I tre personaggi si incontrano a Livorno: il sorpasso sul Romito di Stefano

Il vero sorpasso – di Stefano Maurri

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Era il 1951 quando la famiglia Rosati, composta dal padre, dalla madre e da tre fratelli, arrivarono a Livorno dalla provincia. Il padre, di Caserta, cominciò a lavorare come facchino nel porto, la madre come rammendatrice in casa, nel quartiere di Ovosodo, dove le case popolari cominciavano a crescere come funghi. Quando si presentava al porto il suo volto forte e solare si apriva al sorriso per i compagni di lavoro; il sudista, come lo chiamavano, aveva imparato rapidamente a bere ponch, a bestemmiare e  farsi fare tatuaggi o dire “ci vediamo deh”. La moglie mandava avanti la casa insieme al figlio che cominciò rapidamente a farsi ricordare in cortile per cazzotti,  botte, libri tirati dietro. Alla mamma che si lamentava ripeteva spesso “il fulmine non cade due volte sullo stesso albero”, intendendo dire che non sempre sarebbe andata come adesso,  che tutto poteva migliorare. Il suo volto glabro e malinconico aveva raggiunto l’età dei diciott’anni quando a bordo di una motoretta  scassata e senza marmitta, fece la sua prima rapina alle poste, dietro il mercato. Cominciò così una serie di rapine nel quartiere sul lungomare a Castiglioncello: lo chiamavano il rapinatore bambino per il suo aspetto giovanile e dinoccolato, sembrava che non si potesse acciuffarlo, quando, dopo un’ennesima rapina sui tornanti del Romito incrociò una macchina, una spider rossa, guidata da un giovane biondo con a bordo un altro signore più attempato. La spider  sbandò e finì contro la motoretta, che precipitò nel burrone prima ancora della macchina. Il mondo si ricordò dei due componenti la spider: Jean Louis Trintignant e Vittorio Gassmann, ma nessuno fece caso al rapinatore-bambino che sparì nel nulla.

I tre personaggi si incontrano: la sola camera a Napoli di Rossella G.

Napule è mille culure – di Rossella Gallori

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Il “basso” era più in basso degli altri, il vicolo così stretto da sembrare un magro budello colorato qua e la da un sole sporco che si rifletteva nelle pozze animate da bucce di pomodoro, i panni nuvole grondanti quasi puliti salutavano i fiori ciondolanti dai balconi…..

Ore  23 o poco più ,tacciono i guaglioni, rumoreggiano gli sciacquoni, qualche gemito sommesso, ma non troppo, frutto di amori semplici, il suono di qualche schiaffo preventivo per corna improbabili.

Il sipario si apre lentamente su una notte d’inverno così fredda d aver paura a respirare.

Lui, straniero nel suo paese, chiaro per esser nero, scuro per esser bianco  imbronciato

nell’ aspetto, stanco dentro si appresta a spengere l’ insegna…gridando in un  dialetto stretto, poco suo : chi ha da venì se spicciasse!!!

Proprietario suo malgrado  di “oh tumbarolo” una catapecchia da gestire, pulire, definita locanda di ordine non ben definito, faticosa e poco redditizia, mani sporche, poco guadagno….quella notte poi era stata la fine di un giorno scurnacchiato e quelle voci alle sue spalle lo confermavano: un momento un momento!!

 Un lui arrivava da destra, un essere lungo più naso che occhi, brutto abbastanza da nascondere il portafoglio, un sorriso un po’ ebete….una sacca enorme ed informe ciondolava dalla sua spalla migliore, rendendolo un po’ gobbo.

Una lei arrivava da sinistra:  un punto esclamativo capovolto, bagnata d’ acqua piovana, piedi piccoli ed instabili, un qualcosa sul capo non distinguibile, tra il cappello e “ nu tummolo e capelli” . Una lei anonima e strillante: una camera gridò, una cameraaaaa.

La sua voce solista diventò coro: una  camera, una cameraaaa , gridò l’uomo dal lato opposto.

UNA sola tengo!

La prendo io! Tuonò l’ uomo appoggiando la sacca informe per terra.

No io, sia cavaliere!

No io

No io

Fate come volete e “ facite ampresse”  due letti, una chesselongue, senza finestra ed il bagno sta fuori.

Io!

No io

Lui prepotente, lei trasparente….si ritrovarono a dormire insieme, in una notte da lupi infreddolita, due sconosciuti in una “ sperlonga” di camera, un vassoio ovale ed inospitale umido un Po tanto, separati da un comò traballante.

Il proprietario stanco ed incazzato se ne era andato sbattendo la chiave sul bancone tarlato, tra porte e finestre da chiudere, cessi da pulire….l’ alba si annunciava.

Sperò malignamente negli scherzi di “ Tonino da Fratta maggiore” fantasma un Po pezzente abitante da sempre nella sua pensione, li avrebbe spaventati? Uniti? Si sarebbero trovati uniti, parecchio, in un solo letto? Chissà!!!

Una voce e fornaio intonò una canzone, la canzone: oh sole mioooo, sta in fronte a teeee

E pioveva pioveva, acqua grassa, quasi neve, poche ore lo separavano da rientro, doveva e voleva riposarsi…con il solito dubbio sul farsi e non farsi la barba, se usare o no il bruschino per le sue unghie incolte.

Nata iurnata  lo aspettava…..

I tre personaggi si incontrano: I brutti fratelli di Napoli per Stefania

Fratelli – di Stefania Bonanni

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La storia di quella disgraziata famiglia e’ stata ricostruita da poco: erano stati, i tre disgraziatissimo bambini, fatti sparire, non si sapeva né dove, né con chi, né da chi.

Erano anni difficili, quelli del dopoguerra a Napoli, ed in quella casa tutto crollo’ quando divenne chiaro che l’attesa del ritorno del capofamiglia sarebbe stata infinita, ed ovviamente inutile.

Carmela resto’ sola con quei tre bambini, due maschi ed una femmina, e davvero si sentì persa. Non mangiava neanche lei, non vide altre soluzioni. Non si sa come fece, né cosa fece. Dissero anche li avesse venduti, ma quando la voce arrivo’ fino a lei, chiari’ a tutti, una volta per tutte, che erano così brutti che non li aveva voluti comprare nessuno.

