Ancora un esperimento riuscito: Il nuovo Racconto di Daniele

Stanca – coltello – complicato

Ritorno senza coltello – di Daniele Violi

Photo by eberhard grossgasteiger on Pexels.com

Ritornare al tramonto, dopo un sopralluogo e nel contempo un lavoro di riconoscimento di piante erbacee su un terreno vasto. Un prato che si estendeva a perdita d’occhio, in montagna, un grande pianoro sulla Maielletta, sorella minore della Maiella, la montagna più conosciuta. Si era fatto tardi e da subito avevo percepito a chi affidarsi, se più alle gambe o al cervello. Avevo capito che sarebbe stato più semplice e meno complicato, anziché ritornare indietro per il tragitto che avevamo percorso fin dall’inizio,  riuscire a tagliare, come una ipotenusa, un percorso figurato, ed evitare così di percorrere i due cateti: sarebbe stato senza dubbio, più logico e conveniente. La matematica o l’algebra sono state per me sempre un riferimento migliore della geografia.

Quindi propongo alla mia collega esperta in  riconoscimento di piante erbacee più di me, di seguire questa formula matematica, per risparmiare tempo ed energia. Si dibatte, vedo e sento che l’osso è duro. Io ad un certo punto dico….bene. Ognuno vada per la sua strada, ci ritroviamo al punto di sosta dell’auto lasciata al mattino, che ci aspettava. Era stato duro il lavoro, tutto il giorno a riconoscere e determinare centinaia di piante, che avevano colonizzato il terreno da studiare. Una contabilità area per area di terreno interessato da questa indagine e ricerca botanica. Lei mi risponde che era stanca e voleva arrivare presto alla meta. Le dico che non vi è ragione più consona, che prendere per questo un itinerario più corto a mo’ di ipotenusa, attraversando un bosco. Poi aggiunge, ……”ma nel bosco  possiamo incontrare qualche animale, qualche fiera, che ci può assalire e quindi sarei propensa a passare, ritornando per il tragitto di andata; non ho neanche un coltello per difendermi”. Le rispondo subito con leggerezza, che potevo essere io il suo coltello. Queste parole cariche di ironia contribuirono a far scattare in Lei ancora incertezza.

Io sono partito…..Lei mi ha raggiunto dopo tanti tentennamenti. Dopo il tramonto, al crepuscolo avevamo raggiunto il punto d’arrivo. Un grande silenzio si sentì dentro, all’interno dell’auto protettrice. Un silenzio che parlava e rideva e voleva schiamazzare.

Il Gioco delle parole di Patrizia

Stanca – Complicato-Coltello

Siamo in pericolo – di Patrizia Fusi

Photo by Maksim Goncharenok on Pexels.com

Nella giornata deve fermarmi alcune volte il mio fisico richiede riposo, mi sento stanca anche mentalmente, per la situazione politica che c’è nel mondo attualmente, sta sparendo lo stato di diritto, i potenti di turno vogliono  decidere a loro favore con le leggi.

Siamo ad una nuova spartizione del mondo a favore di un pensiero di destra, nel potere non c’è più etica, solo egoismo per interessi propri e tanta gente è incantata da questo pensiero e li segue, non esiste più umanità.

Sento il pericolo nella tecnologia spaziale in mano di un privato cittadino, mi rendo conto di come l’ Europa sia  dietro a questo.

Mi pesa la sofferenza che le guerre producono sulle persone in tutto il mondo, quelle vicine quelle lontane e quelle dimenticate, mi pesa che ci siano interessi in tutto questo, tutti noi siamo pedine in mano a persone senza scrupoli, ( non voglio diventare tifosa vorrei continuare a ragionare).

Da questa realtà mi devo staccare mentalmente perché è come sentissi un coltello che gira dentro di me.

In questo mio fermarmi mi è tornato alla mente di come era il vivere sessanta anni fa di come tutto è cambiato delle volte in meglio ma alcune volte anche in  modo più complicato.

Lavoravo a Firenze in via della Mattonaia in una succursale di una grande lavanderia, il mio orario di lavoro era dalle otto e trenta (con due ore di pausa pranzo)   alle diciannove e trenta, andavo a prendere l’autobus sul lungarno, nel percorso vetrine da vedere, incertezze  e imbarazzo per gli apprezzamenti fatti da altri giovani.

Arrivavo al paese circa alle venti e trenta, per arrivare a casa mi ci volevano altri trenta minuti, era una strada quasi tutta al buio nel percorso c’erano solo due lampioni per arrivare al primo gruppo di case, macchine ne passavano rarissimamente o quasi mai, io avevo un po’ di paura di tutto quel buio, per vincerla mi ero inventata un gioco.

Ricordandomi un film o uno sceneggiato che avevo visti che mi era piaciuto, sceglievo un personaggio e rivivevo il racconto essendo io la protagonista, vivendo avventure, amori, vittorie, facendo rivivere tutta la storia a mio piacimento, cosi mi trovavo a casa vincendo la paura.

