Riflessione di fine anno di Rossella B.

Desidero condividere queste parole di Rossella Bonechi, che, al di là dell’occasione che ha motivato la sua riflessione, esprime con grande esattezza, lo scopo e l’essenza del nostro stare insieme a scrivere. Servirà per farci meglio conoscere, per ulteriori riflessioni e per fissare saldamente i nostri obiettivi. (Cecilia Trinci)

RIFLESSIONE – di Rossella Bonechi

Scriviamo favole?

Sono forse favole i graffi sul cuore di Stefania degli amici d’Arno che non sono più? Sono forse novelle le donne di Rossella distrutte nell’anima e il profumo di quel particolare tabacco che le circonda? Sono storielle la Voce del Babbo di Sandra, il paese di Patrizia, le bambine di Lucia che non riescono a piangere o a salire imponenti scalinate? E cosa sono i ricordi di Carla del Settimello che c’era e non c’è più o i piccoli paesi pieni di umile e varia umanità di Carmela? Le notti di Luca, i colori e i profumi dell’Istanbul di Nadia sono veri come la Genova che lei ci ha raccontato. Poi, volendo…, sarebbero da leggere le “fiabe” di Gabriella che in un giro dell’Oca tra una caserma e un’altra coltiva il sogno di una fioriera; e poi Vittorio dalle Tante Porte, Anna e la sua Posta di Candeli, Daniele piantamoroso nato da una valigia di cartone, Tina e il gallo Davide: c’è più realtà qui dentro che in tutti i quotidiani che si possono trovare.

Di cosa dovremmo scrivere? Di bambini abusati, di donne sempre uccise, di morti sui ponteggi? Di bombe, di fame, di corruzione, di genocidi? No, il giovedì no: la porta di quella stanza chiude fuori il fuori e apre il nostro dentro e aprendoci come frutti maturi le penne iniziano a correre sui quaderni. Una parola, un’immagine, anche una frase sola danno il “via” alle nostre emozioni, che prima però di arrivare sui fogli passano a volo radente sul nostro vissuto e sui nostri ricordi raccogliendoli, trasformandoli, a volte rispolverandoli. Può capitare che ci siano fiocchi, fiocchetti, perline e persino paillette, perché l’immaginazione ha bisogno anche di loro per non rimanere compressa e schiacciata, ha bisogno anche di leggerezza sennò non è più un aquilone ma una zavorra ancorata alla nostalgia dolente.

Questo si cerca di fare il giovedì, nella stanza.

Poi ci si saluta e si torna al quotidiano, ognuno al suo; in coda in macchina verso casa pensando se hai tutto per una cena veloce, il grembiule allacciato di fretta e il gesto automatico di accendere la televisione perché è l’ora del TG; e mentre triti alla svelta il battuto la “realtà” arriva ad abbracciarti tutta, raccontandoti di questo Circo di Nani e Ballerine chiamato Parlamento e scaraventandoti nell’angoscia di bambini a cui abbiamo “spento tutte le stelle in cielo”.

Ce n’è abbastanza per non volerne scrivere visto che lo dobbiamo vivere.

E meno male che la colpa della lacrime se la prende la Cipolla….

Atmosfera di Daniele: profumi dall’Himalaya

Terra magica di Himalaya – di Daniele Violi

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….ero partito dal villaggio, il tempo che si preannunciava, con la luce solare che quasi costringeva a chiudere gli occhi, incoraggiava a immaginare un’altra giornata di buon cammino, in questa avventura che mi faceva scoprire la vita su queste altitudini estreme. Ripartire da un luogo, che come altri attraversati, rappresentano le comunità  e l’anima di un paese himalayano, dove  forte è il legame di donne e uomini con questa terra, dove gli animali e le piante  vivono in simbiosi da secoli e dove alcuno vuole alterare il  rapporto forte che subito salta all’occhio a me straniero e curioso di conoscere questa cultura.

Io che provengo da un mondo lontano, dove la vita viene regolata da altri meccanismi, con il progresso che ha di fatto sostituito gesti e comportamenti alle persone.

Camminare sui sentieri e sentire il profumo o gli odori di un viaggiatore o di un portatore che ti incrocia, con i suoi vestiti che sono un concentrato di fumo di legna con odori di cucina di cibo e di spezie, e che un rituale (Namaste’), poi alla fine sancisce il momento dell’incontro, magari percorrendo un tratto di sentiero abbastanza stretto e lungo una parete ripida di un canalone, da dove si può ammirare una grande massa d’acqua che scende. Poi pensi e ripensi alla magia che l’acqua che scorre, cosi in basso, sotto il sentiero, provenga dai ghiacciai delle montagne altissime che con la loro maestosità sono pronte a volerti proteggere. Una atmosfera insolita ma tutta con ritmi lenti, lentissimi, dove ad un certo punto puoi assistere con piacere nel tuo peregrinare, ad incrociare sul sentiero stretto capre solitarie o in gruppo che ti massaggiano sfiorando le tue gambe con il loro corpo, e quasi ti salutano, poi di li’ a poco vedere in lontananza il fumo che esce da case arroccate e che il vento porta via con quel profumo percepito di legna di rododendro, pianta tipica del paese che attraverso. Piu ti avvicini al prossimo villaggio, più sono le curiosità e le voci che ti assalgono. Il profumo intenso delle erbe che vengono usate per tenere accesi gli altarini religiosi, si confonde con il profumo del Ciapati, il loro pane, tipo piadina, cotto su lastre di pietra sopra bracieri, tutto si mescola, e partecipa al pourpurri delle tante essenze e profumi di cibo che viene cucinato. Davanti alle porte di casa o appena dentro, è ricavato lo spazio per cucinare, in questi spazi piccoli e angusti, dove la luce che filtra del giorno è preziosa.

Di notte le candele fanno compagnia e sono indispensabili, alla vita di abitanti e escursionisti, in queste sperduti luoghi meravigliosi e affascinanti, che riportano in  me alla mente, la vita dei tempi passati raccontata dalle Nonne e dai Nonni.

Personaggi di Tina: cambiare non è morire

Doppia vita – di Tina Conti

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Quella casa sarà   fondamentale per entrambi.

I ricordi  spesso erano  evanescenti e idealizzati si mescolavano fra  sogno e realtà , per uno scrittore  di fantascienza  ora  era una vera goduria  pensare di ritornare alla vita nella casa dei nonni .

Si erano indebitati per comprare un camper  grande e confortevole, qualche giro di prova nelle settimane precedenti e dopo   l’acquisto della attrezzatura adatta   per giornate fredde e piovose erano pronti. Il progetto di  restaurare  la vecchia casa aveva impegnato mesi e incontri con amici per decidere  le modalità più  giuste e poco onerose.

Contavano sullo spazio pulito e confortevole del pulmino per avere tempi rilassati per il lavoro. Dalla città avevano portato  poche cose , non sapevano se  quella scelta sarebbe stata  una scelta   definitiva oppure un nuovo modo di vita per le vacanze o i momenti di riposo.