Uno finì a Caserta, in una famiglia contadina che aveva bisogno di braccianti.

La femmina si fece suora in un convento di clausura, il fratello piu’ piccolo divento’grande e grosso e fu adottato da uno che non si sapeva che mestiere facesse, ma viaggiava per Napoli con un gran macchinone.

Tutto questo fu scoperto quando la suora, al passo con i tempi e con i trend televisivi, ando’ a “Chi l’ ha visto” a raccontare la lacrimevole storia della famiglia Cirillo.

Tra lacrime ed abbracci, si riconobbero e si raccontarono le vite trascorse e sconosciute ai fratelli.

Il figlio maggiore, quello che viveva a Caserta ed aveva il mestiere fin sotto le unghie, disse di aver sempre avuto da mangiare e di aver sofferto solo di fatica. Si trovava bene, viveva al caldo di una stalla piena di animali, e non soffriva di solitudine, anche se le conversazioni finivano sempre a grugniti.

Suor Scintilla, dispensata dal vescovo per l’ apparizione televisiva, racconto’ nei dettagli l’ illuminazione della “chiamata”. Vide una luce accecante che le rese improvvisamente chiaro il futuro: il velo era finalmente la soluzione. Con il velo avrebbe potuto smettere di pensare ossessivamente ai capelli, che le sarebbero stati tagliati e poi nascosti per sempre. Nel convento aveva anche trovato compagnia per cantare e pregare, e pazienza se la sveglia suonava quando era ancora notte fonda. Si era piano piano abituata. In fondo le ore che dormiva erano piu’ comode di quelle di Napoli, quando divideva un materasso in terra con i due fratelli, e lei aveva la testa tra i loro piedi.

Quello che in televisione non si capi’, fu la vita del terzo fratello.

Brutto come da piccolo, naso largo su faccia lunga ed ossuta, aveva sviluppato un fisico possente ed un’espressione feroce, anche se in lui si percepiva qualcosa di stonato, non allineato. Racconto’ che aveva con sé molte cose, accumulate nel tempo, che teneva nel piccolo basso dell’ infanzia, che aveva comprato ed usava come deposito.

Lì, la troupe si scateno’. Tutti pensarono si trattasse di droga, che fosse al servizio di qualche capo camorra, e volevano fare lo scoop. Cercavano di fotografare il basso, rimasero in agguato per giorni e giorni. Quando riuscirono a farsi aprire la porta, rimasero di stucco.

Tutti gli spazi erano riempiti di strani, piccoli bastoncini. Non capirono cosa fossero finché il padrone di casa non racconto’. E fu una storia strabiliante.

L’ energumeno parlava, gli occhi si inumidivano, le gote si arrossavano. Disse di seguire i bambini, di guardarli succhiare colorati lecca-lecca, di aspettare gettassero i bastoncini, e di raccoglierli. Piu’ di tutti, lo commuovevano quelli che venivano buttati con qualche residuo di zucchero ancora appiccicato.

Non riusciva a permettere che si potesse gettare la dolcezza.

I tre personaggi si incontrano a Sorrento: il casolare in campagna di Rossella B.

Incontrarsi – di Rossella Bonechi

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Dalle finestre del casolare nella campagna di Sorrento il sole bianco e sciabolante di inizio inverno illuminava il suo salotto, una stanza che sembrava il magazzino di un rigattiere; non buttava via mai niente, tutto aveva un significato per lui e quello che non lo aveva lui sapeva che in seguito lo avrebbe mostrato. La sua scarsa avvenenza fisica aveva fatto sì che in quella casa ci vivesse da solo e lui nel tempo aveva occupato anche gli spazi destinati ad una mancata compagna di vita. Stava bene tra le sue cose, tra i mucchi di riviste polverose, vasi sbreccati, specchi sbilenchi e vecchie stampe ingiallite e questo suo stare in pace si rifletteva nel sorriso mite e franco che le persone in paese conoscevano bene.

In questa mattina fredda ma luminosa il campanello della porta interruppe il suo lavoro e posati cacciavite e occhiali sul tavolo ingombro si affacciò a veder chi fosse: una ragazza, che batteva i piedi infreddolita nell’attesa e facendosi mille domande in una manciata di secondi, si affrettò per questo ad aprire. Lei, salutando, spiegò timidamente di essere la figlia del vicino, insomma…non tanto… diciamo della casa che si intravedeva oltre l’uliveta. Boh…non sapeva nemmeno che il vicino avesse una figlia, conosceva solo i cinque ragazzoni che coltivavano i campi e che ogni tanto incontrava in paese. “eh, lo so – disse lei – non ho grandi qualità e non mi piace mettermi in mostra, a volte anch’io penso di non esserci. Anche ora mi vergogno un po’ di disturbarla ma avrei proprio necessità di un aiuto; questo non funziona più e non so come fare, in casa non c’è nessuno e quando tutti torneranno dev’essere pronto.” Intanto si guardava intorno mentre lui sorridendo apriva scatole e scatolette piene di viti, bulloni, guarnizioni, ferretti e tutto quello che vedeva le sembrava come un Gran Tesoro. “Ci penso io, siedi e aspetta un po’ che  penso di avere ciò che occorre”. E così fu che le risolse il problema.

Il sabato seguente andò in paese e all’ufficio postale gli si avvicinò un tipo alto e col volto cotto dal sole del Sud che in modo un po’ burbero lo ringraziò: era il padre della ragazza, che lo invitò pure a prendere un caffè da loro appena avesse voluto.

Una storia da niente, un piccolo episodio di un paese alla periferia di un altro paese, Sorrento, che però trasformò in una piccolissima comunità chi fino ad allora non si conosceva nemmeno.

I tre personaggi si incontrano: su e giù per Livorno con Carla

Incontri a Livorno – di Carla Faggi

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Dé, chissà perché quegli brutti son tutti dolci e malinconici, pensava Mariuccia guardando Son Intonato il suo maestro di musica, italo americano rientrato per insegnare all’Accademia Mascagni.

Dolce e malinconico si! ma anche tanto, tanto simpatico.

