Mese: novembre 2017
ROSSO FLANELLA – di Mirella Calvelli

Volevo scrivere qualcosa sul rosso…colore del fuoco, della passione, dell’amore, del sangue, delle ciliegie, dell’anguria, delle fragole, dei lamponi, dei pomodori ……..
Quante cose sono tinte di rosso……………ma a me d’istinto è venuta alla mente una vestaglia rosso rubino di flanella, svasata, abbottonata fino al collo, con la goletta rotonda, le enormi tasche a “toppa”, i bottoni grandi fasciati , legata in vita da una cintola attorcigliata………
Che descrizione particolareggiata …E la penso appesa dietro la porta di camera dei miei, immobile, lunga, inanimata….si perchè ha perso vita da quando te ne sei andata è rimasta li a sorvegliare la stanza…Per un po’ l’ho spostata da un gancio all’altro, poi l’ho coperta con l’accappatoio di mio padre…ma un giorno è caduta e nel raccoglierla ho sentito il tuo profumo di lavanda..Mamma.
Sei sempre stata una donna modesta, semplice, schiva, taciturna.
Mai un vezzo, non ti truccavi, non portavi gioielli, ma sapevi di buono, di pulito e di lavanda, appunto…
Sarà per questo che la tua ultima dimora è coperta di lavanda e che nel tuo giardino un cespuglio immenso di questa pianta rigogliosa, invasiva, aggredita da migliaia di insetti ancora ti ricorda……
Ma la vestaglia era rossa, civettuola, immensa, perchè tu mamma eri una donna grande, anche nelle misure…
Il sabato tornavo da scuola e dal fondo della strada ti vedevo al balcone, avvolta dalla tua meravigliosa coltre rossa….e anche la tua voce era imponente mentre cantavi le arie della Butterfly……
Ho sempre pensato che avevi una voce importante…….ti ricordo felice in quelle arie Pucciniane, in Chiesa durante la Liturgia, le conoscevi tutte!!! E anche quando eri arrabbiata con me o mio fratello i toni erano alti, ma sempre intonati, mai striduli.
Chissà se non fossi nata in una famiglia tanto umile, tu avresti potuto studiare canto.
E quando ti abbracciavo altezza vita, gli occhi, il viso, la bocca sprofondavano in quel rosso rubino…sento ancora il “ pelino“ della stoffa sulle mie labbra.
Proprio perchè eri semplice, riservata e umile, quel rosso era qualcosa di più…Infatti è stato l’ultimo tuo indumento a lasciare la nostra casa……..
Era una tua creazione, il tuo lavoro di sarta eccellente…perchè cucivi camicie e vestaglie da notte per un negozio importante…eri brava, pochi segni sulla stoffa con l’unghia e poi veloci le forbici tagliavano sapientemente mentre la sinistra teneva il tessuto…
Come quella pezza di seta ….sempre rossa, corallo stavolta, fatta volare come una tovaglia sul bancone dove lavoravi, io sotto con le gambe incrociate vedevo ricadere i lembi di questa seta così lucida e luminosa………era la mia tenda berbera…………..Poi quel ticchiettio metallico delle forbici vive facevano scivolare a terra piccoli pezzi di questo tessuto così prezioso….quello era il mio bottino!!
Sarebbero diventati abiti per le mie bambole, braccialetti e gioielli che mi avrebbero adornato i capelli.
Ma non se ne poteva prendere troppa, era costosa tanto al metro, era per le signore…anche gli avanzi.
Sì era splendida, ma tu mamma eri da flanella, calda, accogliente e rassicurante……la seta non ti apparteneva, se non per lavorarla, era troppo fredda per te…..
Sei stata la mia tazza di tè, il mio brodo caldo, la mia coperta di lana…………Non parlavi molto, non giudicavi, mai……….Ma la tua maestria è stata che sei riuscita a far parlare i tuoi oggetti, e continui a farlo, meglio di te stessa…..
Impegnativo – di Tina Conti
Sempre IMPEGNATIVO? NO!!!
Anche leggero………
Irresponsabile………..no, non posso!
“nativo” – “impegn” –
Cosa significa?
Nato……Natone……Natuccio…….Nato ieri……..BRUNO!!!!!!!!
E poi? Domani…..
Dopodomani……..
Impegnati per Natale! C’è il pranzo di famiglia!
Quanti siamo?
21/22 …………..ci vuole la prolunga grande,
La pentola grande ce l’ho già.