Ricordo paesaggi illuminati dalla luna piena, i piccoli frusci della campagna e i profumi che la frescura della tarda serata che il terreno della campagna sprigionano sempre in modo diverso  secondo le stagioni.

Oggi è tutta un’altra realtà i lampioni ci sono per tutto il percorso, le macchine circolano nelle stessa strada, ora si acquista tempo ,purtroppo perdendo altro. Chi guida chiuso dentro la macchina non vede niente di quello che lo circonda.

Il gioco delle parole di Stefania

Stanca. Complicato. Coltello

Se non ci fossero le notti – di Stefania Bonanni

Photo by Ndumiso Mvelase on Pexels.com

Se non ci fossero le notti, ce l’ avrei fatta.

Anche di giorno sono stanca.I pensieri tornano sempre lì, e non c’ è peggior stanchezza di non distrarsi mai.  Anche i giorni sono lunghi, e le pause, quelle vuote di lavori ed abitudini, quasi impensieriscono. Basta fermare le mani, e si muovono i pensieri.

Le immagini ritornano immutate. Il tempo non guarisce, non aiuta, non solleva.

Fossero ricordi fotografati, sarebbero tutti attraversati da un lampo, un bagliore luminoso e doloroso. Non una luce che schiarisce, proprio un lampo che strappa il velo, che squarcia il buio, che e’ destinato ad essere ancora piu’ buio, non appena si disfa’ il lampo.

Fa paura, un lampo così. Ti costringe all’ attenzione, all’ ascolto, all’ attesa si compia il cattivo presagio. Mette il cuore in allerta, accende una luce sinistra laddove sembrava la solita atmosfera.

Era una vita complicata, vista dall’ interno. Da fuori no, non credo. Situazioni comuni a tanti, solo io vedo lampi. Questo lo so

Mi sono chiesta perché lampi, perché i turbamenti nascano dai lampi. Poi, per caso, in una mattina di sole obliquo dalla finestra di cucina, ho visto lampeggiare i coltelli, sollecitati dai raggi. Era un’ indicazione. Da quella mattina i lampi mi fanno pensare ai coltelli. Le burrasche mi fanno ribollire. Tutto quello sfogo di rumore e scrosci, mi fa capire che è necessario scoppiare, per ritrovare la calma. Che il sereno non e’ detto torni sempre, ma di certo, passata la tempesta, prima o poi torna il sole. Il coltello, la tempesta. Pensieri di coltelli, pensieri di tempesta. Passerà la tempesta…. passeranno i coltelli?

Poi viene la notte.

E le notti sono piene di lampi: occhi che mandano lampi, circuiti elettrici che smettono di funzionare e friggono, ombre strane partorite da candele tremolanti, acqua che non smettera’ di scrosciare, vento che sbatacchia. Oscurità che non finirà, giorno che non verrà.

Non ci fossero le notti, avrei scritto di coltelli, e sarebbero spariti i lampi.

Il Gioco con le parole di Anna

STANCA – di Anna Meli

Photo by Pixabay on Pexels.com

Stanca, stanca, sono stanca!!!

            Chissà quante volte nella vita, avrò pronunciato questa parola, certamente in situazioni sempre diverse e facendo ogni volta grandi sforzi per uscirne, per continuare ad andare avanti giorno per giorno. Ogni stanchezza ha un suo colore: verde dopo una passeggiata in campagna, azzurro dopo una nuotata in mare, blu nelle lunghe attese ma anche grigio nel proseguo di cure sanitarie.

            Non la sentivo molto da bambina perché i giochi, il mettersi a confronto con i compagni, il susseguirsi di nuove esperienze magari piacevoli ma altrettanto faticose, venivano superate da un rilassante sonno.

            Ma le cose cambiano nel tempo e ora, ormai anziana, mi sento più fragile e spesso mi ritrovo stanca, tanto stanca che a volte mi sembra di vedere la poltrona che mi tende i” braccioli” e mi sussurra:- vieni vieni qua , lasciati andare, riposa, non pensare a niente – come se questo fosse possibile! Però ubbidisco e con piacere mi ci affondo socchiudendo gli occhi in un dolce dormi-veglia. Anche per oggi, dopo aver fatto diverse cose e aver preparato e fatto pranzare i miei nipoti, ho una gran voglia di riposarmi; il resto può aspettare. Sono stanca, è l’ora di fermarsi.

            La mia morbida poltrona mi accoglie e mi sento perfettamente a mio agio; ma ecco un colpetto al vetro della finestra attrae la mia già offuscata attenzione” Ecco, lo sapevo…proprio ora” faccio finta di niente, ma quella bestiola bianca e grigia si mette a miagolare con toni fra il dolce e il disperato. Lo faccio entrare e ripiombo nel mio accogliente nido di morbida stoffa intenzionata a rimanervi. Lui, il gattaccio, mi gira un po’ intorno, quindi con un leggero balzo di velluto, si piazza sulle mie ginocchia ronfando. Il suono delle sue fusa leggere accompagnano dolcemente il mio riposo, lo accarezzo e mi rilasso.

