I fuochi di S. Antonio – di Carmela De Pilla
Già da qualche giorno c’era aria di festa in paese, i ragazzini e i più giovani erano quelli che si divertivano di più, le loro voci portavano allegria per le strade del paese che fino a poco prima sembrava dormisse, per vincere la gara dovevano procurarsi molta legna perché il falò risultasse il più grande e il più bello così partivano in gruppo e tra una risata e l’altra bussavano a tutte le porte per racimolare quanta più legna possibile.
-Andiamo da Senza nas, lui ha il bosco chissà quanta ce n’ha!
I più piccoli scoppiarono in una risata fragorosa e non si accorsero che il povero Senza nas era sulla porta, ma lui era ormai abituato a quel nomignolo che gli stava appiccicato addosso da generazioni e non se la prese più di tanto anzi donò una carriola piena di legna già pronta sulla soglia.
Avevano lavorato fino a tarda sera e c’era abbastanza legna per fare un grande falò, tutto era pronto per la festa di S. Antonio e l’indomani, 17 gennaio, si sarebbero radunati dopo il tramonto nella piazzetta del rione.
L’attesa per il grande evento aveva portato in ogni casa un’atmosfera particolare, tra il sacro e il profano e ognuno trascinato da un intimo desiderio di allegria si avvicinava alla grande catasta portandosi dietro la propria sedia e qualche coperta.
Gli uomini avevano completato con maestria il lavoro e dopo che le donne e i bambini si erano accomodati in cerchio intorno al grande cono, avevano dato fuoco alle fascine partendo dal cuore, all’improvviso giochi di luce incominciarono a danzare nell’aria, scintille scoppiettanti si rincorrevano scherzosamente e qua e là nel cielo della notte s’intravedeva il chiarore giallo-arancio delle fiamme che si liberavano verso l’alto. Un turbinio di voci, di risate, di gesti s’insinuava tra i presenti trascinandoli in una spensieratezza quasi dimenticata, quel rito che si ripeteva tutti gli anni li univa, non c’era distinzione tra il ricco e il povero quella sera perché il fuoco apparteneva a tutti, per una notte erano tutti uguali.
Come d’incanto arrivavano le note di una fisarmonica e un gruppo di anziani intonavano una canzone, il ritmo diventava sempre più incalzante così altri si univano al coro e i più intraprendenti si lasciavano andare nel ballo cadenzato della pizzica, un trionfo di allegria era entrato nei loro cuori e nessuno pensava più alla malasorte, l’inverno stava per finire e l’arrivo della primavera faceva sperare in un raccolto più abbondante e metteva di buon umore tanto più che il carnevale era alle porte, come diceva il detto “S. Antonio, maschera e suono”.
Quelle fiamme bruciavano le sofferenze, le delusioni dell’anno appena passato e tutti si preparavano a cacciar via gli aspetti negativi della stagione fredda e quindi della vita con una grande voglia di rinnovamento…
I bambini si erano accovacciati ai piedi delle nonne che si dilettavano a raccontare le fiabe, quelle stesse che anch’esse avevano ascoltato dalle loro mamme e intanto mani grandi e stanche s’intrecciavano amorevolmente con quelle piccole e cicciottelle e una piacevole armonia s’infiltrava tra loro mentre in un angolo della catasta qualcuno abbrustoliva i ceci nella sabbia rovente con grande piacere di tutti.
Il fuoco, principe assoluto di quella sera, continuava a scoppiettare fino a notte inoltrata e a poco a poco ognuno ritornava a casa con la propria sedia ebbro di gioia, i più coraggiosi aspettavano che lentamente si addormentasse fino a diventare cenere raccontandosi storie di fatti quotidiani.
L’indomani avrebbero saputo il vincitore della gara perché più grande o più accogliente, ma ogni fuoco rimaneva per tutti simbolo di rispetto, di amicizia e di buon auspicio.
Ancora oggi la luce del fuoco custodisce gelosamente questo antico rito che si ripete a dispetto di una vita moderna che tenta di dimenticare.