Autoritratto – di Carla Faggi
Me ne sono fatta diversi di autoritratti.
A carboncino, con il pennarello, a colori.
Tutti seri ed attenti alle proporzioni con io in posa e senza emozioni.
L’altro giorno mentre disegnavo alla persa, senza soggetto, mi è uscito sulla carta un personaggio che mi piaceva.
Gli ho aggiunto un ciuffo di capelli ritti, un po’ di colore, un abito strano coloratissimo, macchie di colore sullo sfondo.
Una emozione incredibile! Si, ero io!
Salvia – di Lorenzo Salsi

“Salvia regina matta di misericordia/ vita d’un cieco…….”
La beghina recitava con trasporto ma non avendo mai saputo il latino andava per sonorità.
Salvia, Silvia? Boh
Le prime 3 lettere corrispondono all’inizio del mio cognome SAL; VIA mi da l’idea della prora, di quel modo di dire marinaresco che indica l’andar dritti, Proravia.
Sal ….el sal de los mar ….. mi faccio paura.
Salvia di Gerusalemme pianta non edibile per cucinare ma bellina a vedersi con le sue foglie color argento .
Salvia e alloro….. uhmmmm …..fegatelli!
Salvia parola morbida.
Salvia parola veloce, forse per il “via”.
Forse era meglio se tenevo graffio! Ma che c’entra ?
Il mio animo la mia deformazione professionale escono prepotenti; no, via, dai! non posso parlar di piante troppo facile per me .
Però che bella che è, che profumo. Ne ho una grande davanti la porta di cucina e manda un profumo che …..ma sie ….Paco Rabanne, Hermes, Givenchy, Armani ….tse!
Mi siedo spesso a leggere, nella bella stagione, in giardino accanto alla Salvia sativa e godo del profumo e delle api e farfalle che si cibano del suo nettare e guarda caso la Salvia è proprio accanto al barbecue.
” Salvia regina ………”
PANE E CORTECCIA – di Ivana Acciaioli
Alle mie antiche merende è associata la parola pane e poco altro. L’ olio, il burro e zucchero o sale, acqua e zucchero, vino e zucchero, pomodoro strusciato erano vere e proprie golosità. Spesso il gradito spuntino dopo ore di corse e giochi all’aria aperta consisteva in una semplice fetta di pane solo. Io avevo coniato un nome per quella ricorrente merenda “il pane senza”, senza nessun condimento o accompagnamento.
La merenda più modesta, ma più originale, la mostrava uno dei bambini della compagnia con il suo “pane e corteccia”, il piccolo stringeva saldamente tra le mani due fette di pane con in mezzo un pezzo di corteccia del medesimo pane, benché la crosta del pane toscano abbia un buon sapore, quella merenda aveva soprattutto il sapore della povertà, anche se vissuta dignitosamente.
Molto più tardi arrivarono le merende ricche e profumate con “ella” come nutella e mortadella. Ma il “pane senza ” ed il “pane e corteccia” non li ho mai dimenticati ,conservo con loro il sapore della fantasia, dei giochi senza giocattoli, delle privazioni per fortuna solo materiali, e della felicità con cui un fico o una ciocca d’uva raccolti per caso potevano riempirti la bocca, rendendo il pane più umido e dolce.
Paura – di Emilia Caravaggi
E’ dentro di me da moltissimi anni. Aggressiva, deleteria, invalidante. Ha sconvolto la mia vita per anni e quando pensavo di esserne venuta fuori ritornava educatamente, in punta di piedi quasi silenziosa come il sibilo di un serpente. Non viene mai da sola. E’ accompagnata da ansia, angoscia, fragilità, rendendoti dipendente come una droga.
Il mio matrimonio stava affondando ed io non riuscivo a capire come fare, cosa fare. Ero spesso sola la sera fino a tarda notte e la paura di stare sola mi attanagliava la gola lasciandomi senza fiato. Non sapevo mai quando lui sarebbe tornato se prima, dopo o molto più tardi di cena, così presi l’abitudine di fermarmi, dopo il lavoro, a casa di una mia carissima amica che viveva vicino a noi, dove restavo fino all’ora di cena per tornarmene a casa con angoscia perhè non sapevo se sarei rimasta sola o se avrei trovato lui. Restavo in piedi fino a tardi finchè non sentivo girare la chiave nella porta. Magari erano le 2 o le 3 del mattino e alle 5,30 di nuovo in piedi per rassettare la casa e lasciarla in ordine prima di andare a lavorare. Così tutti i santi giorni ! Cercai aiuto perché ero stanca, non dormivo che poche ore, ne lavoravo almeno 8 e non ero padrona di tornare a casa perche avevo paura di stare sola, di trovarla vuota. Trovai uno psicologo, fortunatamente, molto bravo. Ho passato con lui di settimana in settimana ben 4 anni e nel frattempo mentre crescevo io il mio matrimonio faceva acqua. La fine delle mie sedute con lo psicologo fu anche la fine del mio matrimonio. La paura non sparì ma si attenuò molto, dopo che la mia padrona di casa, che abitava sotto il mio appartamento, mi offrì la chiave di casa sua, dicendomi che in qualsiasi momento sarei potuta entrare da lei anche se fosse già addormentata.