            Non sono più stanca.

Il Gioco con le parole di Rossella B.

STANCA COMPLICATO COLTELLO – di Rossella Bonechi

Photo by Radu Daniel ( MRD ) on Pexels.com

Saliva piano piano le scale di casa, uno scalino alla volta e le sembrava di dover conquistare una vetta. Il rumore rassicurante delle chiavi nella serratura le fece tirare un sospiro di sollievo e entrando in casa cominciò a liberarsi di scarpe, giubbotto, sciarpa, borsa, non necessariamente in quest’ordine. Si meritava il suo divano in penombra, era così stanca che ci si tuffò. Finalmente il silenzio, la quiete, il nulla che poteva spengere il cervello.

Ma perché tutto doveva essere così complicato? Pesi troppo pesanti, parole troppo parlate, grida urlate per farsi sentire, sorrisi finti e occhiatacce vere, chi ti fa domande trabocchetto e chi ti fa domande e non ascolta le risposte e gente gente gente.

Dicono che ne dovrei essere contenta….mah…forse è vero ma non ero preparata a tutto questo. Pensavo fosse molto più facile per una che a detta di tutti era gioviale e empatica, riuscire a presentare con facilità tutte le magnifiche doti di quel coltello di Gran Marca, figo, alla moda, di design. E invece no, te ne dovevi intendere perché il mondo degli attrezzi da cucina è infido e davvero complicato ! 

Seduta, guardava con apprensione il borsone con le “rimanenze” e le venne da pensare: “Io li regalo, sennò alla fine li lancio come in un numero da Circo !”

E chiudendo gli occhi piano piano sognò nella penombra che il prossimo articolo sarebbe stata una poltrona, di Gran Marca….alla moda…..di design….

Il gioco con le parole di Rossella G.

COLTELLO STANCA COMPLICATO – di Rossella Gallori

Photo by Esra Afu015far on Pexels.com

sarà che sono stanca, che ho il coltello dalla parte della lama, sarà che ho paura di tagliarmi e da un innumerevole numero di anni per me è tutto complicato, molto complicato,   troppo….

Non tutti i giorni sono uguali, confusi tra minuti, secondi ed ore farlocche.

Sono scesa da un pezzo dall’ altalena, ci ho lasciato a dondolare: sogni fatti e da fare, bugie grasse e secche verità.

Ho silenzio dentro e buio fuori, ogni tanto qualcuno arriva con una grossa torcia, un flash, poi le pile finiscono, lasciandomi in ombra… eppure basterebbe un fiammifero gigante, uno di quelli che si usano per il camino, fiamma calda e colorata, uno struscìo delicato, per farmi sentire meno stanca,  se pur afflosciata su qualcosa che sembra zattera o boa ed è invece  “divano”, salvezza unica di un periodo complicato, tra scrittura braille che non so leggere ed un alfabeto morse intraducibile, per quei pochi neuroni che mi restano.

Ho scritto, parlato, pianto, sofferto tanto per quell’eroe unico, perso per strada, cerco affannosamente di pensare se quell’ amore sia stato vita o morte, fame o digiuno…grida o silenzio.

Ho ripensato a quel coltello nascosto tra i vestiti, lucido e tagliente, non ricordo se serviva per difendermi o offendermi, per tenere a distanza odio ed amore. Mani pietose me lo avevano tolto dagli occhi e dal cuore.

Chiudo gli occhi ripenso ai racconti di qualcuno, antenati mai conosciuti, pazzi e persi, chi per mete impossibili, chi per gesti eclatanti, per amori inesistenti ed inverosimili, ripenso a quel ramo di follia che è  nel mio dna, ed un po’ mi fa male ed un po’ mi rende viva.

Mi ripeto, non tutti i giorni sono uguali, ci sono quelli che hanno le ore giuste, i minuti delicati…i secondi quasi simpatici, mi appollaio sul divano…scrivo come prima, mi capisco, mi perdono, non ho bisogno di interprete….e….

Sarà che sono stanca ed ho fame, taglio una fetta di torta, il coltello indugia sulla mandorla croccante, sorrido con la bocca sporca di zucchero ed oggi tutto mi sembra tutto  “quasi meno complicato”

La vera storia di Carla

Eccomi, sono Carla – di Carla Faggi

Photo by Chris Molloy on Pexels.com

Primi anni settanta.

Non ero fatta per vivere a Settimello.

Non ero fatta per essere fidanzata.

Non volevo una vita uguale a tutte le vite degli altri.

Io volevo essere un’altra cosa, ma ancora non sapevo bene cosa.

Nella mia stanza c’era di tutto, bandiere dei pirati, un manifesto di Bob Dylan, ovviamente il Che Guevara, disegni del kamasutra, giornali accatastati dell’Unità molto letti e studiati nella politica estera. Era in quel luogo che programmavo le mie mosse future: volevo andarmene, fuggire dal mio presente, lo vivevo stancamente ed in maniera complicata, tutto mi sembrava banale, scontato.