Il guardiacaccia della tenuta MAREMMI, gentilmente aveva mandato una squadra di boscaioli a ripulire la strada e parte del campo e giardino.

Si erano telefonati spesso per fare un resoconto  dei lavori che inizialmente avevano trovato delle difficoltà. Mentre procedevano con le seghe sotto un muro alla fine del bosco, avevano trovato una zona molto umida  dalla quale uscivano vapori caldi.

Con attenzione, liberando cautamente lo spazio circostante, era emersa una grande polla di acqua calda e sulforosa, qualche operaio ricordava racconti di vecchi che parlavano delle acque curative.

Ma da molto tempo nessuno ne aveva parlato più e nemmeno i nonni avevano mai fatto cenno a quella cosa. Mentre procedevano con la ripulitura i boscaioli avevano chiesto se tagliare  i sambuchi troppo vicini alle finestre, se potare il nocciolo sul pozzo e  quanto ridimensionare la pergola di uva fragola che  si era insinuata nel capanno degli attrezzi ostruendo  completamente  il passaggio.

Le telefonate erano quasi  giornaliere, ma c’erano decisioni importanti da prendere sul posto. Amedeo  che si intendeva un po’ di tutto aveva fatto partire  la caldaia a legna  che aveva  emesso però strani brontolii  consigliando di far intervenire un idraulico prima possibile.

Erano partiti presto, la strada era agevole, da lontano sembrava tutto apposto, parcheggiato il camper sotto la pergola, e presa la borsa frigo  grande  per una sopravvivenza  di emergenza entrarono. Tutto  era intatto come lo ricordavano, non si sentivano strani odori, il centrino giallo all’uncinetto ora  si trovava al centro del tavolo ovale  con sopra un vaso con il vischio di vetro. , la frutta  di cera un po’ impolverata era  sulla credenza, i gatti  di terracotta colorata a guardia della porta . Anche i rumori del vento e dello sportello del contatore  elettrico  che sbatteva   erano quelli di sempre.

Salirono al piano superiore, non dissero una parola. Come poteva essere rimasto tutto immutato?

L’aria era  pervarsa dall’odore di canfora e lavanda che usciva dai cassetti e dagli armadi.

All’attaccapanni dietro la porta, il cappello di paglia del nonno era vicino allo sciallino  a righe della nonna, che serviva a coprire le spalle prima di uscire  nelle giornate fredde..

Nel bagno il vecchio scaldabagno a legna grande e ingombrante, luccicava colpito dalla luce  che filtrava dal finestrino, aveva le sgocciolature di ruggine  che facevano tanto arrabbiare la nonna.

Camminando avanti e indietro nel corridoio, sentirono gli stessi scricchiolii  delle tavole di legno di quando correvano per arrivare primi al letto della nonna.

Lei , per la festa della befana, attaccava le calze vicino al suo letto perché diceva  la vecchia essere  sua amica e prima di lasciare i dolci voleva parlare con lei, quando si trovarono davanti al camino pensarono di provare ad accenderlo

Avrebbero potuto stare nella casa invece che nel camper  , tutto sembrava accoglierli.

Nello sgabuzzino ,c’erano i due  trabiccoli per  gli scaldaletto, arieggiarono i materassi e poggiarono  le lenzuola portate da casa vicino al camino scoppiettante.

Incantati e stupiti dalla nuova vita, trascorsero  quattro mesi  beati e sereni.

Si lasciarono  cullare dal tepore del sole  impolverati e con le mani macchiate dalla vernice. Rimasero incantati allo sbocciare delle prime primule e cullati dai cinguettii degli uccelli

Prepararono marmellate  con le bacche di rosa canina, susine selvatiche, sambuco.

Costruirono un piccolo pollaio in legno ,raccogliendo preziose uova fresche.

Si recavano nel paese vicino   nel giorno di mercato per le provviste e per  comprare nuove piante per l’orto.

Il postino un giorno, recapitò un avviso di giacenza.

Dovevano recarsi all’ufficio  per ritirare un  grande baule. Non si capivano le indicazioni di provenienza, e neppure  il nome del mittente, le carte erano rovinate e sbiadite.

Aspettarono qualche  giorno perché erano in attesa di  un geologo per valutare la natura dell’acqua della polla calda in fondo al campo.  Sarebbero andati di venerdì  per acquistare anche i mangimi per i  pulcini appena nati.

Ritirato il baule di legno verde con borchie di ottone  ,corsero a casa curiosi di vedere cosa contenesse, dimenticandosi anche del becchime dei pulcini  che pigolavano dalla fame.

Da quel giorno tutto cambiò, il baule era  per lei, che entrò  in un vortice senza dare  spiegazioni, devo andare, partire, mandava messaggi, lettere, riceveva continuamente  altri pacchi.

Si era trasferita nella stanza vicino al fienile, non voleva che nessuno la disturbasse, lavorava giorno e notte a un progetto  solo suo.

Non erano più una coppia, tutto stava cambiando, una mattina lei  uscì di casa con un abbigliamento davvero originale; calze a righe, abito arancio e viola  cappello verde, guanti gialli e borsetta arancio, si allontanò senza dire dove andava, non tornò più.

Atmosfere di Tina: ritorno al passato

ATMOSFERA CON ANIMALI – di Tina Conti

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Era primavera, era libera dal lavoro  e da tempo desiderava tornare  al suo paese, era tanto tempo che  mancava  da quel luogo che  aveva amato e dal quali si era allontanata giovanissima.

Sapeva che avrebbe trovato tutto cambiato, anche lei in quegli anni era diventata una persona diversa. L’autista fermò la bella macchina  un po’ distante dalla piazza principale, lei  con passi leggeri scese e si incamminò silenziosa,  desiderava assaporare  in silenzio, il nuovo incontro con la sua terra.

Era ora di siesta, la piazza appariva deserta ma,  lei sapeva che dietro  le finestre  c’era sempre  chi seguiva  i movimenti  e fatti  del paese. Dentro la vettura ,  il suo piccolo cagnolino  si era accucciato silenzioso sulla coperta a righe  un po’ strappata con la quale poteva giocare aspettandola.

Era abituato alle attese, l’autista  si occupava volentieri di lui,  gli permetteva anche di fare giri ai giardini e corse nei vialetti. Bastava un fischio e lui rientrava veloce dentro la macchina.

A casa però,  si scatenava con salti e capriole, e dopo la cena si accucciava ai piedi della padrona addormentandosi.

Quando usciva negli spazi pubblici , era guardato a vista perché leccava tutto e più volte   era rimasto intossicato, non si era mai capito da cosa.

L’ordine era di somministrargli solo il cibo raccomandato dal veterinario,  per questo in macchina c’era un corredo apposta per le sue necessità,  era trattato meglio di un figlio, forse , sostituiva il figlio che lei non aveva potuto avere.

Era un piccolo cane simpatico e allegro,  anche il portiere del palazzo di città si era affezionato a lui e al mattino presto se lo vedeva apparire al portone pronto ad attraversare il giardinetto e andare dal giornalaio. Saltellando sulle zampe posteriori, raggiungeva il banco di vendita per ricevere il biscotto  premio per le sue acrobazie.