Mi resi conto più tardi che sarebbe bastato un piccolo gesto, una mano sulla spalla per attenuare l’angoscia, tutta la paura e la dipendenza da altri. Non ho mai usato la chiave ma sapevo di averla lì nel portacenere sul mobile accanto alla porta di casa.
La scatola magica
LE SCATOLE – di Elisabetta Brunelleschi
(Stasera sul tavolo ci sono due scatole. Sono identiche e un’unica carta geografica riempie ogni loro faccia. È un mondo colorato, dove non è detto che il mare sia blu o i monti marroni, è un mondo vivace, di fantasia. Le scatole hanno un’apertura e, al buio, dovremo esplorare l’interno, senza guardare, senza ascoltare, senza odorare, solo infilando una mano nella stretta apertura…Un brivido scorre, sarà la bocca della verità?Fortunatamente una voce rassicura che ‘non c’è niente di pericoloso’ !? Ed allora il gioco può iniziare )…
Con questo gioco posso percepire duro, morbido, liscio, ruvido, granuloso, soffice, resistente, appiccicoso, colloso, vischioso, peloso, fresco, scivoloso, ispido, …
Ed è bello dare il nome agli oggetti partendo da un sentire che è senza colori, senza odori, senza rumori.
Una semplice pressione, lo spostarsi di un polpastrello, l’appoggiarsi del palmo di una mano e l’ignoto prende forma.
La mano avanza lenta, tasta con delicatezza e i primi oggetti prendono forma e nome: un barattolo, una scatolina che sembra coperta da cellofan, una pezzo di pane secco, una spugnetta per rigovernare, .. un tondo liscio, una pallina fresca, una spirale pelosa, …
E la fantasia può anche galoppare, inventare e vincere la paura del buio e dell’ignoto
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Scelgo dalla scatola………
…il palloncino rosso – di Mirella Calvelli
Un palloncino, libero, un filo lungo scappato dalle mani di qualcuno…vola in alto, fiero, incurante di lasciare un viso piangente, smarrito o anche solo sorpreso che lo sta guardando mentre vola via…Il colore è rosso, nitido, lo rende ancora più fiero, veloce vero l’infinito, sicuro che grazie al suo colore qualcuno lo sta ancora seguendo….
Ma lui si piega, gira su stesso e cerca il contrasto con il cielo fino a diventare un puntino piccolo (rosso) ed essere inghiottito dalle nuvole, forse solo accolto fra le nuvole o nascosto dalle nuvole…come un sipario che si chiude a teatro…
Ma dove vanno a finire i palloncini che si liberano???
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….la spugnetta ruvida – di Stefania Bonanni
La spugnetta ruvida per rigovernare serve per staccare gli appiccicaticci resistenti, quelli che se ne vanno solo dopo ripetute sollecitazioni, e che a volte proprio non ne vogliono sapere. In quei casi, si fa a chi insiste di più. Si stropicciano, loro se ne stanno appiccicati,resistono attaccati con quelle manine a ventosa, non cedono,e allora si lasciano lì. Ma non è finita. Si riprova,dopo averli lasciati un po’ a bagno per farli ammorbidire. E si stropiccia, ancora. Non se ne vanno? Va beh, finiscono in lavastoviglie. E quella…..non guarda in faccia nessuno! Si apre l’elettrodomestico e voilà….gli appiccicaticci sono sempre lì: hanno vinto loro! E allora viene spontanea una riflessione: ” Ma che roba era quella che si è mangiata ieri a cena?”
