Silenzio di notte

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La notte in silenzio – di Rossella Gallori

Non parlo, non ora, aspetto che sia il momento .

Che non sia più notte.

Aspetto di essere più viva.

Non parlo, ascolto…..forse non capisco.

Mi nascondo dietro il tuo non guardarmi.

Mi nascondo perché  ho paura ….

C ‘è ignoranza, nelle tue parole….

C’ è cattiveria nel mio silenzio….

Io ti punisco.

Io mi punisco.

Zitta sto zitta ….anche quando parlo,  perché mento , a me, a te e forse anche a qualcun altro .

Ssssssss silenzio, ora è giorno, la luce  del sole impietosa  mi regala parole che non so dire.

Sssssssss silenzio….. scrivo..

Silenzio sotto i cipressi

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Silenzio, sotto terra – di Rossella Gallori

Ecco, vedi, volevo dirti che…..tu stai zitto parlo io, non importa che tu risponda ….oggi non è andata bene, sai…. sono giorni difficili, poi, …..forse.

Certo, zitti, io e te, mai, vero?  Facevamo chilometri parlando, senza virgole, senza punti, e se io avevo troppi interrogativi, tu avevi un punto solo, esclamativo, per me …ed io sorridevo …

Tu mi leggevi qualcosa,  spesso anche in inglese, io non capivo, ma cambiavo espressione, parlavo così in silenzio, e tu, tu c’eri.

Ecco vedi, tu ora non parlare, parlo io, grido, sì, alzo un po’ la voce, così mi senti, poi dopo se vuoi  mi rispondi, più che altro se puoi….

Qui c’è silenzio  ma si sta bene, pensa, mentre venivo qui il cipresso mi ha detto…..”ti aspetta”….

Non c’è silenzio sotto terra, non sei solo, io ti parlo e ti raggiungo, ecco sì ti aggiusto i fiori!

Te lo ricordi, vero, che ti voglio bene?

Silenzio. Ma sì…. ho capito.

Mai un silenzio  fra noi.

Silenzio storico

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La natura fa silenzio – di Nadia Peruzzi

Un grembiulino bianco, la cartella in una mano, la nonna che aggiusta per l’ennesima volta il fiocco blu che non vuole star dritto.

Ricordi lontani, di un giorno così diverso dagli altri, che ancora è qui a farmi compagnia. Nel cassetto delle cose lontane che hanno lasciato un segno forte.

C’era qualcosa di diverso nell’aria,  quel giorno. Anche il fatto che la mamma mi accompagnasse fino a metà della salita che portava fino a scuola  era insolito. Andavo in gruppo con gli altri bambini  abitualmente. Ci piaceva camminare. La scuola non era distante da casa.

Ci arrivammo velocemente nel punto in cui le maestre ci avevano dato appuntamento. C’era già un mondo di bambini, maestre e qualche genitore. Il brusio si sentiva da lontano. Ma quello suonava diverso, sapeva di attesa.

Aspettavamo l’eclissi di sole.”Sara’ totale”,  avevano detto anche alla radio  le sere precedenti. Chissà cosa vorrà dire di preciso, la luna che fa ombra al sole! Deve esser bello,  avevo pensato. Di solito un po’ di ombra non guasta mai, il sole scotta parecchio quando ce la mette tutta tutta.

Mi rivedo mentre prendo il vetro affumicato che la mamma ha tirato fuori dalla tasca. Naso all’insù , testa indietro, precipitiamo mano a mano nell’ignoto. Il brusio iniziale comincia a placarsi,  prevale il silenzio. Ci scopriamo elettrizzati, e un pochino impauriti. Tanto più che il nostro silenzio è lo stesso della natura attorno a noi. Non il cinguettio di un uccellino, né l’abbaiare di un cane, né il miagolio di un gatto. Figurarsi i coccodé delle galline, timorose come sono!

Silenzio e respiri trattenuti, qualche sospiro mentre vediamo attraverso il nostro vetrino che ciò che sembrava una semplice virgola nera sul sole, se lo stava man mano mangiando tutto. E si stava mangiando non solo quello. L’azzurro del cielo era sparito e con lui il calore. Il sole sembrava la padella di ferro che la nonna usava per friggere e il bagliore dei raggi solari a far corona,  sembrava quello del fornello, ma dal fornello e da quel fuoco il calore non arrivava più.

