Atmosfera di Elisabetta: quasi un film antico

COME IN UN FILM – di Elisabetta Brunelleschi

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Dalla diligenza scende un solo passeggero: non ha bagagli barcolla, e fatti pochi passi si accascia sulla terra color ocra della piazza. Un rigo di sangue gli cola da una guancia.

Il postiglione urla aiutatelo e subito dà il via ai cavalli. La diligenza riparte avvolta nella polvere.

Chi sarà? Da dove viene? Qualcuno lo conosce?

Gli avventori che a quell’ora affollano l’unico bar del paese, si portano sul marciapiede e lì si fermano. Guardano silenziosi quel giovane uomo ferito, ma non si muovono. Dai loro sguardi terrorizzati traspare un senso di paura e diffidenza.

Non lo conosciamo, è uno straniero, non ci si avvicina agli stranieri! Meglio stare attenti con gli sconosciuti. Ci sono gli addetti, sapranno loro come fare!

Questo stanno pensando.

Infatti il farmacista esce e si avvicina, lo guarda, si piega, fa per toccarlo:

– Frido, è Frido, il figlio di Maria! – Esclama ad alta voce voltato verso la piazza.

Il giovane muove la testa, apre gli occhi.

Sentito il nome tutti si affacciano, escono e tra mormorii di stupore e sconforto cercano di avvicinarlo.

– Fermi, state lontani! – Intima il dottore che stringendo una borsa accorre anche lui richiamato dalle parole del farmacista.

La ferita, forse da coltello, non è profonda. I due soccorritori la tamponano, la puliscono, disinfettano.

Frido vorrebbe alzarsi, parlare, ma il medico lo invita a rimanere calmo, in silenzio, poi gli spiega che quel taglietto sarà meglio ricucirlo per bene, guarirà più in fretta!

La piazza è gremita, tutti si chiedono il come e il perché di quella ferita. Nel brusio indistinto si odono storie di rivalità amorose, di gelosie, di debiti di gioco. In molti scuotono la testa lo conoscono, lo hanno visto crescere, si chiedono in quale brutta strada si era ficcato. Altri rammentano che da quando la mamma se n’era andata non era più lui, gli mancava una guida.

Intanto il medico assistito da farmacista sistema una benda sulla ferita. Poi tutti e due lo aiutano ad alzarsi. Frido lentamente va a sedersi su una sedia accanto ai tavolini del bar.

La folla applaude soddisfatta. Le son ferite curate, i dolori leniti, Frido tornerà a casa sano e salvo almeno per ora.

Al dopo pensa solo il dottore, tra due giorni andrà a controllare la ferita.

Ma questa storia fin qui cos’ha raccontato? La risposta è semplice e nello stesso tempo tragica: ha detto della paura verso gli sconosciuti che all’improvviso ti piombano davanti.

Se ti conosco e so chi sei, ti porgo una mano. Se sei uno straniero, se non ti conosco, posso dire poveretto, ma ti avvicino con molta cautela. Non si sa mai. È meglio stare attenti!

Come se chi, pensi di conoscere proprio nel tuo stesso paese, non possa, almeno una volta, averti nascosto il cuore e averti fatto credere, qualcosa che non era.

Così è capitato in quel nemmeno poi tanto immaginario paese.

E meno male che esistevano i medici e i farmacisti pronti a fare un passo avanti e buttarsi verso chi stramazza a terra noto o ignoto che sia .

Atmosfera per Carla: suoni fatti di mancanze

Suoni vuoti – di Carla Faggi

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Inizialmente era solo un brusio, un suono fatto di mancanze, poi quel vuoto si riempì, vi erano sospiri inquietanti, urla sussurrate, respiri forti e ritmati.

Cercai di alzarmi ma ricaddi pesantemente sulla branda.

Volevo muovere le braccia ma erano immobili come abbracciate le une alle altre.