Io invece volevo vivere in maniera disordinata, fatta di colpi di scena, come un coltello che trancia una tela, come uno scalpello che scolpisce un David, come una eroina che da sola parte per l’estero.

Scelsi quest’ultima opzione. Partii per Parigi come ragazza alla pari presso una famiglia francese.

I miei genitori quasi si ammalarono quando li informai.

Settimello si scandalizzò.

Però niente mi fermò.

Presi il palatino di pomeriggio a Firenze ed al mattino arrivai alla Ville Lumière a la gare de Lyon.

Portai con me tutte le mie incertezze, le mie insicurezze. Anche se a Parigi ero ancora una settimellese.

Tante sono le storie che potrei scrivere di quel periodo, forse lo farò ma ci vorrà del tempo.

Ritornai, sempre con il palatino, e portai con me un ragazzo libanese, bello, bellissimo, diciannove anni.

Lo sposo, dissi a tutti.

I miei genitori si ammalarono del tutto.

Settimello si scandalizzò.

Voci in libertà di Gabriella

Voci e storie – di Gabriella Crisafulli

Photo by NIC LAW on Pexels.com

Si fa presto a dire voci.

Si comincia a pelo d’acqua.

Ma il tempo passa ed ecco che affiorano echi sommersi, lasciati lì per non patire.

Una storia?

No mille storie che si diramano e scivolano in rivoli diversi, in direzioni diverse.

Si intrecciano, si ingarbugliano, intralciano, interferiscono.

Come la coda di una cometa si diramano, suonano, riecheggiano, vibrano e ad ogni rintocco evocano una voce nuova e si moltiplicano.

Un pozzo senza fondo, un gorgo a spirale che erutta e poi risucchia.

Vengono a galla dagli abissi più profondi placche tettoniche inaspettate.

Reliquie di emozioni alcune vissute, molte tramandate, di cui riappropriarsi.

Sotto una grande caldera vulcanica si susseguono una serie di eruzioni esplosive ed è difficile pensare a bocce ferme.

Giorno dopo giorno si liberano ombre e sussurri dal passato.

“Abbanniate” di strada

(venditore di odori)

  • Acciù, semenza, basilicò

(le variciddi, altarini votivi che circolavano per la città trasportati da ragazzini di strada)

  • Cu nesci nesci, ca la Madonna benedici
  • Cu havi havi

(commenti di strada)

  • Lassala stare ca nica è!

Ma anche le filastrocche della nonna vissute sulla pelle

    ***

    Acchiana acchiana babbaluci

Ca ti dugno pane e nuci

Ca ti dugno pane e cutieddo

Tuppetuppetù

Cu è?

Mastro Antonino

Scinni scinni babbaluci

Ca ti dugno pane e nuci

Ca ti dugno pane e cutieddo

Ti lu fazzu duci duci

Scinni scinni babbaluci

***

Spingula, spingula maestrina

‘na paletta e ‘na regina

‘na regina, ‘na spagnola

tirituppiti e nesci fora

Fora quaranta

tuttu lu munnu canta

Canta lu addu

affacciatu a la finestra

cu tri palummi ‘n testa

Gallo, gallina, Palermo e Messina

Gallu, gallazzu, Palermu e mustazzu 

Una catarsi in cui riaffiorano momenti, eventi, fatti, casi, situazioni, avvenimenti … che disvelano.

Una liberazione dell’anima dall’irrazionale.

Il gioco di Sandra con le parole “stanca, coltello, complicato”

Reazioni da divano – di Sandra Conticini

Quando mi trovo davanti a qualcosa di complicato,  ho  l’abitudine di  dire che sono stanca.

In verità non è una stanchezza fisica, ma mentale.

Questa spossatezza mi assale  sul divano quando mi siedo per riposarmi un po’.  Ecco che i pensieri vanno per la loro strada e faccio dei film  che mi fanno entrare ansia e paura. Decido di alzarmi, ma sento che le spalle che si chiudono, le braccia ciondolano e le gambe si piegano verso terra.

Allora mi rimetto a sedere a leggere, faccio qualche lavoretto, oppure vado in cucina, prendo un coltello, taglio due fette di pane e  le faccio con l’olio, che per me è sempre un bel rifugio, riesce  a calmarmi.

Affiorano i ricordi di bambina. Tutti gli anni nel mese di novembre c’era il rito dell’olio nuovo. I miei genitori andavano a prenderlo con un orcio, da un contadino amico loro,  e facevano i confronti con quello dell’anno precedente. “Quest’anno pizzica di più, è meno amaro, guarda com’è verde” e per un pò si andava avanti così, ma sicuramente per tutto l’inverno il pane con l’olio o il pinzimonio era assicurato almeno una volta al giorno.

Ancora un esperimento riuscito: un nuovo racconto di Lucia

Uccelli e uccellini – di Lucia Bettoni

foto di Lucia Bettoni

In questo tempo complicato, rumoroso e tagliente avevo dimenticato di guardare gli uccelli.