Tutto si era fatto buio, più che di notte. E noi ce ne stavamo li raggrinziti, e raggelati dalla  sensazione di freddo che cominciava a entrarci nelle ossa.

Con il calore anche i colori sparirono uno dopo l’altro. Non più i verdi smeraldi dell’erba e delle foglie, né il bianco delle margherite. Persi del tutto il rosa e il giallo, per non parlare del rosso. Un velo mortifero si era steso sulla campagna e sulle cose attorno a noi privandole di ogni vitalità. Nemmeno i nostri vestitini erano più gli stessi.

Fu un attimo. Il silenzio era così forte che si poteva quasi sentire. Sapeva di paura che nulla tornasse come prima. Paura che quell’ombra rimanesse li per sempre .

Eravamo piccoli e non potevamo capire che avevamo assistito ad un evento che aveva atterrito popoli e genti da che il primo uomo aveva fatto la sua comparsa sulla terra. Né potevamo capire che di fronte a noi , su quello schermo immenso che era la volta non più celeste , era avvenuto uno scontro immane fra la vita e la morte.

Era durato un tempo impercettibile, ma quello era stato.

Pian piano seguimmo il procedere della immensa ombra nera verso sinistra. Il sole da ragazzo prepotente qual è sconfisse del tutto la macchia che lo aveva oscurato. Ritornò il sereno, tornò a pulsare la vita. Tornarono a farsi sentire gli animali. I colori ripresero velocemente il loro splendore e la loro vivacità.

La mamma mi prese per mano e ci avviammo verso la scuola.

Qualsiasi residua sensazione di timore sparì del tutto. Il silenzio aveva già lasciato il posto ad un vocio festoso.

 

 

Lo sguardo del mattino

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Un prezioso contributo dell’amica Francesca Piccinetti che ci segue da Fano e che pubblichiamo con il suo consenso. La foto, di sua proprietà, è quello che si vede da casa sua. 

Il giro del mondo – Di Francesca Piccinetti

Sono le sette del mattino e la betoniera del cantiere sotto casa è già in funzione, abito al quarto piano, non dovrei sentire alcun rumore, ma lei mi fa da sveglia. Precisissima come un orologio svizzero! Da architetto dovrei solo fare complimenti a profusione ad una squadra di operai così ligi e puntuali, ma da donna con problemi di insonnia (a tratti…perché poi arriva il giorno che stramazzo sul divano alle nove di sera!) vi vorrei dire … ok, lasciamo stare.

I gatti miagolano dietro la porta della camera, devono avere un sesto senso (o anche un settimo ed un ottavo) non ho ancora mosso un dito e sono rincantucciata sotto le coperte, ma loro hanno fame, sanno perfettamente che sono sveglia, quindi “soldato! alzati e dacci il rancio!”. Con un occhio chiuso e uno aperto arrivo in cucina, schivando i gatti che mi tagliano la strada (la fame è una brutta bestia, ma occhio ragazzi, ho la prontezza di riflessi di un bradipo a quest’ora, gatto avvisato mezzo salvato!). Verso i crocchi nella ciotola e mi faccio il caffè.

E’ lunedì e pare ci sia un gran fermento in questa zona…anche il nuovo inquilino del piano di sotto ha deciso di sistemar casa…perché non cominciare con una serie di fischer per fissare l’armadio a muro? Si poteva optare per la pulizia del bagno, per la scelta del colore delle tende, ma vuoi mettere un sano (e tanto maschile) buco nel muro!

Vabbè…vediamo se la nebbia oggi ci dà tregua… Apro la finestra della cucina, che bella la vista da qui, mi è sempre piaciuta, perché i brutti dettagli vicini a te non li vedi, vedi solo le colline morbide all’orizzonte. C’è ancora un po’ di foschia, è ancora freddo e non ho il coraggio di uscire in terrazzo, ma vedo il convento lassù in cima, il castelletto poco più sotto e lo sguardo cerca di carpire tutti i dettagli, cerca di spingersi più in là che può. Il pensiero lo segue a braccetto con la curiosità, vedo muoversi qualcosa lungo la strada che sale su verso l’eremo, una macchina, chissà chi è, un frate? Un fedele in cerca della sua pace interiore? O magari il giardiniere (anche lui come gli operai comincia presto le sue giornate).

