dell’inverno.

Non ho le qualifiche per sindacare e disquisire in merito, se non di un cervello mio pensante, che vuole e deve rimanere fuori dal terrorismo psicologico, dalle battute free, dalle fake e dai giochi di potere.

Siamo gestibili, controllabili anche in massa, lo abbiamo visto.

Abbiamo assaltato farmacie e supermercati, spesso non per esigenza ma per colpire l’ansia. Come se una bottiglietta di amuchina o un pacco di pasta potesse rassicurarci come la coperta di Linus.

Lo sfogo per far uscire quello che nella mia testa circolava in queste ultime settimane, difficili anche famigliarmente in quanto mia suocera se n’è andata proprio nel giorno che arrivava il primo caso all’ospedale dove era ricoverata.

La difficoltà di raccogliere le forze per incoraggiare la nostra famiglia e salutarla nel modo adeguato Lei che non aveva mai allontanato nessuno, che non aveva mai negato accoglienza e il famoso piatto di “pasta”

Le “Parole del Piccolo Mondo” – di Francesco Zanella

Gli autori di questa sezione hanno collaborato al progetto di scrittura creativa “La Matita per scrivere il cielo” come ospiti esterni, regalandoci immagini e ricordi di quello che loro stessi hanno definito “Il Piccolo Mondo”, cioè il mondo antico della vita quotidiana, che risalta vivida e appassionata.

Il rumore della natura – di Francesco Zanella

Sono nato in campagna in un paesino vicino a Rovigo. Da ragazzino avevo paura a tornare a casa quando facevo tardi al bar.

Ora  non  ho paura del buio. Ora ho paura della civetta….che fa chiù chiù…..dice che se la senti sparisce qualcuno entro tre giorni! Porta male sul tetto della casa dove si posa. C’ha gli occhi come un umano. Quando ero ragazzino e passavano i carrozzoni dove portavano via i morti e sopra c’era disegnata la civetta e quindi si diceva che era un uccello di malaugurio.

 Si diceva: Ho sentito la civetta, da chi andrà?

Invece il canto del gallo dava soddisfazione ai contadini che dovevano andare in campagna. Cantava a ore quasi precise, gli animali sentivano la temperatura del tempo. Il tempo ha sì una temperatura.! I vecchi una volta stavano dietro alle semine con la luna, anche per travasare il vino…c’era una temperatura del tempo, i nostri vecchi vivevano con la temperatura che si dà il tempo, seguivano le giornate lunghe, corte, la luna.

  Il buio che mi piaceva era quello della mattina, quando stava per farsi giorno. Mi ricordo la luce attraverso le persiane quando mi alzavo presto per andare a pescare dopo aver fatto il caffè. Mi piaceva quel buio la mattina quando aspettavo l’orario per andare a pesca, a caccia. Poi ho lavorato di notte, ho fatto il fornaio, quindi il buio era abituale per me. Da ragazzi si ha sempre un po’ paura dell’oscurità….di quel buio di notte…..Ci si sente riavere quando canta il gallo. Il canto del gallo è la sveglia per i contadini.

 Da bambino facevo la gita del pane a Rovigo.  Lì si comincia bambini a andare in bicicletta. Lassù  va di moda, ci sono le piste ciclabili grandi come strade.

La bicicletta fa sentire il rumore della natura……non mi metteva mai tristezza mi metteva gioia, una volta cominciò a piovere a Pontassieve mentre facevo il giro del Mugello, e io ero tutto solo e tutto contento. Tornai  zuppo ma contento. Mi dava gioia…mi piaceva.

Ho fatto il cicloamatore, ero attento al rumore del cambio….della catena….quando si cambia male si sente un rumore e si deve rimettere a posto, si sente che la catena non tira.