Qualche giorno fa ho visto un uccellino bussare alla mia finestra.

Era come se mi chiedesse: “Apri, vorrei entrare!”.

E’ stato un flash, un colpo secco ed improvviso che mi ha riportata in un tempo remoto.

Il tempo quando ancora c’era la neve, quando gli inverni erano inverni ed il freddo era potente e presente.

Il tempo dei pettirossi, dei merli, dei tordi, delle capinere e dei fringuelli.

Abitavano lo spazio intorno a me ed io potevo vederli e sentirli come parte di quel tutto che era il meraviglioso mondo naturale nel quale sono nata e cresciuta.

C’era un piccolo capanno dietro la mia casa, una piccola casetta fatta di assi di legno e di scope.

L’aveva costruita il nonno ed era diventata la casa dei miei giochi.

Aveva una piccola finestra dalla quale potevo vedere una maestosa pianta di alloro.

Quando nevicava, perché allora nevicava sempre, gli uccellini andavano a beccare le bacche nere dell’alloro.

Passavo ore a guardarli, felici di poter mangiare qualcosa in quello che era diventato un deserto bianco e freddo.

Il silenzio era assoluto, il mondo era immobile.

Erano i giorni della quiete, non c’era spazio per la stanchezza, tutto era calmo, bianco, pulito, ovattato e morbido.

Quest’universo immacolato era interrotto solo dalle tracce di piccole zampette, piccoli segni sulla neve che seguivo con gli occhi immaginando direzioni e percorsi.

Erano le tracce degli uccelli, unici tagli sul manto bianco.

Non erano tagli di coltelli affilati, erano segni leggeri di presenze amiche.

Guardavo i pettirossi con il loro petti gonfiotti, li amavo tanto, nessun altro uccellino aveva le piume rosse.

E poi gli scriccioli, che meraviglia gli scriccioli! Piccoli piccoli e veloci come il vento. E i merli! Amavo il nero lucido delle piume dei maschi e il loro becco giallo.

Dove siete finiti.

Dove siete andati amici miei.

Ho nostalgia di voi.

Una nostalgia vera.

Un pezzo di cuore in volo.

E poi c’era il tempo dei fagiani, dei conigli selvatici e delle lepri.

Presenze vive, parte di un tutto armonico che era semplicemente vita.

Al calare della sera nei campi ai margini del bosco si rinnovava un rito di straordinaria bellezza.

Mi piacerebbe riuscire a trasmettere anche un solo minuzzolo di quello che ancora indelebilmente è impresso nei miei occhi.

Prima dell’imbrunire e soprattutto dopo la pioggia i campi si riempivano di fagiani. Era bello quel verde smeraldo che avvolgeva i loro colli facendo risaltare il rosso intorno agli occhi, e le loro code dalle lunghe penne, preziosi cimeli quando ne trovavo qualcuna per terra.

Le femmine invece erano quasi invisibili mimetizzate tra le zolle, praticamente dello stesso colore della terra.

Erano decine e decine, si spostavano tra l’erba con i movimenti lenti di una danza che non aveva bisogno di musica.

Pura magia per me che mi nutrivo di queste meraviglie.

A passi lenti e silenziosi scendevo per il viottolo sapendo che si sarebbe rinnovato l’incanto con il quale concludere il giorno, respirando il profumo di un sogno che vivevo in solitudine e che mi avrebbe dato al forza per attraversare la notte.

In fondo al viottolo passavo per un campo di meli e mangiavo sempre una mela quando la stagione lo permetteva.

Poi cercavo di diventare sempre più piccola, giocavo a nascondino con l’erba strisciando a terra come una volpe.

Cercavo un posto in prima fila per godermi lo spettacolo.

Era il mio teatro ed ogni giorno, se lo desideravo, si replicava per me.

Era acqua per dissetare il mio bisogno di sognare.

Arrivavo in un campo grande, senza alberi e un po’ in discesa.

Un vero anfiteatro che mi permetteva di osservarne tutte le creature, tranquille comparse in un immenso palcoscenico, ed io unica spettatrice.

Quando la luce diventava più radente la scena si arricchiva di altri personaggi: le lepri.

Più rare e sospettose dei fagiani ma spesso anche loro molto numerose.

Tutti insieme a cibarsi da un unico grande piatto, il piatto della terra.

Ricordo bene anche le rondini e i passerotti sopra e sotto il tetto.

La mia casa era stata costruita su un terreno scosceso, in cima alla collina.

Anteriormente le mura erano alte, ma dietro dove c’era il fienile bastava prendere una scala ed il gioco era fatto, anzi il gioco poteva cominciare.

Salivo sul tetto raggiungendo anche il punto più alto.

Una sensazione di struggente libertà mi invadeva mentre volgevo lo sguardo a quello spazio infinito che roteava intorno a me in ogni direzione.

Quando era il tempo delle cove, cominciavo a cercare sollevando i coppi di terracotta facendo attenzione a riposizionarli correttamente.