Sborbotta la caffettiera e il profumo si diffonde, buono l’odore del caffè di prima mattina! Già questo mi basta per svegliarmi definitivamente e nel tempo della colazione e delle coccole ai gatti (sono due viziati, e un po’ lo sono anche io in questo, quindi cinque minuti tutte le mattine sono per grattini e fusa) il sole si alza e la foschia si dirada.
Devo fare delle cose al computer, non ho molta voglia, con una giornata così tersa, un’aria così limpida, pungente, ma bellissima, chi me lo fa fare di stare davanti allo schermo. Faccio una pausa e non resisto, mi bardo tutta e vado fuori, faccio il giro del terrazzo (non sono matta, è che il terrazzo è più grande di casa!) vado a salutare le mie piante, soprattutto la chicas, una specie di palma che mi da un sacco di soddisfazioni, le chiedo come sta (con sto freddo, poverina, lei è abituata a temperature caraibiche). Sembra strano, lo so, ma son convinta che le piante, in quanto esseri viventi, ce l’abbiano una sensibilità (beh, in alcuni casi, credo ne abbiano più di certi soggetti), quindi almeno un “ciao, come stai?” se lo meritano.

Gli operai del cantiere sotto casa lavorano, oltre alla betoniera adesso c’è anche il camion con un nuovo pezzo di impalcatura, la stanno scaricando e altri ne montano una parte su un lato della casa. Un gran casino, insomma, condito da qualche urlo del capocantiere che irrompe come l’acuto, che non ti aspetti, di un soprano con smanie da prima donna. Alzo lo sguardo ed eccolo lì, l’aria è proprio pulitissima, all’orizzonte vedo il Catria, il mio indice lo copre tutto volendo, ma lui c’è. E penso, chissà cosa c’è dietro e intorno, chissà se anche lì c’è una betoniera in funzione o un gatto affamato. Poi mi giro e dall’altra parte, tra un condominio e l’altro, un triangolo di mare, luccicante e tanto blu.

Mi viene un pensiero, se cominciassi a camminare sempre dritta in direzione del mio sguardo e se è vero, com’è vero, che la terra è sferica…beh tra un po’ di tempo mi ritroverei al punto di partenza. La questione è: come? Sarei sempre io, ma diversa, avrei sempre i miei due gatti di cui prendermi cura e che mi dimostrano affetto e riconoscenza incondizionati, ma nel frattempo avrei visto mille cose nuove. Belle e brutte, avrei incontrato mille operai che con le loro betoniere fanno casino in sottofondo, qualche capocantiere con smanie da prima donna che ti distrae ogni tanto e anche qualche pseudo ristrutturatore di appartamenti con la fregola per i fischer. Tutte distrazioni sul cammino, che è lungo una vita, ma tu non ti distrai perché vuoi arrivare all’orizzonte, sporgerti e vedere quello che c’è di là, perché pioggia, sole, neve e vento fanno parte del pacchetto (e la mamma ti ha insegnato da piccola che l’unica soluzione è vestirti a strati) e i disturbatori sono lì per metterci alla prova, per vedere se resisti, se ce la fai.
Probabilmente i miei gatti, come adesso che sono uscita in terrazzo, mi seguirebbero, perché loro mi vogliono bene e camminerebbero al mio fianco. Sono pochi rispetto alla quantità di gatti nel mondo, ma sono i miei compagni di viaggio, l’una capitata per caso, l’altro mi ha proprio scelta.