Poerino è un po’ come me, bruttino, però lui ha un sorriso contagioso, mette allegria io invece con l’apparecchio ai denti, i capelli a riccio, un tegame sono! Ma mi sa che simpatica no, non ho amici!

O meglio un amico lo tengo perché mi saluta sempre quando attraverso Piazza Grande per arrivare all’Accademia. È  bellissimo, tipo bello impossibile e poi è sempre pieno di ragazzi che gli girano attorno, deve essere un commerciante ambulante perché gli danno dei soldi e lui gli lascia qualcosa, come un pacchettino piccolo piccolo, non so cosa sia perché lo scambio avviene sempre in modo furtivo. Mi pare si chiami Spac Ciami, forse è asiatico visto il cognome.

Però per me il mio migliore amico è il mio violoncello, mi somiglia anche, alto quanto me, vita fine e fianchi larghissimi proprio come ho io. Solo con lui mi sento di esistere. Sa ascoltarmi ed interpreta quello che sento.

Comunque per socializzare un po’ stasera dopo la lezione mi fermo da Spac, chissà se gli compro qualcosina pure io sarà contento e potremmo diventare veri amici e andare a ruzzà in terrazza Mascagni.

I tre personaggi si incontrano: il matrimonio a Milano di Luca

Il matrimonio a Milano – di Luca Miraglia

E’ un giorno livido, tipicamente milanese.

In Piazza Duomo il solito via vai di turisti affascinati e milanesi indaffarati.

Anche lui e lei sono lì, tenendosi per mano.

Avevano sperato in una luce più entusiasta per quel giorno speciale: il giorno del loro matrimonio.

Lui un po’ avanti con gli anni, per niente bello ma con un sorriso aperto che mascherava però le sue manie ossessive da scapolo quasi impenitente.

Lei molto più giovane, ultima di una covata di figli del sud emigrati in cerca di quella fortuna che difficilmente arriva. Infatti l’ultima spiaggia era diventato questo sposalizio: non per interesse certo, ma neanche per passione.

Lì sulla piazza, per mano, entrambi agghindati per la bisogna, sono in attesa del sacerdote che li avrebbe accompagnati in una cappellina della cattedrale per consacrare con un po’ di mestizia la loro unione.

Eccolo che arriva: alto e asciutto, dal volto scavato, le mani più da contadino che da prelato.

Con un cenno sollecita gli sposi a seguirlo.

Niente codazzo di parenti o ospiti festanti, solo lui, lei e il prete contadino.

Non sembra un buon inizio, ma un attimo prima che l’improbabile terzetto scompaia nella penombra della chiesa, ecco il sole sbracciare tra la bruma e affrettarsi a lanciare loro un tiepido abbraccio.

Lui e lei sorridono confortati, il prete no.

I tre Personaggi si incontrano: la bambina roccia di Lucia

Attesa sulla panchina – di Lucia Bettoni

foto e disegno di Lucia Bettoni

Non era Place Vendome
Era Place de Vosges
le panchine erano proprio quelle e proprio su una di quelle panchine lei attese
Attese tutte le stagioni e poi ancora e ancora
Lei era forte come la roccia
determinata e inamovibile
Si era fortificata piano piano
Piano piano da bambina lupa, da bambina albero, da bambina invisibile era sopravvissuta ed era  diventata roccia
Era diventata così forte che seppe attendere sotto la pioggia, il sole e il vento
Ferma ,immobile, quasi congelata
Gli uccelli si posavano sulla sua testa e le sue spalle, beccavano sopra i suoi piedi e le arruffavano i capelli
Lei rimase ferma, neppure un piccolo gesto
Sembrava una statua
Era chiaro però che fosse una donna in attesa
Un giorno un rumore inconsueto interruppe la normale scansione del tempo
Un uomo con un sacco lungo e stretto stava passando sotto i portici della piazza
Dentro il sacco qualcosa di metallico batteva sulle pietre della strada, batteva sulle colonne, contro i tavoli e le sedie dei caffè
Il sacco batteva ovunque scandendo la sua presenza ma soprattutto la presenza di chi lo trascinava
Lui conservava tutto e tutto trascinava dietro di sé
Lei fece il suo primo movimento dopo tutte le stagioni, tutte le piogge e tutti i soli
Giro’ la testa come una marionetta, solo un piccolo movimento mentre tutto il corpo rimaneva immobile
Era lui che aspettava?
Fu sufficiente un attimo e lei tornò di pietra, immobile, ferma
congelata
Perché l’attesa congela e fortifica
Non era lui
Passarono ancora i giorni e le notti e ancora giorni e ancora le  notti fino a quando un vento che profumava di terra avvolse la piazza, alzo’ le foglie e le vesti
mescolo’ in un vortice tutto ciò che incontrava
Lei apri’ le braccia
annuso’ bene l’aria
Era lui con le mani solcate di terra

Incontro del 27 novembre 2025: I personaggi creati una volta ritornano in nuove storie

Personaggio 1

Aveva la mania di conservare tutto Luigi, non era bello, il naso largo e un po’ schiacciato stonava con il viso lungo e spigoloso e gli occhi neri si perdevano quasi da quanto erano piccoli.

L’unica nota piacente era il sorriso sincero, dolce e un po’ malinconico che lo portava a diventare amico di tutti, sapeva di essere brutto e questo difetto aveva accentuato in lui una simpatia che tutti apprezzavano. (Carmela)

Personaggio 2

E’ nata in un paese del Sud, uno di quelli in cui tutti conoscono tutti. La più piccola di 5 fratelli, tutti molto più grandi di lei.

Ha dovuto fare a pugni con la vita, fino da piccola, per farsi considerare. Si sentiva, ed era, invisibile. Né bella, né brutta. Né grassa, né magra, era di un normale che tendeva all’insignificante.

Capelli ricci, grossi e castani, di quelli che non si domano nemmeno a cannonate. Doveva inventarsi ogni giorno nuovi sistemi per tenerli a bada. Di tagliarli non se ne parlava. L’unica volta che l’aveva fatto, per insistenza di sua madre, si era ritrovata con un palloncino setoso in testa, una via di mezzo fra il casco di un palombaro e quello di un astronauta. (Nadia)

Personaggio 3

Alto quel tanto che non è troppo

Un viso ossuto dalla carnagione di un oro bronzeo, frutto di un sole buono…quasi lontano.