Il biscotto naturalmente era di una qualità speciale supervisionato dalla padrona.

Marisa era il nome della signora matura che ritornava  al paese dopo tanti anni.

Guardò il palazzo con occhi lucidi, ripercorse il tempo trascorso con la sua famiglia,  i giochi,  gli amori, i dolori.

Dopo la morte dei genitori si era trasferita lasciando a un conoscente l’impegno a mantenere in uno stato decoroso la proprietà,  oggi però tornando riprendeva in mano la sua tradizione, la sua storia.

Avrebbe restaurato il palazzo per viverci con agio e  allargato e modernizzato il laboratorio fotografico del padre.

Nel piccolo negozio non era più entrata,   dopo aver aperto la porta fu investita da polvere e grandi ragnatele che le coprirono i capelli come una cuffia.

Per terra vide una  vecchia foto sbiadita che ritraeva la piazza  con un asino al centro e una donna che teneva in braccio una bambina.. quella bambina era lei con la sua mamma, sentì le lacrime scendere  calde e  inaspettate, lei non aveva avuto un buon rapporto con la madre e questo aveva pregiudicato le scelte di vita.

 Il padre invece con il suo fare  paziente e caloroso l’aveva tanto appassionata  al mondo della fotografia da  permetterle di fare una carriera brillante e  appagante.

Conosciuta in tutto il mondo si era poi trasferita  negli Stati Uniti  , dove incontrava artisti e critici che valorizzavano il suo lavoro.

Spesso per i suoi servizi  aveva usato le foto d’archivio del padre,  ristampandole e modificandole con grande talento.

Sentiva che una nuova tappa della sua vita stava iniziando. Avrebbe attinto a quella energia primitiva che il luogo di nascita   le avrebbe   regalato  ancora.

 Ai suoi laboratori  avrebbero potuto partecipare gli appassionati e i giovani in cerca di una buona occasione di lavoro.

Atmosfera di Carmela: il calduccio del carbonaio

Il ciuco di Tonino – di Carmela De Pilla

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Immagini senza colore, sbiadite da un tempo indefinito, illuminate solo dal ricordo di chi ha vissuto, di chi conosce bene la storia e mantiene ancora vivo quell’attimo  alimentato da un respiro un po’ stanco, ma ancora forte.

Era una foto non molto grande racchiusa da una sottile cornice nera, se ne stava nella penombra offuscata da altri quadri dai colori più vivaci, attaccato alla parete del lungo corridoio si nascondeva come se si vergognasse della miseria e della incomprensibile semplicità che rappresentava, non rimase però nascosto agli occhi di Angelina che incuriosita da quell’immagine insolita chiese alla nonna:

-Nonna chi è quello, tuo padre?

-No, piccola, quello è Tonino il carbonaio, pover’ uomo ne ha fatte di fatiche!

L’arco di Petrella faceva da cornice alla scena e la impreziosiva nei più piccoli particolari, per chi conosce quel luogo è facile individuarlo perché quell’arco ancora oggi sembra che stia lì per proteggere i pochi abitanti rimasti, ben solido con i suoi pietroni squadrati lascia intravedere il canale lungo il quale sono disposte le poche case sopravvissute ormai non più bianche, sembra di sentire il suono del silenzio che avvolge il tutto e in lontananza il brusio filtrato da una garza dà vita alle poche persone immortalate.

Nel mezzo della scena c’era lui con il suo carro sgangherato trainato con grande fatica da Lumin Lumin, il vecchio ciuco, anche lui sgangherato con cui aveva trascorso gran parte della sua vita, si volevano bene quei due e si rispettavano a vicenda perché sapevano che erano indispensabili l’uno all’altro, una pacca sulla schiena rafforzava ancora di più il loro legame e la povera bestia nonostante le fatiche mai lo aveva lasciato solo.

Tutti li conoscevano perché portavano un po’ di calore nelle case, quel tanto che serviva per non soffrire il freddo, sgangherato era anche Tonino che cercava di aiutare e incoraggiare il suo amico a tirare il carro lungo la salita, sembrava di sentire ancora il ticchettio degli zoccoli che sdrucciolavano sui lastroni di pietra levigati dal tempo, per  l’occasione però Tonino si era messo in posa cercando di nascondere un fisico che si piegava in due dalle fatiche, fiero e orgoglioso si dava arie da gran signore con il cappello di feltro in bella vista appartenuto già a suo padre.

-Eh, era bravo Tonino, non trascurava nessuno, pur di portare la carbonella in tutte le case era capace di lavorare nel bosco anche la notte!

-Ma nonna, come faceva? Sembra un vecchio di 150 anni!

-Sembra bambina mia, ma era giovane sai? Solo che una volta la fatica faceva invecchiare prima, si lavorava tanto e si mangiava poco!

-Ma cosa dici nonna! Se lavorava tanto guadagnava tanto!

-Tu non puoi capire Angelina, io ho 85 anni e me li ricordo bene quei tempi e soprattutto mi ricordo quei volti scavati e quei corpi appesantiti però ricordo anche il sorriso di Tonino che disegnava sul viso un futuro pieno di speranza.

Atmosfera di Elisabetta: quasi un film antico

COME IN UN FILM – di Elisabetta Brunelleschi

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Dalla diligenza scende un solo passeggero: non ha bagagli barcolla, e fatti pochi passi si accascia sulla terra color ocra della piazza. Un rigo di sangue gli cola da una guancia.

Il postiglione urla aiutatelo e subito dà il via ai cavalli. La diligenza riparte avvolta nella polvere.

Chi sarà? Da dove viene? Qualcuno lo conosce?

Gli avventori che a quell’ora affollano l’unico bar del paese, si portano sul marciapiede e lì si fermano. Guardano silenziosi quel giovane uomo ferito, ma non si muovono. Dai loro sguardi terrorizzati traspare un senso di paura e diffidenza.

Non lo conosciamo, è uno straniero, non ci si avvicina agli stranieri! Meglio stare attenti con gli sconosciuti. Ci sono gli addetti, sapranno loro come fare!

Questo stanno pensando.

Infatti il farmacista esce e si avvicina, lo guarda, si piega, fa per toccarlo:

– Frido, è Frido, il figlio di Maria! – Esclama ad alta voce voltato verso la piazza.

Il giovane muove la testa, apre gli occhi.

Sentito il nome tutti si affacciano, escono e tra mormorii di stupore e sconforto cercano di avvicinarlo.

– Fermi, state lontani! – Intima il dottore che stringendo una borsa accorre anche lui richiamato dalle parole del farmacista.

La ferita, forse da coltello, non è profonda. I due soccorritori la tamponano, la puliscono, disinfettano.

Frido vorrebbe alzarsi, parlare, ma il medico lo invita a rimanere calmo, in silenzio, poi gli spiega che quel taglietto sarà meglio ricucirlo per bene, guarirà più in fretta!