Provai a parlare ma le labbra sembravano incollate, ci riprovai di nuovo ed uscì un suono, allora continuai ed il suono diventò più alto delle mie orecchie.

Mi spaventai ma come presa da un senso di liberazione provai di nuovo e fu allora che la mia voce si espanse in tutta la stanza ed esplose rimbalzando sulle pareti imbottite di ovatta.

Mi sentivo libera ed allora urlavo.

E poi urlai di nuovo verso quella luce accecante che mi ghiacciò gli occhi.

Poi ancora urlai verso quelle persone vestite di bianco che improvvisamente arrivarono.

Sentii la loro presenza e urlai di nuovo.

Sentii qualcosa di pungente e poi di caldo che entrava dentro di me e urlai.

Il caldo iniziò a svuotare le mie forze ed io provai ad urlare.

Ero di nuovo vuota, fatta di mancanze, non urlavo più.

E tutto tornò ad essere solo un brusio.

Atmosfera di Gabriella: gelo, brindisi e angoscia

Natale alla malga – di Gabriella Crisafulli

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La proposta era intrigante: trascorrere la notte nella malga di Herbert.

Di primo mattino eravamo tutti pronti con le vettovaglie in spalla.

La sera precedente aveva nevicato in abbondanza ma il cielo era terso.

Il freddo pungeva.

All’inizio il sentiero era sgombro però via via che si saliva affondavamo nella neve soffice e bianca fino al ginocchio.

Mentre ci allontanavamo dal paese, il suono del silenzio si allargava, diventava multiplo, interrotto dal rumore dei nostri respiri e dei piccoli cumuli che cadevano dagli alberi.

C’era da prendere un passo ritmico e cadenzato per attenuare la fatica.

Le parole si facevano rarefatte e il fiato si condensava intorno a noi in una nebbia che ci avvolgeva.

All’inizio i bambini non sentivano la fatica e godevano della neve a piene mani: ci si tuffavano e se la lanciavano a manciate vociando e ridendo. Ma quando la salita si fece più ripida divennero silenziosi interrompendo di tanto in tanto la quiete sbruffando e lamentandosi.

Per fortuna Werner, che era ben fornito di cioccolata a pezzi e the caldo, riusciva a sedare gli animi.

Camminammo, camminammo, camminammo … sembrava che la malga via via si allontanasse sempre più ma il vin brulè che veniva passato da uno all’altro, ci faceva sentire nuovamente in forze.

Quando in lontananza apparve l’alpeggio cominciò a serpeggiare un’allegria contagiosa.

Uno alla volta arrivammo al terrazzo coperto che si affacciava sulla valle, ci liberammo dei pesi e iniziammo subito a darci da fare per rendere possibile la permanenza nella grande stanza al pianterreno nella quale ci saremmo accampati anche per la notte.

Marcus e Rigus entrarono in casa per accendere il fuoco nel camino e nella cucina economica; Werner ed Ernst cominciarono a riempire i tegami di neve per portarli sui fornelli: era l’acqua per bere, cucinare e rigovernare.

Dagli zaini venne fuori di tutto ed Elli iniziò a preparare il cenone.

C’era chi appendeva i sacchi a pelo alla ringhiera della scala perché fossero caldi al momento in cui li avremmo stesi a terra per dormire; c’era chi dava una passata ai tavoloni di legno abbandonati alla polvere da tre mesi e chi accatastava stoviglie, bicchieri tovaglioli, posate; chi pelava, sbucciava, spezzettava, impastava, chi riforniva la cucina con tegami di neve da sciogliere sul fuoco.

I bambini sembravano non sentire il freddo e stavano per lo più fuori a giocare.

Enric e Nicoletta amoreggiavano vicino al camino.

Niente macchine, vicini, passanti, luci, rumori: solo le frasi in tedesco che rimbalzavano di qua e di là accompagnate da risate e bicchieri di vino. Solo un brusio che sapeva di buono, uno sfrigolio profumato, un acciottolio di stoviglie sommerse da secchiate d’acqua fumante.