Le labbra imbronciate, semichiuse.

Un filo di barba un po’ voluta, un po’ cialtrona.

Mani grandi, segnate qua e la da graffi vecchi, piccoli segni bluastri sulle falangi, le unghie, solo anonime falci mangiate dalla terra.

Sorrideva!! Sorrideva?…  al suo arrivo il sole per primo abbassò la guardia,  su una sensazione….di freddo…(Rossella G.)

Lettera a Cecilia di Carmela: vado a Napoli

Lettera a Cecilia – di Carmela De Pilla

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Carissima Cecilia,

sono sul treno che mi porta a una delle città che amo di più, mi sarebbe piaciuto andarci con te, ma ti racconterò tutto al mio ritorno, magari mentre si sorseggia una buona tisana.

Non so di preciso cosa mi attrae, di sicuro sento un forte legame e quando penso a una città penso a lei, i  colori, l’antico sfarzo, il caos, il vociare delle donne, gli abbracci, la pizza, tutto mi attrae e mi lascio incantare.

Qualche giorno fa  passando nei pressi della stazione di S. Maria Novella ho sentito quel richiamo e senza pensarci troppo ho comprato il biglietto ed eccomi qui su un treno un po’ anonimo a dire il vero, uno di quei treni moderni con un unico scompartimento che non invita certamente alla conversazione, tutti con gli occhi bassi rivolti verso il computer, il tablet o il cellulare, soli con i propri pensieri.

Come rimpiango, cara Cecilia, gli scompartimenti di quei treni forse un po’ troppo vecchi e a volte maleodoranti, ma tanto accoglienti che ci portavano a raccontarci, si chiudeva la porta scorrevole e in un attimo tutto diventava più intimo , come vecchi amici ognuno raccontava un pezzetto della propria storia.

Manca forse mezz’ora all’arrivo e mi sento già piena delle tante bellezze che andrò a vedere, ci sono stata più di una volta, ma il desiderio di rivederla mi rende sempre felice.

Assaporo già il piacere di essere lì, un piacere che a volte stordisce per le forti contraddizioni insite nella sua stessa natura e tutto accade tra il bello e il fatiscente, tra la commedia e la tragedia, tra il forte senso di appartenenza e l’abbandono.

E che dire della bella signora incontrata l’ultima volta?

Ero entrata nel negozietto per comprare un paio di orecchini e in breve tempo ci siamo ritrovate tra una chiacchiera e l’altra a sorseggiare un caffè appena uscito dalla moka.

Ecco, intravedo il cartello, NAPOLI, tra poco affonderò le mie radici nelle sue e mi lascerò incantare dal mistero del Cristo velato, il velo trasparente e leggero appena appoggiato sul corpo lascia intravedere la sua profonda sofferenza e ti senti coinvolto, mi lascerò incantare dalla magnificenza del teatro S. Carlo, dalla geometria impeccabile di Piazza Plebiscito, dalle infinite scalinate affollate di donne, di bambini, di panni tesi e verrò rapita dalle voci, dai sorrisi, dalle canzoni, dalle  statuine, dai presepi che  Spaccanapoli mette in bella mostra, orgogliosa di esibire i suoi tesori.

Sono sicura, Cecilia che piacerebbe anche a te immergerti in questa armonia caotica, nella speranza di fare il prossimo viaggio con te ti mando un bacio.

Lettera a Cecilia di Gabriella: vado a Salerno

Evasione – di Gabriella Crisafulli

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Cara Cecilia

Ti scrivo mentre sono in viaggio: sto andando a Salerno.

Mi ha intrigato un progetto di soggiorno all’Hotel “Il Faro” per partecipare ad una settimana di incontri in cui il tema centrale è il gioco.

La proposta era quella di prendere parte a tornei di bolle di sapone, di lancio di desideri, di sfide all’ultimo tarallo, di fuga dalle ragnatele di corde, di partite a tappi, di balli con ombrelli colorati, di chiacchiere d’uccelli, di risate fino alle lacrime, di sfilate di armi improbabili, di concerti di pentole e coperchi, …

Il progetto è stato per me davvero attraente: abbinare l’aspetto ludico al poter rivedere ancora una volta il castello Arechi che regala indimenticabili scorci marini, la Cattedrale, il giardino terrazzato della Minerva con le sue piante medicinali.

Mi affascinava pure l’idea di ripercorrere la storia della città lungo le sue strade, dalla dominazione longobarda al Principato di Salerno che arrivò a inglobare gran parte dell’Italia meridionale fino al periodo normanno in cui Salerno era capitale del Ducato di Puglia e Calabria.

E poi c’era l’aspetto della cucina così legata all’influenza dell’antica comunità ebraica.

Ancora una volta, però, mi sono trovata decidere di andare senza sapere se lo volevo davvero.

Anzi ho scoperto, quasi all’improvviso, che non lo volevo proprio.

E dopo aver stabilito, organizzato, fissato, prenotato, pagato, dopo mail, telefonate, contatti, … mi sono trovata prigioniera di una nebbia paralizzante che faceva muro intorno a me e impediva qualunque movimento. 

La valigia restava aperta in attesa di ciò che volevo mettere dentro ma non non sapevo cosa e stavo ferma a guardarla immobile.

Più si avvicinava il momento in cui dovevo uscire di casa meno energie mi ritrovavo mentre di pari passo aumentava la confusione e l’incertezza.

Era forte in me il desiderio di stare insieme a persone con le quali entrare in contatto, di ridere, di scherzare con loro sulle situazioni buffe che si sarebbero venute a creare all’Hotel “Il Faro”.

Ma molti anni prima ero salita sul carro di Zampanò e non volevo ripetere l’esperienza.

“Vedrai” mi dicevano “andiamo al “Norde”, nel grande mondo”

Balla ragazza, balla.

“Sei contenta?”

“Sì, sono contenta”

Pappagallo mi chiamavano perché sapevo rispondere a tono, battevo le mani e ridevo.

Quando non ho riso più sono stata rimproverata: “Bambina cattiva” mi dicevano.