La piazza è gremita, tutti si chiedono il come e il perché di quella ferita. Nel brusio indistinto si odono storie di rivalità amorose, di gelosie, di debiti di gioco. In molti scuotono la testa lo conoscono, lo hanno visto crescere, si chiedono in quale brutta strada si era ficcato. Altri rammentano che da quando la mamma se n’era andata non era più lui, gli mancava una guida.

Intanto il medico assistito da farmacista sistema una benda sulla ferita. Poi tutti e due lo aiutano ad alzarsi. Frido lentamente va a sedersi su una sedia accanto ai tavolini del bar.

La folla applaude soddisfatta. Le son ferite curate, i dolori leniti, Frido tornerà a casa sano e salvo almeno per ora.

Al dopo pensa solo il dottore, tra due giorni andrà a controllare la ferita.

Ma questa storia fin qui cos’ha raccontato? La risposta è semplice e nello stesso tempo tragica: ha detto della paura verso gli sconosciuti che all’improvviso ti piombano davanti.

Se ti conosco e so chi sei, ti porgo una mano. Se sei uno straniero, se non ti conosco, posso dire poveretto, ma ti avvicino con molta cautela. Non si sa mai. È meglio stare attenti!

Come se chi, pensi di conoscere proprio nel tuo stesso paese, non possa, almeno una volta, averti nascosto il cuore e averti fatto credere, qualcosa che non era.

Così è capitato in quel nemmeno poi tanto immaginario paese.

E meno male che esistevano i medici e i farmacisti pronti a fare un passo avanti e buttarsi verso chi stramazza a terra noto o ignoto che sia .

Atmosfera per Carla: suoni fatti di mancanze

Suoni vuoti – di Carla Faggi

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Inizialmente era solo un brusio, un suono fatto di mancanze, poi quel vuoto si riempì, vi erano sospiri inquietanti, urla sussurrate, respiri forti e ritmati.

Cercai di alzarmi ma ricaddi pesantemente sulla branda.

Volevo muovere le braccia ma erano immobili come abbracciate le une alle altre.

Provai a parlare ma le labbra sembravano incollate, ci riprovai di nuovo ed uscì un suono, allora continuai ed il suono diventò più alto delle mie orecchie.

Mi spaventai ma come presa da un senso di liberazione provai di nuovo e fu allora che la mia voce si espanse in tutta la stanza ed esplose rimbalzando sulle pareti imbottite di ovatta.

Mi sentivo libera ed allora urlavo.

E poi urlai di nuovo verso quella luce accecante che mi ghiacciò gli occhi.

Poi ancora urlai verso quelle persone vestite di bianco che improvvisamente arrivarono.

Sentii la loro presenza e urlai di nuovo.

Sentii qualcosa di pungente e poi di caldo che entrava dentro di me e urlai.

Il caldo iniziò a svuotare le mie forze ed io provai ad urlare.

Ero di nuovo vuota, fatta di mancanze, non urlavo più.

E tutto tornò ad essere solo un brusio.

Atmosfera di Gabriella: gelo, brindisi e angoscia

Natale alla malga – di Gabriella Crisafulli

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La proposta era intrigante: trascorrere la notte nella malga di Herbert.

Di primo mattino eravamo tutti pronti con le vettovaglie in spalla.

La sera precedente aveva nevicato in abbondanza ma il cielo era terso.

Il freddo pungeva.

All’inizio il sentiero era sgombro però via via che si saliva affondavamo nella neve soffice e bianca fino al ginocchio.

Mentre ci allontanavamo dal paese, il suono del silenzio si allargava, diventava multiplo, interrotto dal rumore dei nostri respiri e dei piccoli cumuli che cadevano dagli alberi.

C’era da prendere un passo ritmico e cadenzato per attenuare la fatica.

Le parole si facevano rarefatte e il fiato si condensava intorno a noi in una nebbia che ci avvolgeva.

All’inizio i bambini non sentivano la fatica e godevano della neve a piene mani: ci si tuffavano e se la lanciavano a manciate vociando e ridendo. Ma quando la salita si fece più ripida divennero silenziosi interrompendo di tanto in tanto la quiete sbruffando e lamentandosi.

Per fortuna Werner, che era ben fornito di cioccolata a pezzi e the caldo, riusciva a sedare gli animi.

Camminammo, camminammo, camminammo … sembrava che la malga via via si allontanasse sempre più ma il vin brulè che veniva passato da uno all’altro, ci faceva sentire nuovamente in forze.

Quando in lontananza apparve l’alpeggio cominciò a serpeggiare un’allegria contagiosa.

Uno alla volta arrivammo al terrazzo coperto che si affacciava sulla valle, ci liberammo dei pesi e iniziammo subito a darci da fare per rendere possibile la permanenza nella grande stanza al pianterreno nella quale ci saremmo accampati anche per la notte.

Marcus e Rigus entrarono in casa per accendere il fuoco nel camino e nella cucina economica; Werner ed Ernst cominciarono a riempire i tegami di neve per portarli sui fornelli: era l’acqua per bere, cucinare e rigovernare.

Dagli zaini venne fuori di tutto ed Elli iniziò a preparare il cenone.

C’era chi appendeva i sacchi a pelo alla ringhiera della scala perché fossero caldi al momento in cui li avremmo stesi a terra per dormire; c’era chi dava una passata ai tavoloni di legno abbandonati alla polvere da tre mesi e chi accatastava stoviglie, bicchieri tovaglioli, posate; chi pelava, sbucciava, spezzettava, impastava, chi riforniva la cucina con tegami di neve da sciogliere sul fuoco.

I bambini sembravano non sentire il freddo e stavano per lo più fuori a giocare.

Enric e Nicoletta amoreggiavano vicino al camino.

Niente macchine, vicini, passanti, luci, rumori: solo le frasi in tedesco che rimbalzavano di qua e di là accompagnate da risate e bicchieri di vino. Solo un brusio che sapeva di buono, uno sfrigolio profumato, un acciottolio di stoviglie sommerse da secchiate d’acqua fumante.

Dopo cena andammo ad aspettare la mezzanotte in terrazza. Il cielo era tutto per noi. Le stelle facevano da decorazioni festose. Era tutto un rimbalzare di brindisi ed auguri.

In un angolo, appeso ad una trave della tettoia, un po’ nascosto, penzolava il cadavere mummificato di un gatto.

La coda, appena curva, dondolava.

Su un fondale di velluto blu la luna splendeva chiarissima.