Cercavo i nidi dei passerotti per vedere le loro uova o i piccoli appena nati.

Il tetto ne era pieno, una grande nursery sopra la mia casa.

Le rondini invece costruivano i loro nidi sotto la falda del tetto attaccandoli ai travicelli di legno. Nidi singoli o piccoli condomini di due o tre nidi insieme, preferendo il lato del tetto sopra l’ingresso di casa. Chissà perché le rondini sceglievano quel lato, qualcosa le doveva rendere più sicure ma non ho mai capito cosa fosse.

Sicuramente sceglievano numerose il tetto della mia casa perché vicino c’era un lago e potevano bagnare i loro petti mischiando l’acqua con la terra per le loro costruzioni tondeggianti.

Passavo il tempo seduta sul muretto vicino alla legnaia ad osservare tutto quel movimento vitale appeso proprio sopra le finestre.

I piccoli si affacciavano dal buchino del nido reclamando cibo con il becco spalancato. Le madri andavano e venivano in un ininterrotto andirivieni per soddisfare le richieste urgenti dei loro piccoli.

Per terra lungo il bordo della casa i loro escrementi bianchi e neri.

Mi ha sempre fatto sorridere che gli escrementi avessero i loro stessi colori.

Avevo un mondo da osservare.

Un modo di cielo e di terra.

Eravamo bambini, uomini, uccelli.

Tutti uguali sopra e sotto il tetto.

Altro esperimento riuscito: un nuovo racconto di Gabriella

Monte Farella – di Gabriella Crisafulli

Photo by Maria Orlova on Pexels.com

Nella casa sulla collina le porte erano state fatte dal maestro Monopoli, ebanista. Porte di massello, solide e leggere. Quando il vento soffiava su Monte Farella vibravano sui cardini.

Raccontavano storie.

Il passaggio dei partigiani che, posate sul tavolo le bombe a mano e le pistole, pranzavano con la famiglia.

La caduta dell’aereo nel terreno vicino all’aia: era stato uno scampato pericolo ma anche l’arrivo di molta materia prima per quei giorni magri. Tanta tanta stoffa da ricavare dai paracadute, munizioni, meccanismi, ferraglia, rottami, polvere da sparo.

I tre ragazzi chiusi nel trulletto per le bestie a fare fuochi d’artificio con i materiali ignifughi di risulta.

L’elettricità che crepitava sui fili scoperti all’interno dell’abitazione durante i temporali: Illuminava il buio con lampi e fulmini domestici. Bisognava stare seduti con i piedi sollevati da terra a guardare gli schiocchi sulle pareti in attesa che terminasse la burrasca.

Il rumore del motore che tirava su l’acqua dal pozzo per l’uso quotidiano.

L’operazione di difterite sul tavolo di marmo della cucina.

Le porte vibravano sui cardini anche nelle prime ore del mattino quando ci si crogiolava nel letto e i corpi si stringevano nell’abbraccio del buongiorno. Le nocche colpivano le ante che si scuotevano mentre la voce roca riportava all’ordine: “Giovanni, è l’ora di fare la spesa!”

Era stanca di ritornare nella casa sulla collina.

Era un capitolo chiuso e non aveva più voglia di ripensarci.

Era stato un paradiso, ora perduto.

L’aria lassù suonava.

Il silenzio della campagna era perfetto esaltato dalle voci degli animali: in quel silenzio l’aria suonava come negli abissi dell’universo profondo.

Era stato lo scricchiolio del vento nelle porte a ricondurla di nuovo da dove era fuggita.

Era stata di malumore per una settimana, complice un forte raffreddore.

Tutto il suo fisico faceva resistenza a riaprire quel capitolo: troppa pena.

Un coltello piantato nel cuore.

Da Monte Farella lo sguardo spaziava a 360 gradi.

Al di là della strada il terreno di Sosaverio dapprima spianava a perdita d’occhio e poi cominciava ad inerpicarsi sulle curve appena accennate delle Murge: punto di riferimento in quello spazio una enorme quercia che, anno dopo anno, allargava il suo areale.

A Ovest si affollavano fitte le roverelle che facevano il bosco in mezzo al quale, nelle prime ore del mattino, il padre con i due figli si addentravano a caccia di tordi. Portavano con loro lo “zipito” che ne simulava il verso e da cui gli uccelli venivano ingannati.

Per arrivare dalla casa alla strada c’era il terreno che scendeva a balzi, frenato dai muretti a secco, dove venivano coltivati olivi e mandorli ma c’era pure qualche albero di pere di cioccolato.

Nel cortile davanti al portone d’ingresso troneggiava un grande il ciliegio che faceva le “ferrovia”.

Dal ramo più grosso pendeva l’altalena.

Ai piedi della salita che portava all’abitazione, la masseria di Cendia dove si portavano le galline a partorire.

Dopo tanti anni era complicato integrare un passato tanto amato, un passato tanto sofferto, con un presente da costruire.