Penso di nuovo (ribadisco che ho sempre pensato troppo!) che nell’ultimo periodo di disturbatori e prime donne ne ho incrociati diversi (o forse son sempre stati lì a tessere la loro tela), ma per fortuna li ho riconosciuti e più passa il tempo e più la mia abilità nello smascherarli si affina. A volte sono rumorosi come gli operai del cantiere ( che ora, grazie al cielo, sono in pausa pranzo finalmente!), a volte inaspettati e prepotenti come il capo cantiere ( che infatti è un capo e non un leader, il che, fa tutta la differenza del mondo), a volte distruttivi come il ristrutturatore folle. Ma scaricata la loro betoniera, fatto il loro acuto e fissato l’ultimo fischer, non resta poi molto. Fanno di tutto per raggiungere il loro obiettivo, far sentire quant’è forte la loro voce e dire al loro piccolo mondo: guarda che come fisso io gli armadi a muro, non lo sa fare nessun altro! (il narcisismo dilaga! E per qualcuno l’umiltà è un nuovo tipo di reato non ancora regolamentato). I disturbatori hanno una caratteristica, guardano il loro piccolo orticello, un po’ come l’altro mio vicino di casa che ha appena acceso il suo trattore (residuato rumoroso del ’15-’18) perché vuoi mai perderti una giornata di sole dopo settimane di nebbia!!? Tutti presi da una gran fregola di fare, di parlare, di costruire, ma sempre con lo sguardo a terra, senza distoglierlo dall’ultimo dei sassolini sul selciato, preoccupati moltissimo dell’unico ago disperso in un pagliaio enorme, che magari ha pure il tetto rovinato e l’acqua entra inesorabile. Ma soprattutto, poverini, si perdono questo fantastico tramonto: rosso, arancio, blu e bianco, una meraviglia per gli occhi e per lo spirito.

E ora l’orizzonte è nitido, il profilo delle colline è nero con il sole rosso subito dietro. C’è calma ora e mi sembra quasi di essere abbracciata da quei raggi, c’è quasi una sensazione di calore (ma è una suggestione, siamo a febbraio, la mente si sa: è potentissima!).
E’ tutto calmo…che io abbia già fatto il mio primo giro del mondo e non me ne sia accorta?!
Non so, forse…o forse è solo cominciato, tu Fra, continua a guardare avanti e non distrarti.

Francesca Piccinetti

Camicia bianca

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Camicia bianca, la sua! – di Rossella Gallori

 È iniziata così questa mia giornata, con il magone e  la testa confusa, per tanti motivi,  ho dormito tanto, ho dormito male, con un sogno che non mi lasciava ,  gente tanta, troppa, mi svegliavo, ma non riuscivo ad uscire dal disordine del luogo dove mi trovavo, una comunità  forse, persone che non sapevano dove andare, ed io che cercavo di  gestire il tutto senza materassi da offrire, con il cibo sempre più scarso…senza aiuti…in un posto lontano da tutto e da tutti, affannata e sola, nel fare qualcosa per gli altri…nella voglia di farlo bene, nella consapevolezza di non riuscirci.

Ogni tanto, nel buio di stanotte, nel caos del sonno, però, scorgevo qualcosa di bianco, un bianco/ azzurrino, una manica, un braccio abbronzato e forte, un colletto con un collo robusto, due piccoli gemelli sganciati, un petto forte, sotto un terital di buona marca, introvabile…..inesistente, oggi.

Correvo verso il candore di quella camicia, disordinata, stanca, cercavo di raggiungerla, per essere abbracciata, confortata, correvo nel vano tentativo di arrivare….dietro una colonna, dietro una finestra…a pochi centimetri dal traguardo, il bianco svaniva. O forse non c’ era mai stato….  ….nell’aria un profumo leggero, di  bucato, di fumo buono, di Tabacco  d’Arar ….il tuo.

Tornavo al mio lavoro, nel  sogno, un po’ più forte, riuscivo a trovare soluzioni impossibili, scovavo nuovi posti letto, il cibo riprendeva volume….nel silenzio della notte.

So bene di chi è quella camicia, conosco quel profumo, non capisco perché stanotte, perché non ho visto il tuo bel viso, non ho stretto la tua mano…ho avuto timore di affogare nell’incubo e mi sono imposta di alzarmi….

Sono qui, ora, davanti ad un caffè macchiato di bianco, un bianco freddo di latte scremato……nel silenzio di questa cucina, sento passi che non ci sono, sento un profumo, che  colpisce con una carezza la mia nuca……..

“ BABBO…HAI BISOGNO DI ME????”                 

Una pagina bianca

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Una pagina bianca- di Carla Faggi

 

Mi dicesti entra, io entrai e tu chiudesti il cancello.