Dopo cena andammo ad aspettare la mezzanotte in terrazza. Il cielo era tutto per noi. Le stelle facevano da decorazioni festose. Era tutto un rimbalzare di brindisi ed auguri.

In un angolo, appeso ad una trave della tettoia, un po’ nascosto, penzolava il cadavere mummificato di un gatto.

La coda, appena curva, dondolava.

Su un fondale di velluto blu la luna splendeva chiarissima.

Atmosfera di Lucia: la bambina sulla scala

Una bambina troppo piccola – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Una scala enorme
Una scala lunga
Riuscirò a salire fino in cima?
Sono piccola , senza parole e con gli occhi sgranati
E’ troppo grande e’ troppo alta quella scala!
Non potevo immaginare che esistessero luoghi così, tutto così immenso, gigantesco e silenzioso
Mi ero accorta che le persone appena entrate nel portone si ammutolivano davanti a quella scala
Le voci diventavano sussurri, quasi dei soffi
Le scarpe non potevano fare rumore, bisognava camminare piano facendo attenzione a non produrre alcun suono
Iniziava poi la salita con gli occhi rivolti verso il soffitto alto come il cielo
Poi in cima un altro portone di legno vecchio come il tempo
Di lato al portone uno strano campanello
Mi accompagnava mio padre e lui suono’ quel campanello producendo un suono assordante che riempì tutto quello spazio fatto solo di silenzio
L’attesa ebbe inizio
Verrà qualcuno ad aprire?
Tutto è così grande che forse anche quel suono invadente non riuscirà a raggiungere l’orecchio di qualcuno
Dopo un’attesa che mi sembro’ infinita il portone si aprì
Una piccola suora con un sorriso e lo sguardo basso fece un cenno di accoglienza indicando la direzione dove dovevamo sederci per aspettare ancora
Una stanza con vecchi mobili e vecchie sedie impagliate di bianco ma soprattutto un tendone color porpora separava la stanza d’attesa da un mondo misterioso, inaccessibile, non tangibile e nemmeno immaginabile
Solo silenzio e una luce ovattata filtrava da finestre poste in alto sulla parete
L’attesa continuo’ in un silenzio pungente
Poi un brusio fitto fitto, una cantilena che sembrava una nenia

Preghiere preghiere preghiere

Ieri ho salito di nuovo proprio quella scala e anche ieri mi è sembrata immensa, alta, ripida come sempre
Una colomba volteggiava silenziosamente come se le ali non muovessero l’aria
Volava in alto davanti a me per aiutarmi ad alleggerire quella salita
Uno scalino dopo l’altro senza far rumore ed un pensiero:
Sarà l’ultima volta che salirò questa scala?

