Una parola per Antonio Quatraro – di Cecilia Trinci

Nonostante tutto e nonostante la morte sia un fatto quotidiano, ci sono ancora persone che inconsciamente crediamo immortali. Lo sappiamo che la morte ci riguarda tutti, ma questo concetto qui, ogni tanto, cede alla convinzione che non sarebbe possibile procedere senza qualcuno in particolare. E così quel Qualcuno ce lo rendiamo immortale.
Questo era Quatraro.
Immortale.
Ci sono anche persone che dal momento in cui le incontri entrano nella storia del “prima di loro”, invadono passato e presente e non sai più davvero se le avevi sempre conosciute o no. E nemmeno importa. Ci sono.
Faccio fatica a rivederci così giovani. Lavorava con mia sorella e lei ci fece incontrare per una proposta speciale.
Era un pomeriggio di fretta, la mia bambina era molto piccola e io dovevo prendere la Sita per tornare a Poggibonsi dove abitavo. Non avevo tanto tempo. Lui cieco, mi conobbe dalle mani. Era sicuro, giovane, sorridente, accese la luce per me, in casa sua.
Mi dette una tabella e mi parlò di un alfabeto misterioso convinto che non avrei capito nulla e invece quel braille, quella scrittura tattile per ciechi, mi affascinò. Dopo pochi giorni ero in grado di tradurre i libri di scuola di cui c’era un matto bisogno. E cominciò il mio lavoro.
Oggi che lui è sparito mi rendo conto di tutti questi 40 anni e più, in cui siamo stati a fianco nel lavoro, ma anche in altri momenti, che avrebbero potuto essere molto più difficili e che invece, a causa sua, lo sono stati molto meno.
Intanto il suo sorriso. Mia figlia lo ha definito “quel largo sorriso rapito dall’avventura”, proprio così, c’era sempre un’avventura che lo rapiva, fosse piegare l’informatica al codice Braille o tradurre in braille spartiti musicali o sciogliere una corda attorcigliata sull’albero più alto della barca a vela, dove voleva salire lui perché, diceva, “al contrario di voi vedenti di questo gruppo, non ho mai le vertigini e mi so muovere nel vuoto”. E mentre stava appeso lassù ad armeggiare con le corde lo guardavamo incantati dal ponte, guidando a voce i suoi gesti nel vuoto che si confondeva con il cielo.
La capacità di stare con chiunque, mescolando lavoro e incontri di piacere con amici e colleghi. La guida era sempre lui, come a Palermo, o a Amsterdam, a Milano, a Rieti o a Torino e mille volte Roma. Trovava sempre in ogni situazione il gioco, la cosa su cui ridere, battute che diventavano simbolo di un’impresa riuscita. Non si arrabbiava ma non mollava mai. Gentile, ma determinato. Idealista ma pratico oggi si conferma che tutta la città lo rispettava.
So che in questi ultimi anni, mentre io andata in pensione mi afflosciavo, lui aveva ripreso a lavorare con nuovi progetti editoriali, che testava programmi innovativi, sempre perché “i cecati (come li chiamava affettuoso e ironico) fossero sempre più autonomi e informati, persone e mai disabili, al passo coi tempi.
Era questo che affascinava di lui, quel modo leggero, divertito e divertente di essere determinato, rivoluzionario e ottimista, convinto che esiste sempre un modo per sfuggire al destino avverso, alle difficoltà, ai limiti.
Sui limiti lui ci stava sopra, come a cavalcioni su uno steccato.
Ci ha unito questo e il fatto che esistono sempre talenti dove meno te lo aspetti.
Abbiamo sventolata insieme questa bella bandiera in comune.
Ma è stato lui che mi ha insegnato tutto.
L’alfabeto braille, come i ciechi concepiscono lo spazio, come muovono le mani per leggere, e come raccontare a loro quello che vediamo, come agire, come si sa se le mani dicono tristezza o parlano di gioia, come si da il braccio, come si scendono le scale. O come raccontare i colori e il mare. O come muoversi nel buio, noi che proprio abbiamo sempre bisogno della luce. O come sguazzare in barca attaccati a poppa ad una corda per farsi trascinare ed essere pienamente felici di questa emozione. O come non farsi intimidire, o compatire o fermare. Come procedere sempre sorridendo, senza urlare, senza fermarsi mai se sei convinto di essere nel giusto. O come flettersi apparentemente per poi ritrovare l’avversario piegato e disponibile. Come ottenere per gli altri, come pretendere con la forza della ragione e non della violenza. Come dire di si sempre a qualsiasi avventura. Come non avere paura, convinti come lui diceva sempre che: “Quando credi che tutto sia perduto può sempre darsi che ci sbagliamo”…….
E’ sparito all’improvviso.
Nessuna malattia lo ha vinto. Ha solo finito di vivere e ha vissuto fino all’ultimo istante.
Ci davamo per scherzo tanti soprannomi, tipo Lucignolo, Pinocchio e la Fatina, quando lavoravamo in tre con Eliseo…ma il suo, che preferivo io, era “profe” perché era professore di Musica e anche molto altro, una lista intera di cariche, ma non lo ha mai cambiato nulla, non ha mai smesso di sorridere e essere gentile, un ragazzo umile come sanno essere i Grandi.