Rimasi e siamo ancora li.

Era l’estate del 1992.

Dormiamo sotto le stelle, mi dicesti.

Mettemmo il materasso in terrazza, un lenzuolo e via a guardare il cielo!

Quante stelle, me le raccontasti tutte.

Io volevo sapere e le conobbi una ad una.

Ero una pagina bianca e ti lasciai scrivere.

Era bello imparare da te.

Sono passati venticinque anni da allora.

Non abbiamo più dormito in terrazza causa acciacchi e dolori vari, ma è rimasto sempre bello imparare da te.

Contributo di Francesca Piccinetti – Carnevale: arte e passione

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Francesca Piccinetti ha pubblicato sul suo profilo Facebook questa bellissima pagina. Con il suo consenso la pubblichiamo per condividerla nella sua versione integrale.

Il mio vuole essere solo un racconto dalla prospettiva di una figlia, nulla di più. Spero non sia un problema se taggo le due persone che ho citato, oltre che mia mamma per ovvi motivi.
Mi piaceva raccontare un retroscena, magari piccolo e di poco conto per tanti, attraverso cui si capisca che l’arte non è improvvisazione, ma che necessita di dedizione e costanza,oltre che di talento. Spero si capisca che l’intento è quello di andare oltre un semplice articolo di cronaca, e che dietro un carro si nasconde un mondo che molti non conoscono, e che forse sarebbe anche ora che venisse svelato.
Spero vi piaccia…buona lettura a chi avrà voglia di arrivare fino in fondo.

E’ un normale venerdì sera, torno da Ferrara dopo quattro ore di treno, sono sfinita e non vedo l’ora di andarmene a casa a dormire. La settimana è stata pesantissima e piena di lezioni toste all’Università, e anche la valigia che mi porto appresso lo è, grazie al cielo hanno inventato le ruote! Ok devo scendere, la porta si apre e mi devo fare un tot di strada sulla pensilina per arrivare alle scale, scendo e vado nel parcheggio. Saluto babbo che mi è venuto a prendere come al solito, mi chiede come va e mi dice: mi è venuta un’idea stupenda per un carro, Rossini e tutte le sue opere intorno, Franci credimi, è una bomba!

…Bum! Fa il mio cervello! Gli unici neuroni attivi in quel momento mi servivano per fare tre piani di scale a piedi con la mia super valigia (e qui avere le ruote non aiuta, purtroppo), infilarmi il pigiama dal verso giusto e finalmente dormire. Ah sì ??!!, rispondo io…bello…e il mio cervello, intanto, pensa (eh si, ho sempre pensato troppo) …ma poi cosa ci troverà di così entusiasmante in questo carnevale? Ho visto gente spaccarsi la schiena e fare notti insonni per delle “carnevalate”, le ho viste da quando ero una nanetta che superava di non molto le ruote del carro, le ho viste battere e modellare creta, arrampicarsi su impalcature precarie, incollare, tagliare e saldare come se non ci fosse un domani…mi sono sempre chiesta il perché, ma perché lo fate?
Non ho mai fatto questa domanda ai diretti interessati, una di quelle domande che non hai il coraggio di fare, per paura forse di una disillusione, di sentire una risposta che non ti piace…o forse perché la vita di un figlio non è la stessa di un padre, hai paura perché la gente con leggerezza ti considera “figlio di”, punto e basta, senza diritto di pensiero, parola e opinione e allora scegli… scegli di fare altro.

Passano gli anni e vedo nuovi bozzetti, studi di figure e modellini girare per casa. Rossini è sempre più Rossini così come il Barbiere di Siviglia è sempre più Barbiere. Mi laureo e comincio a lavorare in cantiere, mille responsabilità, grandissime responsabilità, anche più grandi di me. Lavoro come una disgraziata per un sacco di ore al giorno, lavoro con gli armatori, con i miei colleghi dell’ufficio tecnico, ma soprattutto passo metà del tempo in cantiere. Mi piace stare con gli operai, imparo a conoscerli, a capire come lavorano, imparo moltissimo da loro e si crea un gruppo con un’ottima amalgama. Raggiungiamo tantissimi obiettivi e non è lo stipendio a fine mese che te lo fa fare, è la passione, la cura del dettaglio che ci mette il primo degli ingegneri e l’ultimo dei resinatori, è tutto collegato e tutto deve andare in sincro.
Finisce quell’esperienza e quello che mi manca di più è proprio il cantiere, e vedere quella luce negli occhi, quell’atteggiamento positivo che ti porta al risultato.