Atmosfera di Nadia: ispirata da Carla

IL FARO SULLA SCOGLIERA (dalle suggestioni di Carla) – di Nadia Peruzzi

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Il faro si intravedeva appena. C’era nebbia tutto intorno. Quando i primi raggi del sole si insinuarono a rompere la spessa coltre, svelò la sua bellezza poco a poco.  Bianco, con due strisce rosse per esaltarne la visibilità, quasi a far da confine fra l’indaco del mare e il verde punteggiato dal giallo della colza e dal rosa violaceo delle eriche che cercavano di conquistare il primato in quel lembo di terra del New England, e in quella stagione strana in cui il clima ormai faceva coesistere fiori e piante che fino a qualche anno prima non si incontravano mai.  Una visione decisamente idilliaca che ebbe uno strano effetto su di lei. La intimorì, più che farla star bene.  “Deve essere la sensazione che prova qualcuno che é stato in prigione per anni e fuori dal cancello, si ritrova spaesato, a testa quasi completamente vuota se si esclude una domanda! E ora?”. Pensò Jane.  Cercò di non farlo vedere alle amiche . L’avevano tirata fuori a fatica dalla sua quotidianità fatta di caos cittadino, slalom fra macchine che sputacchiavano fumi puzzolenti e clacson dai rumori invadenti, andirivieni frettoloso e irrispettoso di folle vocianti .  Il tutto sotto lo sguardo di grattacieli altissimi, che in qualche giornata storta sentiva incombere su di lei.  La schiacciavano con l’arroganza di chi si era preso tutto il meglio. Per un singolo francobollo di cielo, dovevi quasi rovesciare la testa all’indietro e rischiare una bella caduta.  Per questo aveva concluso che non valeva la pena di guardare in alto. Era tempo perso. Tanto più che andava sempre di gran fretta proprio come la moltitudine che incrociava, nelle strade e sui marciapiedi e come tutti gli altri guardava davanti a sé,  o in basso per evitare gli ostacoli. Del cielo aveva deciso di fare a meno.  Il brusio attorno a lei era incessante, come quello che ogni giorno trovava in ufficio.  Una cosa non mancava mai, a far da sottofondo,  nel salone delle contrattazioni della borsa di Wall Street ed era il respiro affannato dei motori delle centinaia di computer accesi sul mondo.  Il resto era il vociare dei colleghi che compravano e vedevano di tutto. Tutto era vorticoso come un alveare. Ma in quell’alveare pieno di ronzii il miele non usciva. La borsa di Wall Street era piuttosto paragonabile ad uno schiacciasassi con cingoli pesanti. Un modo più soft per fare guerra al mondo, e per questo dovevi perdere ogni giorno sempre più umanità, abbandonare il senso di responsabilità verso gli altri, la capacità di interrogarsi sugli effetti collaterali di ogni singola contrattazione.  Le amiche di Jane non capivano come potesse lavorare in un luogo così straniante. Sogni, sentimenti, etica rimanevano fuori dalla porta girevole che la accoglieva ogni mattina. Da persona ad automa era il cambiamento che avveniva nei dieci passi che la separavano dall’ascensore che la portava fino al 35esimo piano.  La vedevano svuotata e stressata al massimo. Quasi ogni giorno cercavano di convincerla a staccare almeno per un po’. Poi decisero loro. La costrinsero, di fatto.  Prenotarono per cinque giorni in un luogo che avrebbe restituito vita anche ad un pezzo di legno.  Partirono un sabato. Il B&B verso cui erano dirette era un faro che era costato un occhio della testa, ma era solo per loro tre.  Non rivelò alle amiche la sensazione che aveva provato all’arrivo. Ci sarebbero rimaste male. Gli spazi senza fine, il cielo sopra di loro, la brezza che le intrecciava i capelli, il sole che la abbagliava, erano fonte di inquietudine.  Una vocina dentro di sé le ripeteva imperiosa e maligna : “Dalle scorie tossiche della quotidianità non ci si libera facilmente! ”Quando le amiche la chiamarono per uscire a fare una passeggiata, scese controvoglia.  L’aria era ferma. Il sole stava calando lentamente e infuocava l’orizzonte, le onde del mare si frangevano sugli scogli con delicatezza, senza esagerazioni. Dai campi arrivavano profumi che Jane non sapeva riconoscere, ma erano piacevoli e benefici.  Anche camminare le fece bene.  