Il mio piccolo mondo antico si è perduto per sempre.

Il pappagallo si è rotto ma viaggia ancora. 

Lettera a Cecilia di Tina: vado a Trieste

Lettera a Cecilia – di Tina Conti

Cara Cecilia, ormai scrivere è diventato per me una  bella maniera  per passare il tempo. E tu ne sei in parte responsabile.

Oggi, sono in treno, sto andando per la seconda volta a Trieste.

Ho pensato così di  scrivere delle lettere   da mandare alle persone  che mi sono nel cuore

E tu sei una di queste, da quando ti conosco ho dato molta più importanza alle parole.

Quando riordino i cassetti e trovo vecchie lettere, provo tanto piacere e le conservo  con gratitudine perché, rispolverano  emozioni e esperienze che avevo dimenticato.

Penso che comincero’ a scrivere  nel librino delle frasi buffe dei miei nipoti anche delle lettere dedicate per non perdere quei pezzi di cuore che loro   per la fretta non percepiscono.

Nelle mie mattinate  di perdigiorno, rileggo , modifico, aggiusto  vecchie cose scritte, e  nuovi pensieri. Ma ritorniamo  a te, la prima volta che venni a Trieste con un gruppo di amiche ero molto contenta e coraggiosa.

Uscivo da un periodo nel quale episodi di vertigini e malessere mi avevano azzoppato.

Partire con le amiche care mi dava coraggio e forza.

Anche oggi mi sfido, parto da sola, mi devo mettere  nuovamente alla prova.

Ieri,  ho compiuto 89 anni, sono stata festeggiata  con affetto dalla mia famiglia, hanno cucinato loro per fortuna. Mio marito è stato ben contento che partissi da sola, lui gioca a carte tutto il giorno e  metodicamente  va a passeggiare a Fontesanta.

Sono stata prudente  nel preparare  le valige, vestiti  caldi e comodi, scarpe basse e una scatola con tante  medicine per gli acciacchi.

Spero di divertirmi anche questa volta, ho anche un appuntamento  con Gina per martedì.

Vicino a me nello scompartimento, c’e un signore  distinto, un po’ piu’ giovane di me mi sembra: porta un completo grigio di ottima fattura, ha baffi e capelli bianco|brizzolati.

Parla volentieri, non spippola sul cellulare , ha risposto a una chiamata con un vecchio modello uguale al mio . Ha proposto di portarmi in giro per la città, lui è triestino autentico.

Quando scenderemo  , mi accompagnerà all’hotel  e mi indicherà dove  ci troveremo  domani pomeriggio, per poi cenare al suo locale  storico situato  nella  bella piazza grande .

Che emozione rivedere questa citta  con la bella luce e il riverbero del mare vicino.

Per fortuna non c’è vento, la volta precedente abbiamo passato  l’ultimo giorno  con ventate tremende che  ci facevano volare, ma ci siamo divertite tanto, sembravamo  delle  ragazzine  a rincorrere sciarpe e cappelli.

Quante scemenze ci siamo raccontate, eravamo molto giovani, ridevamo anche dopo aver perso  la Marcella   che non si è certo persa d’animo   ed è andata ad aspettarci alla stazione dopo aver laciato un messaggio in hotel.

Non la trovo molto cambiata questa città, le  persone mi incantano quando parlano in dialetto.

Non riesco a capire niente.

Ho voglia di rivedere  Gina e stare  un po’ con lei, ci conosciamo da tanto tempo e apprezzo molto le sue opere, in metallo e legno. Venerdì, nella piazza Carlo Magno  ci sarà una grande festa per l’inaugurazione di una sua Installazione vicino alla  fontana.

Chissà come si presenterà, lei veste molto   fantasioso e con tanti colori, quanto parla! io capisco la metà dei suoi discorsi, faccio però un viso interessato e partecipe. Al telefono poi, mi servirebbe un traduttore  specialmente quando mi risponde che si trova “in Barcola a ciappà il sol”

Lettera a Cecilia di Daniele: vado a Sorrento

Torna a Surriento – di Daniele Violi

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Con i biglietti gratuiti in treno, perché figlio di ferroviere, mi sono potuto permettere viaggi meravigliosi fino alla età di 25 anni.

Ti pare che con tremila chilometri a ufo me ne sarei stato appena diciottenne senza assaporare la libertà di vedere questo mondo e toccarlo con mano. Si, allora appena potevo, viaggiavo e tentavo anche di valicare i confini del dolce nostro paese, dove allo stesso modo potevo usufruire con una riduzione sul biglietto e scatenarsi a visitare e insieme assaporare storia e geografia che ho sempre amato e che mi appassionano ora più di prima con tutti gli aspetti sociali che ne sono coinvolti. Il concetto di condivisione modello Erasmus, avevo capito di tenerlo a battesimo e quindi via!

Si Carissima, questa opportunità mi faceva sentire abitante ancora di più di un insieme di culture che non erano lontane da me, che non mi impaurivano pur essendo giovane, ma incuriosivano e stimolavano la grande voglia di volare sul mare aperto della vita che si gusta quando si sogna, si vuole conoscere e si ama la libertà. Ebbene si’, il dolce paese lo ho attraversato tante volte. Anche in autostop. Ritenersi fortunato è dire poco. Poter raggiungere perle di mare, posti stupendi, di una bellezza naturale anche con il contributo umano, che da tempi antichi ha condiviso con la fatica, il piacere per il profumo e l’armonia della poesia che circonda il contatto con il mare e la terra dove i suoi frutti sono come sirene, per la bontà che esprimono. Vuoi mettere trovarsi sulla riva del mare e scorgere piante di limoni, di fichi, pergole d’uva, orti con pomodori e peperoni, delizia nella delizia.

Dovevo tornare ma arrivare in un luogo allegro, un luogo conosciuto, di cui addirittura anche le melodie e l’arte della musica, ne hanno reso una celebrità. Torna a Sorrento. Si’, sai sono tornato e sono felice. 

Lettera di Cecilia alle Matite: vado a Trieste

Città laterale – di Cecilia Trinci

Trieste mi mancava. Non sapevo immaginarla, così esterna all’Italia, troppo spinta sulla destra delle carte geografiche, così zigzagata nei margini, su quel mare adriatico considerato da noi toscani marittimi, così poco salato, poco profondo, poco azzurro, col sole che tramonta e sorge al contrario.