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…..la pasta appiccicosa – di Sandra Conticini
La prima sensazione è stata di ribrezzo che poi si è trasformata in tenerezza, perché toccando l’oggetto ho pensato che poteva essere uno di quei mostri cinesi che piacciono ai bambini. Vedere un bambino felice, contento, che gioca con un balocco che gli piace a me fa venire una sensazione che io chiamo tenerezza. I bambini sono bravissimi in questa arte della tenerezza: ci sembrano fragili e indifesi e quindi siamo sempre pronti a proteggerli. Si percepisce che il piccolo si affida totalmente a te ed ha tutta la sua fiducia nei tuoi confronti e quindi non puoi tradirlo.
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….la spugnetta ruvida – di Miriam Pavi
La mia mano ha riconosciuto subito l’oggetto, credo che questo sia avvenuto perchè:
- Serve per togliere le incrostazioni (…mi piace l’anima, l’essenza delle cose)
- mi somiglia un po’ (sono abbastanza ruvida all’esterno)
- è un oggetto comune e funzionale…..
d’altra parte i miei sogni e la mia creatività partono quasi sempre da spunti di realtà.
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…….il pane secco – di Chiara Bonechi
La mia mano che entrava nella scatola mi ha ricordato un gioco fatto a scuola durante una festa di primavera, in giardino: “La bocca della verità”.
Avevo preparato un grande volto di donna aiutata da un’amica che sapeva dare espressione e colore a quel volto sicuramente meglio di me. La donna aveva una grande bocca, leggermente aperta, contornata da labbra rosse.
Appesa alla finestra della casina di legno nel giardino della mia scuola, io nascosta dietro vedevo la manino dei bambini che coraggiosamente infilavano in quella bocca misteriosa…
Su quella mano cadeva marmellata o nutella o latte condensato o miele e loro dovevano indovinare e poi potevano assaggiare.
Io nella scatola ho sentito il pane secco, meno attraente dal punto di vista della golosità ma capace di suscitare bei ricordi.
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…….la collana di perle (che nell’immaginario corrispondeva a una lunga fila di perline di vetro rosso per addobbare l’albero di natale). – di Maria Laura Tripodi
C‘era un acuto profumo di muschio nella stanza.
Il babbo stava preparando il presepe e quello era il momento dell’anno in cui Marta amava assaporare il gusto della condivisione, anche solo osservando.
C’erano tante scatole per terra: quella che conteneva le statuine di gesso, quella con il muschio dell’anno precedente, quelle con le palline colorate che avrebbero addobbato l‘albero di Natale. E poi rotoli di carta dorata per coprire le gambe del tavolo e quelli di carta mimetica per simulare le montagne dello sfondo.
In un angolo c’era il muschio appena raccolto, in attesa di essere sistemato.
Il babbo, che era elettricista, aveva anche preparato un piccolo pannello di legno ricoperto di una carta blu a stelline dorate e con delle piccole lampadine tonde aveva composto la scritta W Gesù.
Tutto sembrava avvolto in un’atmosfera magica ancora prima che lo scenario fosse approntato.
Gli occhi di Marta erano curiosi e attenti. Lo sapeva che ci sarebbe voluta una giornata intera e che lei avrebbe solo potuto sbirciare dallo spiraglio della porta a vetri, ma alla fine tutto avrebbe brillato dell’atmosfera natalizia.
Alla sera quando il resto della famiglia fosse andato a dormire lei invece si sarebbe alzata e nel buio avrebbe goduto delle lucine che brillavano dentro le casette di cartone e del bagliore che l’albero di natale spandeva tutto intorno, a intermittenza.
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…….sasso liscio – di Tina Conti
Non è facile trovare un sasso liscio e quando l’hai trovato te lo tieni caro. E’ come un tesoro. Nella tasca della giacca ti fa compagnia, è un passatempo quando sei in coda e,aspetti il tuo turno dal fornaio o quando hai un appuntamento e non arriva nessuno e tu cerchi di rimanere calma e serena. Nel frattempo giochi con il tuo sasso nella tasca: lo rigiri, lo accarezzi, lo stringi.
Quelli lisci e sottili, con grande dispiacere diventano piattellle da lanciare sull’acqua. quelli piccoli finiscono in un barattolo insieme a quelli tondi, a cuore o a forma di naso.
Un sasso liscio non si abbandona mai, si ritorna anche indietro per raccattarlo.
Peccato che nelle tasche facciano un gran peso, e a volte si perdono perché la fodera si è bucata.
Ne ho ritrovato uno in una borsa che uso solo in inverno, non ricordo dove l’avevo raccolto ma mi ha fatto piacere ritrovarlo.