Passano altri anni, e il carnevale rimane una costante nella vita di mio babbo e di riflesso anche nella mia. Ammetto che qualche anno fa mi sono divertita a fare da modella per i Transformer commissionati da Viareggio, indossarli ti da un certo senso di potere. E poi i pesci… quanti pesci e affini, per casa!Sempre per una mascherata viareggina e che bello vederli sfilare dal vivo! Piccole parentesi euforiche che però non davano una risposta alla mia domanda: perché lo fate?
Forse troppo giovane, forse ancora avevo nelle orecchie le mille litigate adolescenziali, e non , col babbo…perché sì, per molte cose siamo simili, ma per altre siamo due universi lontani e ben distinti…metteteci che sono del Toro, quindi ho la pazienza di un santo, ma se vedo rosso mi si chiude la vena e comincio a incornare…a quel punto chi c’è, c’è! (Vabbè, ridiamoci sopra…d’altronde la perfezione è di una noia mortale!)

Quest’estate babbo mi dice: sai Franci che forse si fa il carro di Rossini! Pesaro è interessata e lo vuole per le commemorazioni dei 150 anni…
Vedo quella luce particolare nei suoi occhi, che non vedevo da un bel po’, nei mesi mi aggiorna su tutte le vicissitudini politiche e non, fino a che si arriva al nocciolo della questione: chi lo fa? Perché babbo non può certo salire su un’impalcatura, l’età e gli acciacchi ci sono e io con le mie paturnie da figlia rompo spesso le scatole su questa questione.
Varie ipotesi, poi un giorno, nel suo studio mi dice che si sono proposti i carristi dell’ACF…lui è un po’ dubbioso perché sono giovani, e io dico subito: meglio! Così potranno imparare un sacco di cose, dagli fiducia e vedrai che sarai ricompensato. Se il carnevale deve avere futuro, il suo futuro sono i giovani. Io l’ho imparato dallo sport, ma poco prima mia mamma, da brava prof, gli aveva detto la stessa cosa. Si convince e si parte, un po’ a rilento a dire il vero, ma ci sta, bisogna conoscersi e tararsi a vicenda, bisogna capire come si è abituati a lavorare da una parte e dall’altra. Poi babbo può sembrare il burbero della situazione, ma chi lo conosce sa che non è così e piano piano si affeziona a quei ragazzi, me ne parla sempre di più e sempre meglio. Tirò un sospiro di sollievo, altrimenti… chi lo sente??!!

Mi incuriosisco e vado qualche volta “a cacciare il naso”, perché la curiosità è femmina e perché ero poco più di una matricola quando ho visto per la prima volta Gioacchino (era il 2001, siamo nel 2018, e mio “fratello” sta per prendere la patente…son traguardi nella vita!!). Li vedo tutti lavorare moltissimo e sento quel clima positivo che c’era nel cantiere dove lavoravo. Sono la figlia del “boss”, non c’entro niente e non dico niente se non qualche complimento qua e là che non fa mai male. Ammetto di essere entrata in ansia una settimana prima della sfilata, son capitata spesso in quei giorni e già da dentro il capannone il risultato era eccellente. Un ottimo lavoro di gruppo dove anche i singoli hanno potuto fare un’esperienza importante per la loro crescita personale.

Venerdì prima della sfilata (come all’inizio era un venerdì…deve essere un giorno particolare il venerdì, un giorno tra dovere e piacere, tra lavoro e riposo, tra serio e faceto…un giorno da “carnevalate”) tirano fuori il carro per provare i movimenti, babbo mi invia le foto, ma la tecnologia non è affidabile come le ruote della mia valigia e non riesco a visualizzarle…sono in giro e decido di andare di persona.
Rimango un attimo a guardare da lontano, poi mi avvicino e prima di tutto vado da Daniele e Luca, un po’ a tradimento chiedo, guardando il carro: bello è bello, ma voi siete soddisfatti? Loro mi rispondono sorridendo: soddisfatti e rimborsati! Vado da babbo e gli faccio la stessa domanda: mi risponde come 17 anni fa, è una bomba! E aggiunge: me vien da piagna! (rigorosamente in dialetto) felice come un bambino di otto anni.