Era un’operazione di integrazione funzionale che l’aspettava.  

Esperimento riuscito: nuovo Racconto di Luca

Rumore di niente – di Luca Miraglia

Photo by Alex Kinkate on Pexels.com

E’ sera, è tardi,è già buio…

E’ già ora di tornare verso casa, lassù nel villaggio oltre il bosco.

La strada, anche se in salita, non è difficile, è ben segnata e anche a piedi, nonostante l’oscurità della sera avanzata, si segue bene: attraversa il bosco e rapida e ripida si inerpica verso il poggio di casa.

Il silenzio della valle sale con il buio che scende e mi avvolge fin dai primi passi.

In realtà, pur in quel niente di umano che mi circonda, miriadi di suoni: i fruscii, gli scricchiolii, i sussurri di brezza estiva, il calcare del mio passo sul sentiero, il soffiare del respiro un po’ affannato per la salita, il frinire dell’ultima cicala che si mescola a quello del primo grillo. Tutti si addensano in un silenzio imperfetto, nel sussurro del grande bosco che nel buio si manifesta con la sua tenue voce e che un po’ spaventa ma che in realtà abbraccia e protegge chi la sta ad ascoltare.

La salita, in verità, mi stanca e mi fermo a sedere sul ceppo di un grande abete caduto che odora di muschio e di legno bagnato dalla bruma.

Gli occhi vagano nel crepuscolo cercando di dare un senso alla complicata ragnatela dei rami ormai scuri per la sera che arriva. Il pensiero comincia a divagare tra le memorie di fiabe che raccontano del magico popolo dei boschi: gnomi, fate e leprecauni. I loro giochi e i loro dispetti agli umani. Un brivido sale, non so se per la suggestione o per il reale scherzo di un folletto.

Meglio riavviarmi.

Intanto la luna si è alzata grande dietro il poggio. La sua luce fende come affilato coltello la matassa del bosco e illumina anche l’ultima rampa del sentiero: pochi passi e sarà casa, profumo di caldo, di cena, di notte tranquilla

Il Titolo di Gabriella

Scricchiola il vento dentro le porte (invenzione di Cecilia)

Photo by heba alwahsh on Pexels.com

Monte Farella – di Gabriella Crisafulli

Nella casa sulla collina le porte erano state fatte dal maestro Monopoli, ebanista. Porte di massello solide e leggere. Quando il vento soffiava su Monte Farella vibravano sui cardini.

Raccontavano storie.

Il passaggio dei partigiani che, posate sul tavolo le bombe a mano e le pistole, pranzavano con la famiglia.

La caduta dell’aereo nel terreno vicino all’aia: era stato uno scampato pericolo ma anche l’arrivo di molta materia prima per quei giorni magri. Tanta tanta stoffa da ricavare dai paracadute, munizioni, meccanismi, ferraglia, rottami, polvere da sparo.

I tre ragazzi chiusi nel trulletto per le bestie a fare fuochi d’artificio con i materiali ignifughi di risulta.

L’elettricità che crepitava sui fili scoperti all’interno dell’abitazione durante i temporali. Illuminavano il buio di lampi e fulmini domestici. Bisognava stare seduti con i piedi sollevati da terra a guardare gli schiocchi sulle pareti in attesa che terminasse la burrasca.

Il rumore del motore che tirava su l’acqua dal pozzo per l’uso quotidiano.

L’operazione di difterite sul tavolo di marmo della cucina.

Le porte vibravano sui cardini anche nelle prime ore del mattino quando ci si crogiolava nel letto e i corpi si stringevano nell’abbraccio del buongiorno. Le nocche colpivano le ante che si scuotevano mentre la voce roca riportava all’ordine: “Giovanni, è l’ora di fare la spesa!”

(segue)

Il Titolo di Nadia

Scricchiola il vento dentro le porte.