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…….il barattolino a sonagli – di Roberta Morandi
Per la verità nessun oggetto mi ha emozionata a tal punto da renderlo vivo, è stato divertente ciacciare in una scatola, ricordo due film. Se proprio devo scegliere qualcosa, forse il barattolo a sonagli è stato l’unico che mi ha fatto pensare alle biglie colorate che i bambini si scambiavano e facevano razzolare, i bocchi. C’è n’erano di varie dimensioni e colori e stavano racchiusi nei barattoli di latta o vetro.
Tutti alle stradine avevamo i bocchi, c’è li portavano sempre dietro, racchiusi nei sacchetti ti tela o in vecchi calzini più volte rammendati, ma a casa stavano nei barattoli, quelli che ci portavamo dietro erano quelli da scambiare, i doppioni o i meno belli e preziosi: una biglia di vetro trasparente con all’interno una pennellata di uno o due colori, a volte anche tre.
Il tintinnio dei bocchi nelle tasche dei pantaloncini corti (da piccola non riuscivo a giocare con i vestiti da femmina) mi faceva sentire uguale a loro, i maschi, anche se avevo le treccine bionde col fiocco, che era sempre sciolto. Per le stradine le femmine non giocavano per strada, i maschi si. Le femmine giocavano nei giardini privati con le bambole e i coccini a fare le signore, i maschi giocavano a “bocchi” o a far la guerra fra “bachi”, le stradine, e “semi” la piazza. A questo gioco le femmine e non erano ben accette se non quando si doveva raggiungere il numero dei “semi” o dopo la battaglia, a suon di cerbottane con lo stucco o i pirulini, a medicare le ferite dei “valorosi”. Una volta fui ferita pure io con un pirulino ad una caviglia, quella fu la mia entrata nel modo dei maschi a giocare anche a “bocchi”.
Cappuccetto rosso – di Stefania Bonanni
Mi piace tanto quell’ultimo suo gesto. Quando col ginocchio destro appoggiato a terra, con la testa vicina alla mia, occhi negli occhi, con la mano aperta mi accarezza le spalle coperte dalla mantellina rossa, dopo avermi agganciato i tre alamari che la chiudono davanti. Poi mi tira l’orlo della gonna a pieghe, che un pochino sporga da sotto la mantellina. Poi si alza, fa un passo indietro per guardarmi tutta, sorride, e mi stampa un bacio sonoro sulla fronte. “Vai, sei bellissima”. Lo so, me lo dicono tutti.
Ho questi capelli nerissimi, con la frangina che incornicia occhi ancora più neri, sgranati, curiosi, il visino tondo. Quando ho questa mantellina rossa sono molto orgogliosa, perché lo so, me lo dicono tutti, che mi sta benissimo. Ho anche gli stivalini, rossi, perché è piovuto e ci sono le pozze. Sembro proprio Cappuccetto Rosso, me lo dicono tutti.
Prendo la cartella, bacio la mamma, e mi incammino. Lei mi guarda allontanare stando in piedi sullo scalino davanti alla porta. Mi vede fino alla pozza grande, prima della curva.
Vado a scuola. In prima elementare. A piedi e da sola, come tutti. La strada è quella sterrata che si fa cento volte al giorno, che passa davanti alle case di persone che conosco bene e che mi salutano sempre.
Sembro Cappuccetto Rosso, ma qui il lupo non esiste. Sono molto tranquilla, e mi piace tutto, di questa strada. Mi piace camminare vicino alla siepe, per vedere se per caso c’è qualche fiorellino, per la maestra. Mi piace tirare calci ai sassi.Mi piace saltare nelle pozze. Puliro’ gli stivalini prima di entrare in classe, con il fazzoletto.
E poi, all’improvviso, mi rendo conto che devo passare davanti a quel cancello. E ora?
Ho paura, paura…mi batte il cuore forte..non me lo ricordavo…ho paura. Provo a strisciare vicinissima alla macchia, mi pungono i rovi, ma non importa, pur di provare a nascondermi.
Ma mi rendo conto di essere tutta vestita di rosso….mi si vede da lontano..
Speriamo il cancello sia chiuso….no, è aperto, vedo bene che le due parti sono appoggiate al muro….oddio, come posso fare? Cammino pianissimo, non respiro per non fare rumore…. Oddio, eccolo lì, mi ha visto…mi corre incontro, grida, ho paura….mi metto a correre più veloce che posso, sta per raggiungermi….arrivo alla curva…non lo sento più. Ho paura anche a girarmi, paura che sia lì vicino, ed invece guardo….e non c’è.