Penso di poter dare una risposta alla mia domanda: ma perché lo fate?
Perché Carnevale è arte, poesia, fatica, sudore, e soprattutto passione e la passione, questo l’ho sempre pensato a prescindere dal carnevale, si nutre di soddisfazione. Personale, per il gruppo , e per la resa “in scena”. E la politica, il guadagno, il tornaconto, non c’entrano, c’entra la voglia di fare al meglio quello che sai fare, di usare ogni occasione per mettere i tuoi limiti un passo avanti a te e provare con tutte le tue forze a superarli. C’entra quella stanchezza infinita che ti si legge in faccia, ma che quando finalmente stappi una bottiglia di vino, quello buono, per brindare a fine lavori, ti fa ridere e sorridere con aria soddisfatta e consapevole di aver fatto un ottimo lavoro.
Che liberazione! Ho risposto ad una domanda che mi frullava nel cervello da una vita! Me ne farò altre, non c’è pericolo (penso sempre troppo!),e mi auguro che sia solo un nuovo punto di partenza per chi ne avrà voglia!
Ad Maiora!

Francesca Piccinetti

Chi sono: “Sono a Fano, a casa mia, con davanti il mio portatile. Cerco di sintetizzare in poche righe chi sono: sono fanese da generazioni, figlia di artista e carrista (ma se avete letto il mio contributo è una cosa abbastanza scontata questa), sono laureata in Architettura e ho fatto mille lavori diversi per arrivare a fine mese (a volte riuscendoci, a volte no…ma questa è solo la realtà dei nostri tempi…andiamo avanti). Da sempre mi piace scrivere, scrivo a modo mio, non ho mai frequentato corsi o cose simili, e gestisco una piccolo blog che si chiama Lo Sparviero http://losparviero.altervista.org/ in cui racconto in maniera più o meno dettagliata di luoghi, borghi e suggestioni che mi hanno colpita nel mio girovagare. Ho varie passioni, tra cui la più grande è sicuramente il tiro con l’arco, lo pratico da qualche anno e sono tra i soci fondatori della società per cui sono tesserata. Ci sarebbero tante altre cose da dire, ma non vi vorrei annoiare, quindi la finisco qui e vi auguro buona lettura (se ne avrete voglia) e buona scrittura!
Un abbraccio.
Francesca Piccinetti”

http://losparviero.altervista.org/

 

Il gatto bianco

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Il gatto bianco – di Cecilia Trinci