Arrivarono in un punto in cui la vista spaziava a 360 gradi fra mare e terra . Una visione potente che le riportò alla mente le praterie sconfinate che circondavano la casa dove era nata e cresciuta. La natura era allora signora di tutto. Era lei a scandire le azioni degli esseri umani non il contrario. Il loro lavoro e i raccolti anno dopo anno dipendevano da quanto la rispettavano e ne assecondavano tempi e modi di coltivazione.  Il tempo di allora fluiva più lento.  Le andava stretto. Lei era giovane e aveva una gran voglia di correre. Per questo, finiti gli studi se n’era andata lontano. I suoi sogni di allora finirono in un cassetto insieme alle romanticherie da ragazzina. Sapeva che nel mondo in cui aveva deciso di entrare avrebbe dovuto vestirsi di cinismo . Un prezzo che considerò lieve da pagare per conquistare un posto nel cuore pulsante della finanza globale . Camminarono ancora un po’ lungo la linea di costa. Il crepuscolo durò poco e il buio le costrinse a rientrare. La terra emanava un calore quasi materno, mentre il cielo si riempì in un attimo di stelle.  Non le vedeva da anni . La città le spegneva.  Quasi come se il cielo ne fosse privo.  Rivide lucciole a centinaia attorno a sé . Le sembrò che la prendessero per mano per riportarla ai suoi dieci anni e ad una notte senza luna, nel bosco vicino casa con suo padre e sua madre e lei che le rincorreva ridendo a più non posso.  Fece fatica a dormire. Troppe novità, troppo silenzio. Era abituata ai rumori che le arrivavano in un flusso continuo dal basso, in quella città senza posa 24 ore su 24.  Si girò e rigirò nel letto. Ogni tanto si assopiva facendo strani sogni. Lei che non sognava da anni, aveva ricominciato a sognare.  Si svegliò la mattina con meno ansia di quella che si sarebbe aspettata.  Ricordava molti dei frammenti del passato che erano riaffiorati con prepotenza, misti a nostalgia.  Un altro dei sentimenti di cui aveva dovuto fare a meno fin dal suo arrivo nella Grande Mela. La nostalgia è un freno le aveva detto qualcuno e lei l’aveva tenuta ben lontana.  Quella mattina sentì il bisogno di crogiolarvisi un po’. Era una sensazione così bella, anche se sapeva che non avrebbe dovuto farla riaffiorare del tutto.  Indietro non si torna, si disse, però si può imparare ad andare avanti in modo diverso da come aveva vissuto gli ultimi dieci anni.  I quattro giorni seguenti quasi volarono. Tornò a sentire e gioire del cinguettio degli uccelli. Anche le strida dei gabbiani le trovò meno fastidiose di quanto ricordava. Il chioccolio dell’acqua che scorreva in un fiumiciattolo poco lontano, e il fuscio delle foglie sugli alberi suscitarono una gioia bambina in lei.  Arrivò a tuffarsi nelle erbe alte un po’ per nascondersi alle amiche, soprattutto per stare a pancia in sù a guardare le nuvole che si rincorrevano nel cielo. La nozione tempo era sparita insieme al suo orologio. Si accorse che era da quando si trovava al faro che lo aveva lasciato in camera.  L’ultima notte che passarono al faro volle che fosse tutta sua.  Lo chiese come un favore alle amiche.  Si chiuse in un sacco a pelo e si lasciò avvolgere dal silenzio e dal buio. Si accorse che la cullavano, non la intimorivano più.  Sopra di lei il Grande Carro, attorno fruscii, picchiettii del becco di qualche uccello sugli alberi vicini, la risacca col suo moto continuo diceva, ”Ci sono anche io,  il silenzio assoluto non esiste. La natura è viva, si trasforma in continuazione e si fa sentire in mille modi, da chi ha voglia e animo di ascoltarla”.  Come la prima notte dormì poco. Non per il carico di adrenalina di cui ancora non si era liberata, ma per la voglia di non perdersi un attimo di quella immensa bellezza che le aveva riacceso passioni e sentimenti. Lo stupore che non provava più da anni ora lo provava per tutte le cose piccole o grandi che la circondavano. Riscoprì il suo cuore fanciullo.  Abbandonarsi al sonno le avrebbe fatto perdere il meglio di quanto natura aveva da offrire in una notte di fine estate con una luna così grande da sembrare un sole.  D’altra parte non voleva correre il rischio di perdere il filo che in quei pochi giorni era riuscita a riprendere nelle sue mani. Esile ancora, ma esigente e combattivo, nel seguirlo sentiva che stava tornando a ritrovare la sua vera essenza