Atmosfera di Lucia: la bambina sulla scala

Una bambina troppo piccola – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

Una scala enorme
Una scala lunga
Riuscirò a salire fino in cima?
Sono piccola , senza parole e con gli occhi sgranati
E’ troppo grande e’ troppo alta quella scala!
Non potevo immaginare che esistessero luoghi così, tutto così immenso, gigantesco e silenzioso
Mi ero accorta che le persone appena entrate nel portone si ammutolivano davanti a quella scala
Le voci diventavano sussurri, quasi dei soffi
Le scarpe non potevano fare rumore, bisognava camminare piano facendo attenzione a non produrre alcun suono
Iniziava poi la salita con gli occhi rivolti verso il soffitto alto come il cielo
Poi in cima un altro portone di legno vecchio come il tempo
Di lato al portone uno strano campanello
Mi accompagnava mio padre e lui suono’ quel campanello producendo un suono assordante che riempì tutto quello spazio fatto solo di silenzio
L’attesa ebbe inizio
Verrà qualcuno ad aprire?
Tutto è così grande che forse anche quel suono invadente non riuscirà a raggiungere l’orecchio di qualcuno
Dopo un’attesa che mi sembro’ infinita il portone si aprì
Una piccola suora con un sorriso e lo sguardo basso fece un cenno di accoglienza indicando la direzione dove dovevamo sederci per aspettare ancora
Una stanza con vecchi mobili e vecchie sedie impagliate di bianco ma soprattutto un tendone color porpora separava la stanza d’attesa da un mondo misterioso, inaccessibile, non tangibile e nemmeno immaginabile
Solo silenzio e una luce ovattata filtrava da finestre poste in alto sulla parete
L’attesa continuo’ in un silenzio pungente
Poi un brusio fitto fitto, una cantilena che sembrava una nenia

Preghiere preghiere preghiere

Ieri ho salito di nuovo proprio quella scala e anche ieri mi è sembrata immensa, alta, ripida come sempre
Una colomba volteggiava silenziosamente come se le ali non muovessero l’aria
Volava in alto davanti a me per aiutarmi ad alleggerire quella salita
Uno scalino dopo l’altro senza far rumore ed un pensiero:
Sarà l’ultima volta che salirò questa scala?

Atmosfera di Nadia: ispirata da Carla

IL FARO SULLA SCOGLIERA (dalle suggestioni di Carla) – di Nadia Peruzzi

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Il faro si intravedeva appena. C’era nebbia tutto intorno. Quando i primi raggi del sole si insinuarono a rompere la spessa coltre, svelò la sua bellezza poco a poco.  Bianco, con due strisce rosse per esaltarne la visibilità, quasi a far da confine fra l’indaco del mare e il verde punteggiato dal giallo della colza e dal rosa violaceo delle eriche che cercavano di conquistare il primato in quel lembo di terra del New England, e in quella stagione strana in cui il clima ormai faceva coesistere fiori e piante che fino a qualche anno prima non si incontravano mai.  Una visione decisamente idilliaca che ebbe uno strano effetto su di lei. La intimorì, più che farla star bene.  “Deve essere la sensazione che prova qualcuno che é stato in prigione per anni e fuori dal cancello, si ritrova spaesato, a testa quasi completamente vuota se si esclude una domanda! E ora?”. Pensò Jane.  Cercò di non farlo vedere alle amiche . L’avevano tirata fuori a fatica dalla sua quotidianità fatta di caos cittadino, slalom fra macchine che sputacchiavano fumi puzzolenti e clacson dai rumori invadenti, andirivieni frettoloso e irrispettoso di folle vocianti .  Il tutto sotto lo sguardo di grattacieli altissimi, che in qualche giornata storta sentiva incombere su di lei.  La schiacciavano con l’arroganza di chi si era preso tutto il meglio. Per un singolo francobollo di cielo, dovevi quasi rovesciare la testa all’indietro e rischiare una bella caduta.  Per questo aveva concluso che non valeva la pena di guardare in alto. Era tempo perso. Tanto più che andava sempre di gran fretta proprio come la moltitudine che incrociava, nelle strade e sui marciapiedi e come tutti gli altri guardava davanti a sé,  o in basso per evitare gli ostacoli. Del cielo aveva deciso di fare a meno.  Il brusio attorno a lei era incessante, come quello che ogni giorno trovava in ufficio.  Una cosa non mancava mai, a far da sottofondo,  nel salone delle contrattazioni della borsa di Wall Street ed era il respiro affannato dei motori delle centinaia di computer accesi sul mondo.  Il resto era il vociare dei colleghi che compravano e vedevano di tutto. Tutto era vorticoso come un alveare. Ma in quell’alveare pieno di ronzii il miele non usciva. La borsa di Wall Street era piuttosto paragonabile ad uno schiacciasassi con cingoli pesanti. Un modo più soft per fare guerra al mondo, e per questo dovevi perdere ogni giorno sempre più umanità, abbandonare il senso di responsabilità verso gli altri, la capacità di interrogarsi sugli effetti collaterali di ogni singola contrattazione.  Le amiche di Jane non capivano come potesse lavorare in un luogo così straniante. Sogni, sentimenti, etica rimanevano fuori dalla porta girevole che la accoglieva ogni mattina. Da persona ad automa era il cambiamento che avveniva nei dieci passi che la separavano dall’ascensore che la portava fino al 35esimo piano.  La vedevano svuotata e stressata al massimo. Quasi ogni giorno cercavano di convincerla a staccare almeno per un po’. Poi decisero loro. La costrinsero, di fatto.  Prenotarono per cinque giorni in un luogo che avrebbe restituito vita anche ad un pezzo di legno.  Partirono un sabato. Il B&B verso cui erano dirette era un faro che era costato un occhio della testa, ma era solo per loro tre.  Non rivelò alle amiche la sensazione che aveva provato all’arrivo. Ci sarebbero rimaste male. Gli spazi senza fine, il cielo sopra di loro, la brezza che le intrecciava i capelli, il sole che la abbagliava, erano fonte di inquietudine.  Una vocina dentro di sé le ripeteva imperiosa e maligna : “Dalle scorie tossiche della quotidianità non ci si libera facilmente! ”Quando le amiche la chiamarono per uscire a fare una passeggiata, scese controvoglia.  L’aria era ferma. Il sole stava calando lentamente e infuocava l’orizzonte, le onde del mare si frangevano sugli scogli con delicatezza, senza esagerazioni. Dai campi arrivavano profumi che Jane non sapeva riconoscere, ma erano piacevoli e benefici.  Anche camminare le fece bene.  Arrivarono in un punto in cui la vista spaziava a 360 gradi fra mare e terra . Una visione potente che le riportò alla mente le praterie sconfinate che circondavano la casa dove era nata e cresciuta. La natura era allora signora di tutto. Era lei a scandire le azioni degli esseri umani non il contrario. Il loro lavoro e i raccolti anno dopo anno dipendevano da quanto la rispettavano e ne assecondavano tempi e modi di coltivazione.  Il tempo di allora fluiva più lento.  Le andava stretto. Lei era giovane e aveva una gran voglia di correre. Per questo, finiti gli studi se n’era andata lontano. I suoi sogni di allora finirono in un cassetto insieme alle romanticherie da ragazzina. Sapeva che nel mondo in cui aveva deciso di entrare avrebbe dovuto vestirsi di cinismo . Un prezzo che considerò lieve da pagare per conquistare un posto nel cuore pulsante della finanza globale . Camminarono ancora un po’ lungo la linea di costa. Il crepuscolo durò poco e il buio le costrinse a rientrare. La terra emanava un calore quasi materno, mentre il cielo si riempì in un attimo di stelle.  Non le vedeva da anni . La città le spegneva.  Quasi come se il cielo ne fosse privo.  Rivide lucciole a centinaia attorno a sé . Le sembrò che la prendessero per mano per riportarla ai suoi dieci anni e ad una notte senza luna, nel bosco vicino casa con suo padre e sua madre e lei che le rincorreva ridendo a più non posso.  Fece fatica a dormire. Troppe novità, troppo silenzio. Era abituata ai rumori che le arrivavano in un flusso continuo dal basso, in quella città senza posa 24 ore su 24.  Si girò e rigirò nel letto. Ogni tanto si assopiva facendo strani sogni. Lei che non sognava da anni, aveva ricominciato a sognare.  Si svegliò la mattina con meno ansia di quella che si sarebbe aspettata.  Ricordava molti dei frammenti del passato che erano riaffiorati con prepotenza, misti a nostalgia.  Un altro dei sentimenti di cui aveva dovuto fare a meno fin dal suo arrivo nella Grande Mela. La nostalgia è un freno le aveva detto qualcuno e lei l’aveva tenuta ben lontana.  Quella mattina sentì il bisogno di crogiolarvisi un po’. Era una sensazione così bella, anche se sapeva che non avrebbe dovuto farla riaffiorare del tutto.  Indietro non si torna, si disse, però si può imparare ad andare avanti in modo diverso da come aveva vissuto gli ultimi dieci anni.  I quattro giorni seguenti quasi volarono. Tornò a sentire e gioire del cinguettio degli uccelli. Anche le strida dei gabbiani le trovò meno fastidiose di quanto ricordava. Il chioccolio dell’acqua che scorreva in un fiumiciattolo poco lontano, e il fuscio delle foglie sugli alberi suscitarono una gioia bambina in lei.  Arrivò a tuffarsi nelle erbe alte un po’ per nascondersi alle amiche, soprattutto per stare a pancia in sù a guardare le nuvole che si rincorrevano nel cielo. La nozione tempo era sparita insieme al suo orologio. Si accorse che era da quando si trovava al faro che lo aveva lasciato in camera.  L’ultima notte che passarono al faro volle che fosse tutta sua.  Lo chiese come un favore alle amiche.  Si chiuse in un sacco a pelo e si lasciò avvolgere dal silenzio e dal buio. Si accorse che la cullavano, non la intimorivano più.  Sopra di lei il Grande Carro, attorno fruscii, picchiettii del becco di qualche uccello sugli alberi vicini, la risacca col suo moto continuo diceva, ”Ci sono anche io,  il silenzio assoluto non esiste. La natura è viva, si trasforma in continuazione e si fa sentire in mille modi, da chi ha voglia e animo di ascoltarla”.  Come la prima notte dormì poco. Non per il carico di adrenalina di cui ancora non si era liberata, ma per la voglia di non perdersi un attimo di quella immensa bellezza che le aveva riacceso passioni e sentimenti. Lo stupore che non provava più da anni ora lo provava per tutte le cose piccole o grandi che la circondavano. Riscoprì il suo cuore fanciullo.  Abbandonarsi al sonno le avrebbe fatto perdere il meglio di quanto natura aveva da offrire in una notte di fine estate con una luna così grande da sembrare un sole.  D’altra parte non voleva correre il rischio di perdere il filo che in quei pochi giorni era riuscita a riprendere nelle sue mani. Esile ancora, ma esigente e combattivo, nel seguirlo sentiva che stava tornando a ritrovare la sua vera essenza