Non mi era capitato di andarci e ho chiesto di assolvere questa mancanza per il mio matrimonio tardivo. Scomodo salire in autostrada oltre Bologna in giorno di lavoro, un traffico scoraggiante per una coppia attempata e una macchina timida, ma la curiosità spingeva come dopo mai più è successo. Dopo una serie indefinibile di tunnel eccola, Trieste, adagiata su un mare piatto , celestino, quasi invisibile nel contrasto del cielo appena appena disegnato, controluce di mattina presto, sdraiata proprio con il profilo zigzagato imparato nelle carte geografiche. Incredibile fu questo primo incontro con una terra che davvero era come l’avevo vista disegnata. Improbabile come il ghirigoro di un fantasista.

Era luglio quando entrammo in città, calda, nonostante la lieve brezza di mare che si spinge indifferente fino dentro alle vie. Le persone camminano sui muretti lungomare, si siedono al sole appena al di là dei parcheggi, fanno il bagno in pausa pranzo affollandosi su spiagge di pietre, senza un solo chicco di sabbia. Le ragazze, giovani e  anziane camminano spavalde, a testa alta, poco vestite, accese, sicure, altissime e flessibili. Le signore anziane non esistono a Trieste, ci sono solo ragazze di età variabile, dallo zero ai cento anni, sedute sui muretti con la faccia al mare, come sirene silenziose e colorate o che camminano fresche, a lunghi passi. Non esistono pause, brevi o lunghe che non si spiaggino al mare, nei bagni che si alternano ai negozi e alle fermate dei tram, o sui sassi liberi. Profumo di caffè e di nafta, odore di pesce e di lavanda, di grappa e biscottini, gamberetti e maionese. Gente libera, abituata al vento, a resistere al vento forte, al grecale di mare, ai monti carsici, alle guerre e ai popoli diversi.

Vorrei tornare in inverno, quando le città del nord sono più vere.

Lettera a Cecilia di Stefano: torno da Trieste

La terza volta a Trieste- di Stefano Maurri

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Ritornare a Trieste per la terza volta: ormai quella città mi è entrata nel cuore. Una volta sicuramente perché è stata la prima tappa del viaggio di nozze e  non mi dilungo a raccontare i posti più noti dove siamo stati e alcuni aspetti più specifici. Come la particolare Duino con il suo castello, che ancora appartiene  a un ramo dei principi di Sassonia e  le sale romantiche ancora più di quelle del Miramare. La cosa più inquietante è che fu anche la  sede del comando dei sommergibili nazisti. Attraverso un  dedalo di  cunicoli si arriva al  porticciolo sottostante a cui attraccavano i tedeschi.  “La multinazionalità di Trieste si legge in tutti i suoi angoli” mi fu ricordato quando andai per un convegno sui servizi sociali da un dirigente della regione. Qui si parlano l’italiano, il tedesco, lo slavo, il friulano; la madre di lui era nata prima del 1918 e aveva avuto documenti  austriaci, del Regno italiano, del Terzo Reich, della Repubblica jugoslava, degli alleati, della Repubblica italiana. Ormai si sono in parte sopite le contrapposizioni linguistiche ma quando sotto la statua di Oberdan appare la scritta  “fora italian” ne appare subito un’altra “fora slavi “. Trieste è una città dove ancora resistono i caffè, i negozi piccoli riservati dove puoi trovare un vetro di Murano a prezzi decisamente inferiori a quelli di Venezia o un libro antico. Come tutti i ritorni non sempre questo mio  è fortunato; non parlo del viaggio di nozze ma di quello fatto per motivi di lavoro, quando, alla cena qualcosa di avariato mi perseguitò per tutto il viaggio di ritorno,  senza concedere una guarigione definitiva. Trieste mi è rimasta nel cuore e…. nell’intestino

Lettera a Cecilia di Rossella B.: vado a Parigi

Scrivere per aspettarti – di Rossella Bonechi

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“scrivere a qualcuno è l’unico modo di aspettarlo senza farsi male”                                            …io che vado e due signore che tornano…

Cara Cecilia,

ti scrivo per scusarmi ancora se nelle prossime settimane diserterò i nostri giovedì ma un’occasione come questa non potevo proprio perderla! Ho pensato che mentre il paesaggio mi scorre accanto veloce dal finestrino, scriverti fosse la cosa più vicina a quello che mi hai insegnato a fare, e ad essere sincera è anche un modo per precludermi agli sconosciuti compagni di viaggio che hanno come me un biglietto in tasca per Parigi. Non voglio conversare per forza, sorridere per garbo, scovare domande improbabili per evitare quelle banali, voglio solo godermi il viaggio, pregustare la meta, ripassare il mio zoppicante francese e…. Perchè si ferma ??? Dove siamo? Sfuggo lo sguardo interrogativo del mio vicino e leggo il cartello rimettendomi gli occhiali: ah, sì, Torino. Tappa prevista ma non mi aspettavo una sosta così lunga. Per ingannare un po’ il tempo altro non posso fare che parlarti di quel che vedo: i passeggeri del treno fermo a fianco sono tutti scesi, una folla che alla spicciolata, sgocciolando dalle portiere, intasa pian piano il binario. Parlano tra loro, un po’ si agitano, qualcuno gesticola con il capo treno. Solo una bella signora bionda, vestita elegantemente ma con brio, guarda verso di noi e per un attimo incrocia il mio sguardo e mi sorride, poi allarga le braccia come a dire “pazienza!”. Mi ha spiazzato il suo sorridermi e mi dispiace non aver fatto altrettanto. Ecco, stanno rimontando tutti sul loro treno e …. ” fermi ! fermi ! ” mi verrebbe da gridare “c’è una persona rimasta indietro che deve ancora salire !” ma posso continuare a scriverti tranquilla: con le falcate delle sue belle gambe da fenicottero ce la farà ! Sento qualcuno che dalla porta aperta le grida ” Dai, Lucia, accelera che sennò ti lascian lì !” Tutto a posto, il treno è partito e vedo scorrere i cartelli sulla fiancata : è il treno Parigi-Roma; pensa te, Cecilia, io vado e loro tornano !    

