Il Mulino di Roccafiorita – di Elisabetta Brunelleschi
Il paese si trovava a 750 metri d’altitudine, lassù il cielo era limpido, l’aria tersa e ogni cosa risplendeva di quella luce che sempre illumina i paesi del Mediterraneo.
Dal terrazzo della piazza si vedeva il mare, affacciata alla balaustra mi sentivo avvolta da qualcosa di grande e guardavo lontano, all’orizzonte, dove dal blu sorgevano le coste della Calabria.
Nei primi giorni di luglio mietevano il grano, le bionde spighe crescevano in campetti angusti ricavati da terrazzamenti irregolari tagliati sui fianchi della montagna. Si lavorava per giorni e giorni, dal mattino molto presto senza sosta fin quando il sole infuocato obbligava al ritorno verso casa
Il frumento mietuto lo portavano nelle “arie”, spazi rotondi, senza un filo d’erba, posti in luoghi aperti ed esposti al vento. Ogni famiglia ne aveva una, molte si trovavano vicino al paese, neri crateri coperti di terra ben spianata e pulita.
Poi iniziava la battitura, non c’erano le macchine si lavorava a mano. Battevano, battevano e battevano con bastoni oppure aiutandosi con il mulo che girava e girava strascinando sulle secche piante un grosso peso. Gli steli, le foglie e le spighe si spezzettavano finché il prezioso chicco si separava dal suo involucro.
Quando ogni pianta era ben stritolata si passava alla spagliatura. Con una pala raccoglievano il frumento, lo alzavano verso l’alto per poi lasciarlo: l’aria, che lassù era sempre mossa dal vento, faceva volare qua e là le parti più leggere mentre il chicco (più pesante) ricadeva subito verso il basso. Nel paesaggio si stagliavano figure nere che con gesti ritmati spagliavano il grano. Spagliavano, spagliavano, i chicchi si ammucchiavano e la paglia si allontanava.
Alla fine i chicchi andavano a riempire enormi sacchi che venivano portati in paese per poi essere vuotati sui tetti a terrazza delle case.
Ora intorno al mucchio si sedevano le donne e cominciava la fase della pulitura. Ogni minima impurità: piccole pietre, terra, semi estranei, gusci, resti di chissà cosa, doveva essere tolta. Le donne con movimenti lenti e veloci delle dita che potevano continuare per giorni, vagliavano manciata per manciata tutto il raccolto. E intanto parlavano, ridevano, raccontavano storie, ed echi vicini e lontani risuonavano talvolta dai tetti e si spandevano per le strade.
Il grano pulito veniva in parte venduto e in parte conservato in appositi spazi che fungevano da granai al riparo dall’umido e dagli attacchi dei topi…..
In una stanza a pian terreno della grandissima casa di Don Antonino c’era il mulino, l’unico rimasto tra i tre paesi del circondario. In quegli anni le macine erano ormai azionate da un motore elettrico ma molti si ricordavano di quando la grande pietra veniva girata da un mulo. Dal primo mattino giungevano gli anziani con il mulo o l’asino appesantito da uno o due sacchi gonfi di grano, ma ormai i giovani avevano l’Ape.
Con la farina, tutta di grano duro, si faceva il pane ma in particolari occasioni si preparavano i maccheroni e i biscotti col miele, per Pasqua s’infornavano grandi ciambelle con le uova.
Prima che l’odore del forno acceso si diffondesse per le vie potevi scorgere la Santina che rientrava in casa con una ciotola avvolta in un panno bianco, era il lievito … che lei teneva con le due mani come fosse un trofeo…
Sono passati quaranta anni ed ora non so più quali odori si spargono per le strade di Roccafiorita e nemmeno potrei riconoscere le voci che oggi vi risuonano.
Ma sono sicura che la stessa aria limpida e tersa avvolge con impalpabile freschezza ogni parete e ogni tetto e la luce mentre riscalda di vita i volti nuovi, non potrà che risplendere muta sugli occhi ormai chiusi degli abitanti antichi.