Atmosfera di Stefania: ci vuole coraggio a parlare a voce alta

Cercava il silenzio – di Stefania Bonanni

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Il piu’ delle volte era quello che cercava: il silenzio.

Non voleva un silenzio di solitudine e campagna. Cercava un silenzio che si manifestasse solido, vero, presente, con un posto ed una dimensione. Ed accadeva ogni volta, puntuale.

La gente entra e la pesante porta antica sbatte  rumorosamente alle spalle del nuovo arrivato: SBAM, con la emme che continua a farsi sentire, sbiadendo. Poi brusii, chiacchiericci, rumori decifrabili anche senza vedere, senza girarsi. Rumori larghi di sorrisi senza risate, parentesi orizzontali di bocche che, educate, accennano appena un verso di maniera, che non turba la sacralità del luogo.

Entrano tutti, sempre i soliti, si dirigono con passi anonimi verso il posto che occupano di solito, la testa accenna piccoli inchini diplomatici, ed ancora si sente brusii. Piano piano prevale la voglia di pensare, del resto il senso e’ quello, ed i brusii si stemperano nell’atmosfera che si fa piu’ intensa, piu’ seria, piu’ sacra, e quindi anche piu’ scandaloso turbarla. Ci vuole coraggio per parlare a voce alta. Piano, come scende la nebbia, cala il silenzio, si espande e prende possesso di tutto, persone e cose. I presenti aspettano, le orecchie sono tese. Lei spera che questo faticoso silenzio duri, ma e’ turbato da una scampanellato argentina. Lei si scuote, quasi colta di sorpresa.

Non e’ la sola, a rimpiangere quel silenzio. Alla scampanellata risponde un ululato lungo ed intonato.

Il pastore maremmano in fondo alla chiesa, compostissimo, zampe unite e testa alta, come fosse in ginocchio, da’ il via alla funzione.

L’atmosfera di Rossella G.: la parete verde stupido

La stanza… – di Rossella Gallori

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Conosceva già la stanza, la riconosceva, se pur non fosse,  forse, la stessa…sapeva del muro scortecciato eppure e non ne vedeva più traccia, ricordava bene quel nulla di una parete “ verde stupido” un verde che aveva voglia di esser giallo e gridava inerte tendendo le braccia: vogliono essere azzzzurroooo…

Si la camera era quella, il suo stato d’animo però era diverso, non più paura bollente, ma tiepida sensazione che all’ inizio era brusio pesante di mancanze, ora era solitudine fredda ed irrisolvibile.

Provò a fare una nomenclatura, un elenco, un sistema ordinato del suo essere li:

La finestra: 2 ante, un vetro rotto da sempre, in alto a destra, due tenducce  scure di tempo

 vantavano qualche foro di sigaretta in basso a sinistra…poi, poi un cesso, un bidet, una panca verniciata di grigio, una lampadina fioca e ciondolante, un comodino a tre gambe, un coperta rattoppata, una bacinella sproporzionata.

Era così la prima volta è lo era ancora.

Lo ricordava bene, si, molto bene.

Aveva urlato per ore, poi aveva taciuto per giorni ed allora nel suo silenzio si era ritrovata con la luce gialla, faro ignorante,  che le sfiorava il viso gonfio di pianto, ignorando  gli scarafaggi innocui che le percorrevano le guance e quel lampo azzurro che allungava la notte con la sirena che pareva musica, un tutto che attimo per attimo le avevano insegnato a sopravvivere.

Ora dopo cinquanta anni si ritrovava li, più vecchia, più goffa, più grassa e più stanca, ma sempre, sempre più sola.