Lettera a Cecilia di Carla: torno da Parigi

Ricordare e dimenticare Parigi – di Carla Faggi

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Cecilia cara, non ci crederai ma sono tornata di nuovo a Parigi. Si lo so, sono un po’ monotona, ti ho scritto tante volte di questa città, di come ha condizionato la mia vita, di come l’ho amata e poi dimenticata.

Pagine e pagine di racconti ti ho fatto, un diario dei miei primi quarant’anni. I miei studi, i miei amanti, il mio primo marito, tutti legati a questa città. La mia sofferenza quando una parte della mia Notre Dame se ne andò in fumo. Ti scrissi anche allora, ti ricordi?

Poi ,come ti dicevo, l’ho dimenticata, tutta presa dalla mia vita alla periferia di Firenze, sulle colline di Antella.

Ed ora ci sono voluta ritornare, chissà perché?

Non ho trovato niente di quello che avevo lasciato, non la mia irrequietezza, la voglia di continui cambiamenti, il mio sentirmi francese, lo svegliarmi la mattina e voler fare cose importanti per sentirmi importante e fare cose libere dalle regole per sentirmi libera, niente di tutto questo ho ritrovato.

Lascio Parigi con la voglia di ritornare a casa.

Cecilia cara, ora sono ferma a Torino, il palatino si è dovuto fermare.

Mi guardo attorno e vedo una città accogliente, spaziosa, posso sentirmi bene, senza irrequietezza e frenesia, e…Cecilia non ci crederai ma ci sono pure Lucia e Rossella…ecco ora mi sento a casa! vado loro incontro e poi ti racconto, chissà cosa ci faranno…baciiii!

Lettera a Cecilia di Patrizia: torno da Livorno

Una giornata di mare – di Patrizia Fusi

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Cara Cecilia

sono in treno, sto tornando a Firenze.

Sono in un scompartimento quasi vuoto, ci sono solo coppie che parlano fra di loro, dall’aspetto hanno circa la mia età.

Mentre il treno corre e il paesaggio cambia velocemente mi è venuta voglia di scriverti e raccontarti perché avevo deciso di venire a Livorno e come ho trascorso la giornata.

L’atra  sera dopo che sono tornata dal lavoro mi sentivo stanca e depressa per le difficoltà che passo in questo momento, ma non volevo arrendermi a questo malessere. Avrei voluto andare in una città vicina e scelsi Livorno, il giorno dopo ero libera, il tempo metteva bello e io avevo voglia di sole e profumo di mare.

Sono arrivata presto e ho deciso di andare subito al santuario di Montenero, quando sono arrivata su,  quello che mi circondava mi ha levato il fiato dalla bellezza, il paesaggio e il complesso del santuario.

La chiesa era di una bellezza splendente, mi sentii avvolgere dalla serenità che quel luogo mi infondeva, non percepivo neppure i tanti pellegrini che mi circondavano

C’erano esposti tanti quadri per devozione o per una grazia ricevuta.

Nel tragitto di ritorno mi si riempivano gli occhi del paesaggio che mutava ,mentre la funivia scendeva veloce.

Sono andata alla terrazza Mascagni , il sole si spandeva su tutto, il mare era leggermente increspato, le onde con una leggera schiuma bianca si infrangevano  sugli scogli e accarezzavano un piccolo tratto di sabbia.

La piazza era bella con quel pavimento a scacchiera , la facciata del   grande Hotel rendeva tutto maestoso .

Affacciandosi alla balausta, anche quella particolare, davanti ai miei occhi c’era l’infinito.

Ho preso un caffè al bar nella piazza ,un giocoliere intratteneva grandi e piccini con le sue magie.

Ho passeggiato lungo mare, tanti bagni, piccoli o grandi uno con piscina.

All’ora di pranzo ho preso un panino a un furgoncino.

Ho scelto una panchina all’ombra per mangiare, ho continuato ad osservare chi passava, mi ha colpito l’allegria e la gioventù di due ragazzine che sfrecciavano con i pattini creando un po’ di disagio alle persone.

 Una giovane mamma con  due bambini , uno sul carrettino e l’altro  per mano: da come erano vestiti si vedeva che erano benestanti, in lontananza è apparsa un giovane rom che chiedeva l’elemosina,la giovane mamma si e soffermata ha aperto la borsa e poi ha continuato il cammino, ho visto che ha messo qualcosa nella mano tesa, questo atto di umanità mi ha rallegrato.

E l’ora di andare a prendere il treno. Cecilia sono quasi arrivata alla stazione di Firenze, grazie della compagnia che mi hai fatto

Lettera a Cecilia di Sandra: torno da Livorno

Spero non sia cambiata – di Sandra Conticini

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Ciao Cecilia,

sto tornando da Livorno, perchè ricordavo di esserci stata da piccola e volevo vedere se la città era cambiata.

In quell’occasione l’acquario mi sembrò grande, ora mi è parso piccolo e un po’ malmesso, ma credo di tornarci quando avranno finito il restauro, così avrò le idee più chiare.

Sono andata a fare un giro sulla terrazza Mascagni, ristrutturata è bellissima, ma sono dovuta scappare dal vento che tirava, mi sentivo  un appiccicaticcio addosso, gli occhiali  appannati dal salmastro ed ero a disagio. Peccato, mi sarebbe piaciuto stare lì a scaldarmi al sole e a godermi la vista sul mare con quelle belle onde alte che non sai se riescono a bagnarti o se ce la fai a scappare. Da ragazzi il mare mosso era un bel divertimento, non dava noia niente.

Ho fatto una passeggiata lungomare,  sono passata dai bagni Pancaldi, anche quelli un tantino fatiscenti,  sinceramente non capisco come fanno a stare su quei lastroni di cemento a prendere il sole in piena estate. Da lì ci sono passati principi, principesse, scrittori importanti, diciamo un turismo aristocratico, ma ora i tempi e le persone sono cambiate e bisognerebbe dargli una bella rinfrescata. 