Madonna che paura….arrivo in classe trafelata, sudata, motosa, scompigliata. E dire che mi ero preparata tanto…
Da domani mi metto il cappottino blu, sperando non piaccia a quel grosso tacchino….gulu…gulu…
Briciole – di Ivana Acciaioli

Niente veniva sprecato; così imparavamo, anche con metodi che oggi sembrerebbero poco ortodossi, a fare tesoro di tutto, cose e parole.
Quando facevo troppe briciole con il pane la mamma mi diceva che nell’aldilà mi avrebbero acceso il dito mignolo e con quella luce avrei dovuto cercare tutti i minuzzoli di pane che avevo fatto cadere.
L’immagine del mio dito più piccolo trasformato in lumino per anni mi ha perseguitato, ma non traumatizzato come oggi penserebbe qualche “strizzacervelli” poiché eravamo abituati a racconti nei quali c’era sempre qualcosa che toccava le corde del timore; anche questo era allora educare alla vita e al poco che ci circondava.
Certo è che anche oggi metto via le briciole, di un dolce che affetto, delle fette biscottate del mattino, del pane e dei biscotti.
L’altro giorno quando mio figlio mi ha chiesto di fargli un cheesecake io ho intriso le briciole del mio vasetto segreto con il burro per preparare la base di quella torta tanto di moda.
– Ottimo il cheesecake mamma!
Quale sarebbe stato il suo commento se avesse scoperto il segreto che mi permette di evitare l’ustione al mignolo?
La teglia rossa – di Tina Conti

La conservo ancora, non è un oggetto di valore ma non riesco a disfarmene.
Mi ricorda un tempo felice e di cui ho vaghi frammenti: la vita “al monastero”, così si chiamava la cascina dove la nonna vedova con la cognata e altri parenti ha vissuto prima di tornare in paese.
Era faticoso fare tutta la strada in salita dalla fermata dell’autobus fino alla casa della nonna, ma noi arrivavamo svelti e curiosi.
Per me era un mondo tutto nuovo pieno di scoperte e di giochi, dove c’erano animali e tanti adulti.
Legata al ricordo della teglia rossa c’è la stagione autunnale e la raccolta delle olive. La nonna ci preparava per andare nel campo con attenzione e affetto. La rivedo che ci scalda le scarpe con un tizzone di carbone incandescente facendolo rotolare velocemente all’interno. Poi aggiungeva pezzi di lana ai calzini. Per farci stare più caldi.
Non ricordo mai di aver avuto freddo perché c’era molta gioia nei giochi e nello stare tutti insieme, grandi e bambini.
Spesso si andava al campo della madonnina dove c’era un bel tabernacolo che a noi bambini ispirava gesti di rispetto e devozione: si facevano preghiere inventate e si giocava a fare la messa.
Dietro il tabernacolo si improvvisavano case, si cucinava su pentole di sasso e i serviti di piatti erano le foglie più grandi, non mancavano posate fatte con i bastoncini e anche bambole di stracci che la nonna insieme ai bambini di pasta ci preparava quando infornava il pane.
Naturalmente i bambini di pane duravano poco e se ne restava qualcuno era tutto rosicchiato e irriconoscibile.
La cognata della nonna era la massaia di casa e lei nel campo non veniva, aveva il pollaio, la cucina e il bucato fra le sue incombenze.
Quando si sentiva battere mezzogiorno si doveva smettere di giocare e andare a prendere il desinare.
Come si sentivano bene le campane della chiesa dell’Antella in quella campagna piena di odori e suoni leggeri. Forse era la fame che ci faceva stare all’erta.
Di solito la sporta del pranzo la portava la bambina più grande, perché ci voleva molta abilità per non rovesciare tutto.
Legata con una tovaglia a quadri, di solito rossa o blu, c’era la famosa teglia rossa, chiusa dal suo coperchio conteneva baccalà e fagioli per quel che mi ricordo.
Il pane veniva affettato al momento, tenendolo stretto sotto il braccio, c’erano bicchieri e il fiasco del vino e dell”acqua, spesso anche l’acquerello che lo zio Angiolo sapeva fare in modo eccelso. Per noi bambini era una vera leccornia.
Si mangiava con gusto e appetito, la nonna portava anche qualche fico secco e le sue collane di mele secche che asciugava in estate alla finestra.
Questa teglia rossa è riapparsa dopo un trasloco e è rimasta nella mia casa vicino al forno a legna; possiedo non so perché anche il padellino con cui veniva cotta una frittata speciale sul fuoco del camino, che penso non assaporerò mai più .