Ero fissato con le strade. Mi piaceva il San Baronto o tutto il Mugello…..ero sempre in bicicletta, il Chianti, il Bilancino, le Croci… stavo dalle parti di Novoli. Avevo strade che mi piacevano e strade che non mi piacevano. Non mi piaceva tornare indietro mi piaceva fare il giro e vedere zone diverse…….. per Vinci e Carmignano la strada si gode bene, con tutte le ulivete.  Conoscevo tutte le fontanine per bere. Poi mi piaceva il Chianti, Greve, Panzano,

Di quelle gite mi è rimasto un ricordo……d’estate, in vacanza, andavo sempre in bicicletta da Quercianella al Monte Nero. E da Monte Nero scendevo a Antignano. Un giorno c’erano tutte le bancherelle di souvenir  e feci una collanina alla moglie. La portai a casa e la moglie mi disse: potevi comprarne una anche alla tua mamma. E allora il giorno dopo  in bicicletta sono tornato a ricomprarne un’altra. Sono questi piccoli ricordi che rimangono. Son ricordi miseri ma mi è rimasto quel ricordo lì di tornare a prendere la collanina per la mi’ mamma……..

60 anni di bicicletta! Ma il ricordo più netto è sempre stato quello della collanina della mamma. Perché la mamma l’è mamma…non c’è nulla da fare…..la mamma l’è mamma……

Son nato anche per la pesca…anche la caccia mi piaceva, ma la pesca di più, non mi piaceva ammazzare gli uccellini …sono andato da ragazzo sui fiumi, in Veneto, vivevo a pochi chilometri dal Po.

Ho mangiato le trote del lago di Garda.

 Poi sono venuto a Firenze e allora andavo in Arno, quando il pesce si poteva mangiare e c’erano i gamberini, in Arno……l’emozione è quando si tira su il pesce, poi lo puoi anche regalare….se non prendevo nulla ero contento lo stesso, andavo per andare su un sasso, mangiavo pane e mortadella…..ma ero contento. Son cresciuto con la passione della pesca, sono andato 22 anni in Iugoslavia per pescare. Si spendeva poco. Si faceva la pesca dell’orata, con la lenza, con la canna. Là c’è un mare meraviglioso!

La passione è la cosa più bella della pesca: a sedere su un sasso a mangiare un panino mi passavano le ore e non mi accorgevo nemmeno.

 Lassù a Rovigo c’era anche il Po e la gente viveva di pesca. Nelle osterie sul Po c’era scritto “Rane tutti i giorni”.

Nelle acque dolci sono andato a pescare con i tramagli. Il mio babbo faceva il tramaglio. Le reti erano con i sugheri …i piombi le tenevano giù da una parte e i sugheri tenevano su dall’altra. Si andava a pescare con una pertica lunga lunga,  si levava la buccia e si faceva seccare. Si metteva in cima un gancio e poi si usava per stendere il tramaglio. C’erano canali, fossi e con i tramagli da parte a parte si pescava. In cima alla rete c’era un anello. Mio babbo pescava di notte e metteva più piombi perché la gente non vedesse le reti che rimanevano più a fondo. Ci passava una nottata, lui metteva il segno in acqua e la mattina tirava su la tinca, il barbo, lui lo faceva di mestiere. Aveva un recipiente per tenere il pesce a vivo. Certi pesci muoiono subito altri no…il pesce gatto se lo metti in un cencio bagnato campa anche due giorni….Pescava anche di giorno: c’era il pesce che prendeva con una trappola fatto a sacco: prendeva tutto quello che c’entrava….era pesce di fondo. Anche in mare c’è il pesce di fondo: la seppia, l’orata, la spigola invece sta a mezza acqua. Le aguglie stanno a pelo. C’è la stagione giusta per i pesci:  l’orata va via d’inverno e torna a  primavera.

D’inverno il mare è un mortorio. Avevo casa a Castiglioncello ma la moglie aveva paura si stava a piano terra. Lei non veniva a pescare. Non ci pensava nemmeno. La moglie odiava la pesca perché io avevo la passione e si aveva la casa e lei doveva pulire, seguire il giardino. La colpa è tutta mia: io nella vita ho fatto tutto sbagliato. Lei non voleva venire al mare….Tutto da rifare diceva Bartali!