Si buttò sul letto…le gambe nude e formicolanti trovarono sotto le coperte infeltrite, qualcosa di caldo, di morbido, un qualcosa di umano con le orecchie, un cuore dal battito accelerato, quattro zampine … due croccantini  spezzettati le bucarono il braccio, li riunì e li porse al nuovo amico di pelliccetta vera, che le fu grato e le si strinse addosso…

Si trovarono soli, con il profumo aspro di caffè cattivo, sangue bollente e nero che scorreva da una macchinetta affollata di infermiere scoglionate.

Lei ed il gatto, un gatto e lei, nessuno  dei due sapeva perché era li, come ci era arrivato, quanto sarebbe stata lunga l’ attesa in quel buio a tratti rassicurante, erano due gatte vecchie a fine corsa, stanche di non  parole, non carezze…le dette un nome Speranza, non rivelando il proprio, si fecero compagnia, fu per poco….

Le ritrovarono all’alba  la piccola zampa nella mano rugosa….

Le atmosfere di Anna: voglia di tenerezza

RICORDO INGIALLITO – di Anna Meli

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            Era da parecchio tempo che non si recava in quella vecchia casa avuta in eredità. Odore di chiuso, di polvere, di tempo. Aprì la finestra e la persiana cigolante e un raggio di sole fece brillare le numerose ragnatele, mentre un viavai di leggeri ragni dalle lunghe zampe, fuggivano impauriti.

            Il grande armadio, antico quanto il tempo sembrò quasi chiamarla. Fin da piccola le piaceva esplorarlo di nascosto, il perché non lo sapeva e forse era proprio questo che la spingeva a disobbedire. Stavolta ne aprì le ante senza timore e rivide appeso il vecchio cappotto militare, abiti di altra epoca, coperte, copertine, libri e riviste, scatole.

            In fondo, in un angolo scoprì una strana scatola di un metallo sconosciuto dal colore indefinibile. Ebbe difficoltà ad aprirla. Conteneva vecchie foto alcune delle quali appiccicate insieme con i bordi smangiucchiati dalle tarme. Una in particolare attrasse la sua attenzione.

            Non riconosceva né il luogo né le persone: una donna seduta sulle scalette di una casa, probabilmente la sua, teneva in collo una bimba che le si appoggiava sulla spalla e con la mano la teneva stretta a sé quasi a confortarla. Chi era quella bimba? Chi era quella donna? Non aveva avuto la gioia di conoscere sua madre, l’aveva lasciata  quando era piccolissima: una zia si era presa cura di lei. Forse quella bimba era lei con la zia?

            Sentì improvvisamente la voglia di essere abbracciata e rassicurata. Sì, era vero aveva sofferto mancanza di tenerezza durante l’infanzia ed ora, ormai adulta, si sentiva incompleta.

            Nella foto vicino alla donna, un carretto a due ruote appoggiato in terra e un asino completavano la scena comunicando un’antica semplice serenità. Ebbe un brivido, ripose la foto, richiuse l’armadio.

            Fuori il sole splendeva.

Le atmosfere di Sandra: il silenzio della “pandemia”

L’ATMOSFERA DELLA PANDEMIA – di Sandra Conticini

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Non pensavo di poter rimpiangere quei giorni. Erano stati molto pesanti e brutti o meglio: particolari. Negli anni 70 un altro periodo analogo c’era stato: l’austerity.

A causa dell’aumento del petrolio per un periodo  la domenica le macchine non circolavano, successivamente le auto giravano a targhe altrne, però almeno a piedi si poteva andare.

Invece con il Covid, questo virus arrivato dalla Cina, da un giorno all’altro ci siamo ritrovati chiusi in casa, ma soprattutto all’inizio sono morte decine e decine di persone, perchè non  sapevano  come curarlo ed eravamo tutti impauriti di questo mostro arrivato da lontano.

Nonostante si fosse chiusi in casa non ci si fidava neppure dei familiari. Le prime persone che vidi con le mascherine, pensai che fossero esagerate,  dopo qualche giorno diventarono obbligatorie per tutti. Si poteva uscire solo  una volta la settimana per la spesa, ma dovevanmo stare a dovuta distanza. Per strada si cambiava marciapiede, ci si scansava e, se qualcuno tossiva o starnutiva, si fulminava con gli occhi.

In quel periodo è mancato tutto: la libertà e la condivisione.

Il silenzio era assordate, non si sentiva il rumore di una macchina, un motorino, tutti erano in casa ad inventarsi le giornate, diventate troppo lunghe.

Ogni tanto sotto casa si vedeva una volpina che si metteva al sole vicino ad una siepe. Con tutto quel silenzio e quella pace si era avventurata nella città forse in cerca di cibo. Stavo ad osservarla dal terrazzo, ma che dispiacere ho provato quando ho saputo che era morta.  Forse in quell’atmosfera stava bene solo lei.

Nonostante ormai la pandemia sia stata superata da diverso tempo, l’atmosfera dell’avanti Covid non è tornata. Le persone mi sembra siano  peggiorate. Sono diventate scorbutiche, egoiste ed  intolleranti anche alle piccole cose.

Atmosfera di Stefano: la nebbia sotto Natale

Inverno….l’altro secolo – di Stefano Maurri

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Era esposta nelle vetrine delle botteghe la locandina di “C’era una volta il West” che veniva proiettato allora alla Sala dei Salesiani. I ragazzi si accalcavano per vedere la diligenza in primo piano con la sagoma di uno sceriffo disteso per terra e con il petto insanguinato. I commenti  erano però tutti per Claudia Cardinale, intanto  don Pasetto con il suo fare atletico spingeva tutti a fare, a riprendere a fare l’attività di pallavolo, interrotta bruscamente. “Basta divertirsi ricominciamo dalla battuta!” Intanto i più piccoli  provavano i canti di Natale per la messa di qualche giorno dopo. Le luci delle botteghe cominciavano ad accendersi e i ragazzi più grandi a sciamare verso casa; chi si fermava per un pezzetto di pizza, chi dal friggitore per un panino con la polenta fritta, qualche adulto ordina il panino con  i roventini  e la salsiccia. La nebbia comincia a farsi leggera sulla città, le luci cominciano ad ingiallire e  nel buio tra le persone sembrava stendersi un velo di silenzio quasi irreale per quella strada sempre trafficata. Ormai i ragazzi erano scesi tutti a casa,  le macchine cominciavano a diradarsi, le commesse dei negozi cominciavano a recarsi a casa. Sally cammina rapida per le strade sa che a casa non l’aspetta nessuno. La sera è sempre più triste , quando  incrocia un gattino infreddolito. Non sa come comportarsi, non è abituata alla compagnia di  un animale, ma lo raccoglie e lo porta con sé.

Le atmosfere di Luca: direzione Enna

Il suono multiplo del silenzio – di Luca Miraglia

foto di Luca Miraglia

Se ti arrampichi per le strade che portano sui monti Erei in direzione di Enna potresti imbatterti in Lenofonte, un villaggio più che un paese.