Un tozzo duro, tra vivere e morire – di Nadia Peruzzi

Ruvido e duro quel pezzo di pane che nessuno adesso vuole più. Va tanto il fresco croccante tendente al morbido .Quello invece parla di un tempo che non c’e’ piu’, e di famiglie contadine le cui case costellavano le campagne attorno ad Antella. Frutto di sapienza antica,contadina,il tradurlo in nuovi piatti saporiti per non perderne neanche una briciola.
Ruvido e duro come la vita dei lavoratori che se lo portavano nelle bisacce, incartato in carta di giornale per mangiarselo lungo la via del rientro verso casa. A piedi da Firenze ad Antella, con un pane che sapeva di giornale. Erano i tempi in cui mia nonna, appena agli inizi del nuovo secolo, il ventesimo, lavorava a servizio in via S.Gallo, accudendo i bambini presso una famiglia agiata.
Ruvido e duro ma ancora oggi in molte parti del mondo un pane cosi’ segna la linea fra la morte e la vita!
Puoi arrivare ad uccidere, per prenderlo e mangiarlo.
Qui da noi spesso,basta che perda di croccantezza e anche il giorno dopo si puo’ decidere di fargli fare una fine poco gloriosa, buttandolo nel cestino.
Brandello rosso – di Rossella Gallori

Mi colpì la giacca, non lui, una giacca ben fatta, costosa, come i pantaloni, firmati ovviamente. Le cifre sulla camicia non riuscii a leggerle. Si presentò poi ed io capii bene solo il nome, il cognome non ebbe mai importanza, ma la giacca si, aveva il verde dei sogni, dei miei; non scuro da incubo, nemmeno chiaro come un praticello di inutili margherite vergini …un verde muschio ….da maschio, che profumava di tabacco cioccolatoso, intenso, mi restò addosso per molto tempo, forse non mi ha mai lasciata.
Mi colpì di lui non la giacca, non la camicia, non le cifre e nemmeno il profumo.
Poi ci fu quel taglio feroce, violento che volutamente mi sfuggi dalle mani, dal cuore…e mi lasciò un misero brandello di feltro tra le mani….o era panno ? O era velluto? O casentino? …..era sangue, sì, sangue, molto, color bosco.
“Che tu sia per me il coltello” di David Grossman – SUGGESTIONI e IMMAGINI
Coltello – di Lorenzo Salsi
Un’arte nel farli i coltelli, ci vuole il talento del fabbro, ,il gusto artistico. Ci vuole amore nel far una lama. La lama del coltello per molti ha qualcosa di pericoloso, di infido, di aggressivo e malevolo.
Ci son così tanti tipi di lame per coltello e quell’aspetto “subdolo” si perde se si guadano le lame per talee o innesti, le lame dei tranquilli coltelli da tavola ed anche un bisturi è un coltello .
Il problema è sempre il solito; è chi, come e perché tiene il coltello in mano.
***
Coltello – di Nadia Peruzzi
Coltello, per dividere il pane che mangeremo insieme.
Coltello che scarnifica, coltello che incide su un tronco frasi, nomi e parole d’amore.
Coltello che taglia gole in una notte che sembra non finire mai. Arma primitiva, primordiale in un conflitto ad alta intensita’ anche tecnologica, che avviluppa con il suo manto nero intere parti del mondo e si insinua in mezzo a noi con azioni violente e insanguinate.
Coltello che scavaper creare tunnel che puntano verso la liberta’.
Coltello che sega sbarre per creare varchi in barriere alzate per dividere mondi, popoli e destini. Sbarre che non sono in grado di proteggere ne’ di arrestare fenomeni di portata storica, usate per vendere illusioni a buon mercato a masse disorientate.
Coltello che penetra nei recessi della mente. Lama acuminata come i pensieri fastidiosi che opprimono,lacerano,destabilizzano ,immobilizzano o ,al contrario,incitano verso percorsi sbagliati e senza vie di uscita.
Coltello affilato che penetra nel mio cuore ogni volta che ti penso lì, insieme a lui. Dove non posso toccarti, dove non posso averti, se non come oggetto di un desiderio che non si plachera’.
Carne della mia carne, ma a distanza. Sangue del mio sangue, ma cosi’ lontana da essere ormai irraggiungibile.
Hai una vita oltre me, senza me. Pensiero insopportabile. Una casa in cui ti muovi e non e’ la mia, la nostra.