Quello che mi affascinò anche da piccola fu il palazzo dell’Accademia Navale, tutti quei marinai in giro per la città e, ricordo ancora oggi l’entusiasmo del babbo che finalmente ebbe la soddisfazione di visitare la nave “Amerigo Vespucci”, per lui un mito.

Un’altra tappa, visto l’ora, è stata andare a mangiare un po’ di pesce da  “Melafumo”. Un’osteria tipica di Livorno senza nessunissima pretesa, ma caratteristica già da fuori. Pieno di bandiere portate da tutto il mondo, ogni tanto c’è qualche maglietta, fotografia del Che Guevara,  sciarpe e cappelli della squadre del Livorno, tavoli, sedie, piatti, bicchieri tutti diversi l’uno dall’altro. Ogni tanto qualcuno inizia a cantare e altri gli vanno dietro. Insomma un ambiente allegro, ma tranquillo, tanto che il tempo si è fermato. Ho dovuto una corsa per prendere il treno.

Sto arrivando a Firenze, ti saluto sperando di non averti annoiato.

Un abbraccio

Sandra

La lettera a Cecilia di Vittorio: torno da Livorno

20.11.2025

Lettera dal treno – di Vittorio Zappelli

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Buongiorno Cecilia

ti scrivo in questa mattina di tiepido sole  autunnale .Ho preso un treno per Livorno che invero pare troppo lento per i miei desideri. Voglio arrivare presto: una Lei mi aspetta alla stazione o almeno cosi’ me lo sento. Con questa premura il paesaggio che scorre dal finestrino mi fa solo da fondale per un volto che ogni poco si sovrappone agli alberi ed alle case che sfilano davanti. Alle 10 spero di incontrarla, appena sceso dal treno.

 Ore 10 e 10 il convoglio ha recuperato il tempo e sta arrivando .Ti lascio in sospeso con lo scritto che riprendero’ piu’ tardi …..

Ore 17 circa 

Eccomi di nuovo con la penna in mano …

la giornata  non è andata come avevo immaginato .

Innanzitutto Lei non si è vista il che mi ha reso inquieto all’inizio e poi anche addolorato . Cosi’  per sfogo ho deciso di sfiancarmi il fisico camminando ed andando a piedi a Montenero a rivedere la città labronica dall’alto. La vista di lassu’ con il mare a perimetrarla e le nebbie mattutine ancora da sciogliersi al sole , mi è apparsa bellissisma e fascinosa . Perfetta cornice per il mio appuntamento,  che pero’ non c’è stato .

Non mancavano turisti al santuario ; io ,con pensiero impertinente ed un po’ blasfemo , ho chiesto   la grazia di farmi trovare la Lei aspettata invano stamattina. 

Poi mi sono fermato li sulla piazza ad un bar per un panino prima di ritornare a valle ;quando una ragazza al tavolo vicino ha iniziato a tossire soffocando per un boccone di traverso, d’istinto Le ho affibbiato dietro la schiena un bel colpo che ha avuto pieno effetto ,liberandola dall’inghippo. Per questo mi ringrazia sorridendo  ,parliamo e dopo un po’ ritorniamo insieme in città con la funicolare e dopo proseguiamo a piedi fino al centro in sintonia chiacchericcia.

La grazia chiesta non si è avverata ma ,forse ,ne ho ricevuta un’altra.

Ecco ora chiudo lo scritto perchè sono di nuovo alla stazione

Ti lascio ,in omaggio a questa città sportiva ,chiassosa ed impertinente, con un:

Viva il cacciucco de’!

Ps mi accorgo che sul treno del ritorno sta salendo la Patrizia anche lei a Livorno

Chissà che ha fatto ? Ne riparleremo giovedi prossimo. 

Vittorio

Lettera a Cecilia di Stefania: torno da Napoli

Il non viaggio a Napoli – di Stefania Bonanni

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Firenze, novembre 1985

Gentile signora,

Scrivo questa lettera perché così era detto nelle istruzioni, ma in realtà il mio viaggio a Napoli e’ stato solo un viaggio. Non ho visto Napoli, non ho incontrato chi mi aspettava, ho passato ore a pensare, e poco più.

Non sono mai stata a Napoli, perlomeno fisicamente, ma in realtà e’ un posto che conosco, amo molto, e mi e’ affine. Lo so, non sembra possibile, invece e’ una sensazione così profonda che il riscontro con la realtà mi sembra un rischio troppo grande. Viaggio tra i sentimenti.

Questa volta ho corso il rischio. Andando, in treno, pensavo potesse essere lo sfondo di un incontro che avrei voluto romantico, magico, colorato di voci e colori del mare, dei vicoli, della gente, di tutto quello che penso sia Napoli.

Arrivai alla stazione, scesi, e subito mi accertai  di avere la borsa chiusa ed il portafoglio a posto. Siccome e’ un atteggiamento che non mi appartiene assolutamente, pensai di essere preda dei luoghi comuni.  Se era così, luogo comune per luogo comune, cercai il Vesuvio con lo sguardo e la sua presenza solida e massiccia, mi rassicuro’.

Avrei avuto bisogno di compagnia, o di essere completamente sola, nel deserto. I passanti, chiassosi e strombazzanti, mi distraevano, e mi provocava dolore accantonare il mio pensiero fisso, come fosse l’ unica certezza in quella tempesta.

Che poi, il mio non era certo un pensiero straordinario.

Andavo a Napoli per un appuntamento “galante”. Penso sia la prima volta che uso questa parola un  po’ sdolcinata e ridicola, che sa di porte aperte e baciamani. Nulla di galante. Sapevamo benissimo perché ci si incontrava così lontano da casa. Sarebbe stato sesso. Solo sesso. Ed io non ero neanche tanto interessata. A Napoli, sul lungomare, con la luna che c’era, avrei voluto una musica in sottofondo e dolci parole da portare via. Però sapevo, era stato tutto molto chiaro, sapevo come sarebbe andata.

Ed allora, perché Napoli restasse un pensiero da sognatori, a quell’ appuntamento non ci sono andata.

Tornai in stazione e ripresi il treno, stavolta in direzione ostinata e contraria.

Sognero’ sul Ponte Vecchio.

Saluti cari. A giovedì, Cecilia.