Se ci arrivi nel mezzo del giorno ti accoglie solo il suono multiplo del silenzio. Poco o nulla di umano ti circonda: un carretto appoggiato lungo la sterrata via principale, un gatto polveroso rannicchiato alla sua poca ombra e di là dell’ultima bicocca un asino che un po’ scalpita e un po’ bruca la scarsa erba già quasi secca.

Il rumore dei tuoi passi sul selciato inaridito ha già messo in allarme i pochi anziani e le poche donne restate a casa per badare alla prole.

Come un piccolo branco selvatico diffidano dello straniero sconosciuto e ne spiano le mosse da dietro i pertugi.

Di là dalla piccola piazza, anch’essa sterrata, l’unica vitalità del villaggio è data da una minuscola mescita che esibisce orgogliosa un’insegna al neon e che su una lavagnetta accanto alla porta promuove un elenco sgrammaticato di prodotti oggi disponibili.

Se varchi quella soglia gli uomini del villaggio ti squadrano da capo a piedi con sguardi affilati come lame, cercando nei tuoi modi e nelle tue budella il motivo per cui sei lì a violare la loro siesta.

  • Buongiorno… scusate… ho perso la strada per Enna…

Gli sguardi torvi si convertono in un attimo in gentili sorrisi di comprensione, di compassione quasi, ed uno dopo l’altro si affrettano a spiegarti che devi arrivare al prossimo podere, poi prendere a sinistra per la sterrata che costeggia il campo di girasoli ed infine sempre dritto fino al granturco: là in fondo ritroverai la provinciale asfaltata.

E intanto fuori dalla mescita il villaggio riprende vita: gli anziani risfoderano le loro seggiole per sedersi all’ombra davanti casa, le donne escono a guardia dei bimbi che giocano nella polvere oppure con i neonati da cullare in grembo canticchiando filastrocche in dialetto.

L’unico che resta imperturbabile è l’asino che se ne sta a capo chino su quei tre fili d’erba rimasti e che magari in cuor suo sogna un fresco prato ombreggiato dove finalmente poggiarsi.

Atmosfere di Rossella B.: cambiare vita

Diario di bordo (o di bosco) – di Rossella Bonechi

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GIORNO 1

Questo è il diario del semi-esilio nel Bosco che mi sono scelta; il bisogno di cambiare registro, di scalare la marcia e rallentare un po’ mi ha portata fin qui, in questo posto dove al rumore si è sostituito un lieve brusìo e tutto sembra convivere in pace. Scrivo per poter poi rileggere e scoprire così se davvero posso percorrere un’altra strada.

GIORNO 2

Il brusìo si è fatto più consistente, ogni tanto un suono più forte lo interrompe ma se sto in ascolto riconosco il ramo secco che si spezza, un uccello impaurito che lancia un allarme, l’acqua del ruscello che gorgoglia con più forza alimentata dalla pioggia notturna. Questo non è vero silenzio, è un insieme di suoni armoniosi che mi arrivano ovattati e gentili.

GIORNO 3

Sto diventando troppo bucolica, forse mi sono fatta trascinare da questo esperimento pseudo romantico che cesserà quando la noia prenderà il sopravvento. Perché se non c’è una vera necessità a rendere il tutto reale, alla fine il castello di carte si smonta! Farò una passeggiata, esplorerò intorno e forse fugherò i cinici pensieri.

GIORNO 4

Non sono più sola, la passeggiata ha dato un frutto tenero e inaspettato; sotto un arbusto un esserino miagolante si nascondeva, malconcio, cisposo, tutt’ossi. Però aveva ancora gli artigli da felino quando ho cercato di prenderlo con me! La sua paura l’ha spinto alla difesa ma il cracker sbriciolato che gli ho messo davanti ha avuto la meglio. Insomma, ora Tigre è con me, ancora guardingo e sulle sue ma ben acciambellato sulla coperta. Il semi-esilio è finito, ora siamo in due a condividere il silenzio dei rumori. L’esperimento vale ancora?? Chi se ne frega, finchè ci stiamo bene restiamo qui, io e la Tigre del Bosco .

Incontro dell’11 dicembre 2025: Nuove atmosfere in nuove storie

Da scritture precedenti ricaviamo spazi per nuove storie

“Inizialmente solo un brusio strano fatto di mancanze, niente macchine, vicini, passanti, luci, perché anche le luci fanno rumore. Solo un brusio quasi assordante come filtrato da una garza attorno alle orecchie. Poi piano piano il suono del silenzio si allarga, diventa multiplo”. (Carla)

“In tutte le botteghe della piazza compare la stessa foto sbiadita dal tempo: un carro a due ruote, vuoto, piegato sul dietro, un ciuco che scalpita sui sassi, una donna lì vicino che tiene in collo un piccino e lo batte dolcemente in modo ritmico per ninnarlo. Il ciuco bruca la poca erba che sbuca dal terreno. “(Gabriella)

“Dalla parte opposta il vinaio si aggira fra i tavoli disposti dinanzi alla bottega: sistema le cortine per fare un po’ d’ombra. Gli avventori seduti dinanzi a bicchieri di vino, giocano a carte. Le monete corrono sul tavolo tra moccoli e imprecazioni, battute e risate. In lontananza i sonagli annunciano l’arrivo della diligenza che viene dalla città. Quando arriva si ferma all’incrocio tra la via e la piazza. Scende solo un uomo tutto sporco di sangue. Fa due passi e si accascia a terra.”(Gabriella)

I personaggi di Carla: Toledo arrivoooo

Verde speranza buona – di Carla Faggi

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Finalmente era arrivato il primo giorno di pensione!

Lo aspettava da tanto, amava il suo lavoro da infermiera, sapeva che sicuramente le sarebbe mancato, ma era stanca, non riusciva più a reggere il mondo con le sue sole spalle. Non era più in grado di sostenere le sofferenze, le morti, il dolore. Non riusciva più a consolare, a curare.

Voleva non capire, non sentire, non occuparsene, insomma voleva andarsene!

Ed ecco finalmente il grande giorno.

Si vestì di verde colore della speranza, ma quella buona che si avvera sempre.

Mise anche una trina rossa, per suggerire la passione per la vita, per l’avventura, per l’amore.

Poi indossò un paio di calze gialle e viola come il tramonto in estate, preludio di serate calde e goderecce. Indossò anche un mantello color oro perché d’oro dovevano essere i suoi futuri giorni in Toledo.

Toledo, città di passione, di amori sanguigni. Città di sesso e cibo, di balli e vino, di nottate e di giorni dove non si dorme mai. Si immaginò una vita spericolata come Vasco cantava!

Un biglietto d’addio al suo noioso marito… o meglio un messaggio criptato, gli scriverò che mi hanno rapito gli alieni, tanto lui la fantascienza se la beve a colazione!

Oppure gli scriverò che mi sono trasformata in un araba fenice proprio all’interno della teglia delle bruciate, solo che per ora sono rimasta solo cenere. Oppure un enigma o…solo cuoricini, tanto io sarò già a Toledo a gozzovigliare. Pensi quello che vuole!

Aspettatemi maschi spagnoli, arrivo!