Un figlio che non e’ mio, non e’ nostro.
Gesti normali, quotidiani, semplici ed essenziali che non compi per me, per noi. Tenerezze che non mi dedichi, non puoi. Come si fa ad esser teneri a distanza?
La si puo’ scrivere e descrivere la tenerezza, la si puo’ leggere affidata ad una pagina bianca fitta fitta di scrittura. Leggerla e sentirsela addosso e dentro non e’ e non potra’ mai essere, lo sappiamo, la stessa cosa. Diverse le emozioni che corrono e scaldano.
Ti ho persa un giorno ormai lontano. Sono rimaste parole non dette,tante. Gesti, sopratutto gesti che non sono riuscito a compiere. Ti ho perso cosi’anche un po’ per vilta’. Ti ho amato, ma non sono riuscito ad andare, allora, oltre me. Mi sono bloccato sulla linea del confine fra il quieto vivere e l’abbandono totale ai sentimenti che pure provavo. La forza del tuo essere era tale che mi sentivo amato ma oppresso, schiacciato, sconvolto e destabilizzato.Volevo tranquillita’ senza i marosi del cuore .
Che errore, che enorme spreco! Lo sento ora, mentre ti leggo con l’ansia e la voglia di un tempo. Ci siamo ritrovati per caso e per lettera.
Chilometri e chilometri fra noi, che non potremo mai colmare. Troppo tempo ho lasciato passare perche’ il filo spezzato possa riannodarsi. Il pensiero e il desiderio di te, abbarbicati come avessero messo radici. Punta di coltello piantato direttamente fra cuore e mente !
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Coltello – di Rossella Gallori
LA TUA LAMA NON TAGLIA, MA MI FERISCE CONTINUAMENTE .
NON ARROTARE CODESTO COLTELLO, RIUSCIRÒ A MORIRE UGUALMENTE, PRIVA DI FERITE.
***
IL COLTELLO – di Emilia Caravaggi
Mi hai ferita. Come la lama di un coltello nello stomaco che mi sono portata dentro per diversi anni. Ora la ferita è rimarginata. Non voglio più ferite. Non voglio più coltelli.
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COLTELLO – di Sandra Conticini
Quanto ti piacevano i coltelli… spesso quando tornavi dalle ferie ne portavi uno…. ho ancora quello che comprammo a Toledo e a Sappada… uno te lo portavi sempre con te dicendo che poteva fare sempre comodo avere un coltello dietro.. Quando andavamo in giro per i boschi ti divertivi a prendere un pezzo di legno ed a scalfire un disegno, una frase, una data. Ci avevi fatto anche un bastone. Dopo aver ripulito un pezzo di legno avevi inciso le nostre iniziali ed eravamo contente di poterlo usare ed appoggiarsi…..era come appoggiarsi a te. Ancora oggi quando vado in giro per i boschi mi porto sempre il coltellino multiuso con il manico rosso, che ti avevo regalato in occasione di un compleanno, perché mi sembra di averti sempre vicino e poi….può far sempre comodo.
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CHE TU SIA IL MIO COLTELLO – di Laura Casati
La lama sottile oltrepassa la pelle, la lacera, ma non squarcia il petto. Voglio ancora stupirmi per il giorno che viene , per il tramonto rosso d’autunno, per il cielo terso e limpido nelle fredde giornate d’inverno. Tu rendimi solo vigile, attenta, affinché non fugga via questa stagione della vita ed io non me ne sia resa conto. Tu sii il pungolo che mi tiene sveglia e permette alla mente e al mio cuore di trovare ancora soluzioni. Tu, o paura, sii il mio coltello ma ti prego non affondare fino in fondo la lama.
Pane rosso sangue – di Lorenzo Salsi

Pane, pane amaro, pane nero, pane, pane e companatico, com-pana-tico.
Quante volte avrò pronunciato la parola pane.
Quanto sudore per “un pezzo di pane”, quante bestemmie e lacerazioni, quanto sangue.
Pane rosso, rosso sangue.
Violenza, per il pane, paura, per il pane.
E poi pane non mangiato, diventato secco, ruvido, che graffia le gola, che ferisce la bocca, che “canta” sotto i denti.
Pane come premio, fresco fragrante, a merenda.
Pane da non buttare, anche se secco e ruvido, bagnato riprende certa sua precedente morbidezza fino ad arrivare ad una pappa, pappa al pomodoro ……rosso sangue.
Pane ammollato inzuppato nel vino.
Pane e Vino.