
Odore di paura – di Stefania Bonanni
È un odore appiccicoso ed invadente. A volte si sente già quando ancora non è possibile, quando siamo ancora lontani. Entra dal naso ed invade subito il cervello, la pelle, il cuore. Si impossessa di tutto, immediatamente, e non esiste altro. È dispotico, prepotente, assoluto.E’ un odore grigio, verde marcio, marrone, anche se proviene da un posto bianco.
È odore di paura, di paura di soffrire. Paura per chi è ricoverato, paura per chi va a trovare una persona malata. Paura di trovarla disperata, sofferente, di non riconoscerla, perché in ospedale i malati sono tutti parenti, si somigliano tutti. Senza i loro vestiti, senza colori, con i capelli ritti dallo stare molto sdraiati, senza il loro odore, senza quel profumo che era solo loro, che veniva da un sapone rosa usato per tutta la vita, o che era un profumo francese, per chi aveva usato solo quello, da sempre. In ospedale viene tutto mangiato da un odore indimenticabile, se si è provato.
È l’odore della vita che resiste, accanto a quella che se ne va, misto a quella che nasce. È l’odore delle ore passate con lo stomaco stretto da una morsa d’acciaio davanti alle porte delle sale operatorie, quando la tensione sembra una camicia di forza, e purtroppo a volte non sparisce, diventa anzi certezza di sofferenza. È l’odore di quelle ore notturne, quando non era necessario venire, ma a casa era peggio, era meglio vedere, stare dentro all’odore, vedere se era possibile proteggere, aiutare, tenere la mano.
È l’odore delle medicine, dei disinfettanti, dei detersivi, dello sporco, dei bisogni non trattenuti, dei vecchi malati, delle minestrine di dado solidificate dentro i contenitori di plastica, delle mele cotte messe da parte per mangiare a merenda e diventate acide.
È l’odore dei nomi scritti col pennarello grosso nello spazio sopra il letto, nomi sbavati, sbagliati, sostituiti da altri, in un moto perpetuo nel quale non si conosce il destino dei nomi cancellati.