Lassù da me, in Veneto, si portava la roba pesante nelle balle  e le recuperavano sempre dopo averle usate.    Facevano tutto con la canapa…i grembiuli per lavorare…..i sacchi per la farina…La mia mamma lavorava nel magazzino della canapa.

In Veneto tutti la coltivavano.

La canapa faceva delle piantine verdi, c’era il maschio e la femmina… La pianta maschio faceva il seme la pianta femmina era più piccola. La pianta maschio si tagliava dopo due mesi per recuperare il seme.

Lassù da noi, in Veneto ce n’era tanta…. Ogni famiglia coltivava la canapa.

Veniva messa nelle vasche apposta e dopo tre giorni l’acqua marciva e i pesci morivano, venivano le zanzare e l’acqua puzzava.

La mettevano a macerare nell’acqua  con tanti sassi sopra….poi si strizzava con il telaio …da verde diventava bianca e la seccavano al sole.

Allora la pettinavano…Quando nasceva era verde, poi stava a bagno 22 giorni, poi la lavavano e la tenevano al sole e diventava bianca. Poi la filavano e la lavoravano…ci facevano anche i guanti, L’ho vista da piantare in terra fino a vederla lavorare. A Rovigo tutti la coltivavano, ha bisogno di acqua, se viene la grandine si sciupa. Con quella piccola facevano la stoppa che era lo scarto, lo adopravano i trombai, non avevano quella pasta che hanno ora…..

Ci facevano i sacchi. Davanti al forno  c’era una rosticceria  e gli portavo i sacchi pesanti di farina portandoli sul groppone  c’era dentro  la farina manitoba americana, in sacchi da 25 chili e il proprietario per ricompensa mi dava dei panini con il roastbeef, pieno ma pieno di carne! Più roastbeef che pane!

Il lago di Garda mi piaceva tanto ci avevo fatto il viottolo. Facevo il bagno a Torboli. Andavo dalla mattina alla sera, stavo vicino,  a Rovigo, e ci andavo in motocicletta con la moglie.

Sono stato a Bardolino sul Garda… erano posti…..non so….. che immaginazione bellissima!

Il lago è diverso dal mare. Sono stato 22 anni a Pola. C’erano le rocce e  dei cavalloni e persone che prendevano le onde ma c’era anche da rimanere secchi, molti sono morti perché aspettavano l’onda che li riportasse a riva e l’onda invece li ha portati via.

Il mare! E’ sempre stata la mia passione, il mare e la pesca!

La parola del giorno: paura

Paura – di Carla Faggi

Tanti e tanti anni fa una mia amica si ammalò di polmonite.

Andai a trovarla, mi dissero che non si attaccava. Non avevo paura perché mi sentivo immortale, e pensavo che la vita andava presa con leggerezza!

Poi tornai a casa. C’era mia madre, molto anziana e malata di cuore.

Mi prese il panico, se ero stata contagiata avrei potuto contagiarla a mia volta.

Stetti così male che mi ammalai, non di polmonite ma di senso di colpa. Tutt’ora se ci penso mi sento male.

Non successe nulla a mia madre, il senso di colpa non è contagioso, ma ripensandoci ora, la paura ti può essere amica, se non per te per le persone a cui vuoi bene e sono più fragili. Non averne non è leggerezza ma può essere superficialità.

Meno male che siamo capaci di avere paura perché il corpo e la mente sono saggi. Sanno quando è necessario averne.

Paura – di Carmela De Pilla

La ricordo bene quella sensazione, era proprio di paura, quella che precede il panico e che ti resta dentro per sempre.

Ero andata con alcuni amici in Valle d’Aosta a fare un trekking di una settimana nel parco del gran Paradiso, quel giorno dovevamo affrontare una dura prova: valicare il Col Rosset  arrivando fino a 2.600 m.

Ai piedi i due grandi laghi assorbivano l’azzurro intenso del cielo e lo rimandavano con forza a noi, il grande contrasto tra il verde dei prati e il turchese era smisuratamente appagante.