Non era il mio. Era un gatto di strada, non bellissimo a prima vista, ma a guardarlo bene con un musino dolce e un delizioso  nasino rosa  in mezzo. Occhi grandi, quasi verdi su un corpo grosso, lunghe zampe, lungo corpo che nel cestino, che avevo messo per lui in terrazza, si attorcigliava a stento, lasciando fuori sempre qualche pezzo. Solo quando era molto freddo, certe mattine d’inverno, allora riusciva a farsi stretto stretto, piccolo piccolo e il cestino diventava grande. In quelle giornate fredde  imbottivo quel rifugio segreto di copertine, di cappucci impermeabili, coprivo tutti gli spifferi, stando bene attenta, però,  a non chiudere troppo a non coprire troppo. Perché i gatti di strada sono sospettosi e preferiscono sentire freddo che oppressione e paura. Si era abituato piano piano a quel rifugio insperato, nel fondo della mia terrazza ben raggiungibile da un gatto con un salto. Gli piaceva, nascosto com’era tra le piante e indisturbato perché nessuno usa  frequentare quel lato del balcone. All’inizio lo guardavo dal vetro chiuso: appariva come lo Stregatto di Alice, mangiava ratto ratto le crocchette che avevo preso a lasciargli a disposizione e poi spariva terrorizzato. Poi, piano piano, si è fatto meno cauto, ha accettato di dormire da me, prima su un vaso pieno solo di terra, certamente un luogo migliore di quello dove spesso lo vedevo addormentato, tra le frasche di un giardino abbandonato. Poi, gradatamente e sempre con sguardo attento, ha accettato di infilarsi dentro il cestino che gli avevo organizzato tra i vasi. Prima dormiva con un occhio solo, scappando subito appena mi sentiva muovere nei pressi, anche a finestre chiuse. Poi abbiamo iniziato a guardarci: lui di là dal vetro e con le spalle alla via di fuga e io di  qua, in casa, piegata alla sua altezza.  Aveva paura si vedeva, ma restava a fissarmi quasi meravigliato. Io gli dicevo, a voce alta: “Resta Micio, non avere paura….” ma lui dopo un po’ si girava verso la ringhiera e spariva nei giardini. Piano piano ha cominciato a rimanere di più, a guardarmi con occhi diversi e  ha cominciato a diventare abituale. Avevo imparato i suoi orari: notti brave in giro per la strada e poi mattinate nel cesto, a dormire fino a tardi. Quattro anni.  Quattro anni con un gatto non mio, misterioso, bianco sporco, spesso ferito, ma col nasino sempre rosa e gli occhi sempre più addolciti. Quando ha fatto tanto freddo a dicembre si è fermato al calduccio quasi tutto il giorno. Forse cominciava a invecchiare, a non essere più tanto invincibile con i suoi pari. Un giorno non è tornato più. Ho aspettato: i gatti sono misteriosi e strani e ti stupiscono sempre….ma dopo tanto tempo la sua copertina è rimasta ora solo un cencio sporco, la sua ciotola raccoglie foglie secche. Dove andranno a finire i gatti quando non tornano più? In un loro luogo segreto, a metà tra la terra e il cielo? A metà strada tra il nostro passato e il nostro presente? Io comunque lascio il cestino apparecchiato……..chissà, magari un giorno riappare, come se nulla fosse, come un vero Stregatto! ! Ciao gatto bianco di strada, buon cammino ovunque tu sia!

Andare in bianco

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“Andare in bianco” – di Mirella Calvelli

Ancora bianco, tante parole sono tinte di bianco…si ricorre al bianco nella neve, le nuvole, la nebbia…tutte parole che iniziano con la N nella nostra lingua……ma ce ne sono altre che non sono materiali ed esprimono emozioni tristi o allegre….così mi salta alla penna…ANDARE IN BIANCO….

E a proposito mi ritorna in mente il meraviglioso film di Sergio Leone “C’era una volta in America”.

In particolare la scena della meringa…dolce godurioso, fatto di zucchero e panna, all’epoca un dolce anche molto costoso.

La modalità lo lega al sesso, perché di tale prelibatezza era golosa una ragazzina disponibile, che si concede in cambio di una meringa alla panna.

La ragazzina, è chiusa in bagno e fa aspettare il pretendente seduto su  un gradino di una sudicia scala. Il tempo passa e il ragazzo freme, impaziente con l’irresistibile dolce fra le mani.

Più passa il tempo più aumenta la voglia di assaggiare, almeno un po’ di panna. Con il dito disegna dei cerchi intorno alla base, poi si blocca per il desiderio della ragazza e ricompone il dolce.

Dietro a quei gesti e all’espressione combattuta, se  godere…di pancia o di…

La scelta fra sesso e fame, assecondare il desiderio sessuale o quello della gola? La meringa diventa l’oggetto di una lotta, costata una settimana di lavori…fra l’altro per strada, per soddisfare un piacere ancora più forte, ormonale, vista la giovane età.

La ragazzina si vende per così poco, pur di godere anche lei della meravigliosa meringa.

Alla fine, il tempo e l’impazienza, la fame e la gola, vincono…lui divora tutto e scappa via fra il compiaciuto e il disperato.

Lei esce, lo chiama lo cerca…il tempo le ha giocato la possibilità di assaporare quel tripudio di zucchero e la corposità quasi impalpabile della panna, tanto da lasciarla, scocciata e infastidita, per avere solo assaporato e non goduto della meringa!!

Andare in bianco, non per un insuccesso personale, ma per un desiderio ancora più grande!!