Io, al contrario dei miei compagni che erano in perfetta forma fisica, avevo intrapreso quell’avventura spinta solo dal forte desiderio di scoprire quei luoghi incontaminati e straordinari.

Ci mettemmo in cammino e dopo poco capii subito che per me sarebbe stata un’impresa difficile, arrancando e aiutandomi con la forza di volontà e con le mani arrivai quasi alla fine del sentiero, ma poco prima di raggiungere la vetta, stremata mi fermai un attimo e guardai giù verso il precipizio.

Non c’erano alberi che mi impedivano la vista e così immediatamente un groviglio di sensazioni incominciarono a  bombardare il cuore e la mente, ero paralizzata, il corpo non rispondeva più, per un attimo mente e corpo incominciarono a volare e una forte tentazione di farlo si impossessò di me, poi mi ripresi e incominciai a urlare.

Luigi, esperto di montagna, capì subito che la situazione era seria e in poco tempo mi raggiunse abbracciandomi con forza.

La sua stretta mi riportò alla realtà e confortata dalla sua presenza raggiunsi la vetta.

Il terzo tempo nell’era nuova

La testa mi gira – di Cecilia Trinci

Coronavirus disegnato da Simone Cuccurullo

Eravamo diventati giovani.

“Lavorare fa bene fino a 70 anni. Fino a 75 non sei neppure anziano. I 60 di oggi sono i 40 del secolo scorso.” Frasi fatte a fiumi, ricordate?

Solo pochi giorni fa i decaloghi si sprecavano: e vai in palestra, per carità di Dio!  A ballare. Viaggia su, che fai stai sul divano? Il divano  è il peggior nemico della vita. Alzati! Corri! Vai a prendere i bambini….…. Vai dal parrucchiere, vai a comprare vestiti colorati e fai la dieta punti, e poi lavora su….almeno fino a 70 anni il cervello funziona benissimo! Però fallo senza prendere il posto ai giovani, metti in gioco la pensione, tu che spudorata ce la puoi avere!  dei soldi che ne vuoi fare? Spendi! Spandi! Muoviti! Guardati intorno: tour della Puglia a novembre, la Sicilia d’inverno è anche più bella, i posti in traghetto a gennaio a metà prezzo che idea! Comprati il trolley che fa giovane! Esci da codesta casa ma non prendere il posto in tram, lo vedi che sei giovane? fai le capriole, fai le giravolte, su su……

Poi d’improvviso, in una manciata di ore più che di giorni, i 65enni sono diventati anziani, spesso “con patologie pregresse” , i 70enni si sono accorti di camminare sul bordo della fossa, per non parlare degli 80enni che quelli davvero che ci fanno in giro?

Abbiamo smesso in due ore di essere una risorsa, abbiamo smesso di essere manager  in ritiro spirituale, atleti di seconda mano, ballerini  di categoria over, ex qualcosa, ex calciatori, ex direttori, ex giocolieri e barzellettieri da cene aziendali.

Abbiamo smesso.

Ci siamo ritrovati a “dovremo cambiare modo di vivere”. E infatti abbiamo smesso di abbracciarci, di andare al cinema,  di mangiare pizze in compagnia, di ballare, di fare le gite della Coop, e per carità “anziani vi prego, non andate fuori, state sul divano, non andate a giocare a tombola e nemmeno a burraco!”

Eravamo i giovani del XXI secolo, quasi immortali da quanto eravamo giovani!

Ci hanno ridato la nostra età e con gli interessi. Siamo diventati più vecchi ancora che nel secolo scorso.

Vecchi! Nemmeno anziani. Altro che terzo tempo!

“Vecchi state a casa, non guardate nessuno! Non incontrate nessuno! Non ammalatevi per non occupare i nostri posti  letto”. Se ci fossero i caminetti in cucina torneremmo nel canto del foco a ciucciare castagne secche, guardando il volo degli storni al tramonto, attraverso le finestre chiuse

“Rinoceronte, che passi sotto il ponte…che salti e che balli…che dici buongiorno girandoti attorno ..…che giri e rigiri, la testa mi gira…non ne posso più…la pallina cade giù.”