Photo by Valdemaras D. on Pexels.com

Nel caso possa scoppiare la pace – di Nadia Peruzzi

Il vento scricchiolava dentro le porte .Questa è la prima cosa che i Pickwick notarono appena ci misero piede dentro.
Un rumore per niente sinistro o fastidioso, nonostante il verbo, che era stato concepito per ricreare all’interno suoni accattivanti e rilassanti.
Quella casa l’avevano scelta per la sua forma ardita. Sembrava un uccello, appollaiato su una scogliera della Cornovaglia, in procinto di spiccare il volo.
Non solo per questo, però.
Il dépliant di superlusso che avevano sfogliato parlava di una casa domotica di ultima generazione in cui a farla da padrona era l’intelligenza artificiale.
Le luci si accendevano al loro passaggio per spegnersi un momento dopo, per prendere bagagli e valige era comparso un piccolo esercito di robot che silenziosi riposero tutto in brevissimo tempo, senza che nulla rimanesse a turbare armonia e ordine.
La casa era stata studiata da un gruppo di scienziati di Huston, che non avevano avuto nessun problema fino a che il capo di quella squadra di inventori non era inciampato in uno dei piccoli robot che stavano testando ed era finito giù dal dirupo fracassandosi sugli scogli sottostanti.
Il dolore fu immenso fra i suoi colleghi. Non fu da meno la preoccupazione che, nonostante fossero al completamento dell’opera con la messa a punto definitiva, qualche minimo margine d’errore potesse essere rimasto.
Ricontrollarono per l’ennesima volta e visto che tutto funzionava a dovere si fece valere la regola del business is business che imponeva di metterla prima possibile sul mercato, in modo che ne potessero ricavare tutto il denaro che una casa avveniristica come quella meritava come quotazione.
Quindi ricca e martellante pubblicità su tutte le riviste di settore rivolte ai superricchi. Interviste su interviste in tv, affiancati da una top model tutta “poppe e culo” che li aiutava a mostrare il funzionamento di quel gioiellino dell’elettronica applicata, per il quale bastava anche un semplice sussurro a mettere in moto gli apparecchi.
Era una casa democratica, da politicamente corretto e voci e suoni soffusi. Non certo come quelle costruite dai cinesi almeno un decennio prima, per le quali c’era bisogno di ordini precisi e con voce stentorea. Roba da poracci!
Qui tutto era soft. Ogni stanza il suo colore che si adattava a come girava la luce del sole durante la giornata.
Le pareti del soggiorno immenso, in alcuni punti erano vere e proprie cascate d’acqua circondate da una vegetazione che richiamava la jungla nei punti più riparati e caldi, o il sottobosco delle foreste di latifoglie delle latitudini più fresche.
I cinguettii che si udivano erano delle specie di uccelli che popolavano quelle zone.
Di fatto il mondo, o pezzi di mondo in una casa.
Le finestre in determinate ore del giorno, quando la luce era più intensa, ridevano. Risate gioiose di bambini che allietavano i signori Pickwick e non facevano sentire loro alcuna mancanza di un figlio. Erano troppo occupati nelle loro professioni per potersi permettere di circondarsi di marmocchi rumorosi, esigenti e col moccio al naso quando avevano il raffreddore.
Jane e Tim erano operatori finanziari in criptovalute e lavoravano 24 ore su 24.I 10 megaschermi sempre accesi nello studio erano il loro regno del compra e vendi che portava loro soldi a palate.
Una casa che faceva tutto da sola era una vera manna. Loro potevano star seduti ai computer a giornate intere tutto il resto se lo gestiva la casa da sola. Un sussurro bastava a metterla in moto.
I piccoli robot erano impeccabili, nelle faccende domestiche. Come cuochi erano tutti stati insigniti di 2 o 3 stelle Michelin, quindi la tavola era sempre imbandita con piatti gourmet da leccarsi i baffi .
La casa era come se la fossero cucita addosso, i Pickwick.
Non uscivano quasi mai .Nemmeno per godere della vista fantastica del mare blu cobalto che avevano di fronte, o per fare un bagno nella grande piscina che per collocazione e acqua a pelo sembrava già un pezzo di quel mare magnifico.
L’avidità, il fare soldi dai soldi, erano un richiamo troppo forte rispetto al mondo esterno, col suo clima spesso inclemente, il vento che sferzava tutte le cose e a volte non dava tregua, il muggito delle onde che sbattevano sugli scogli sottostanti. Il mondo esterno, la realtà era disordine e rumori per loro di un fastidio insopportabile. La metarealtà, invece, era rassicurante, avvolgente e calda come una coperta di Linus e loro avevano bisogno di questo.
Anche quando il governo dette indicazioni di prepararsi in caso di una possibile guerra, non fecero una grinza. Seguirono alla lettera ciò che andava fatto e sussurrarono ai robot di costruire un rifugio anti atomico, nel caso si arrivasse anche a quel tipo di guerra da fine del mondo. Dovevano poi sistemarlo e rifornirlo di comodità, grandi scorte d’acqua e di cibo per una lunga permanenza. Si accertarono come prima ed essenziale cosa che generatore e collegamento internet fossero al top per continuare anche da laggiù nei loro traffici finanziari. Pensarono che le quotazioni del plutonio e dell’uranio sarebbero salite alle stelle , quindi cominciarono ad investire sull’uno e sull’altro. Business is business anche con una possibile guerra atomica.
Venne il momento di fare una ispezione al sito che era stato ricavato ampliando un anfratto all’interno della scogliera. Scesero con l’ascensore, e si ritrovarono in tre ampi vani arredati con tutte le comodità a cui erano abituati. Cibo e acqua in quantità, colori accattivanti e caldi che sarebbero serviti a non pensare al cataclisma che si sarebbe abbattuto fuori. Erano entusiasti di ciò che videro. Una guerra nucleare a loro avrebbe fatto un baffo!
Anche il portellone di spesso acciaio ,come le porte di casa era stato progettato in modo tale che al suo interno si sentisse il benefico scricchiolio, come se refoli di vento più o meno impetuosi giocassero a rincorrersi per tutta la possente struttura.
Abituati al suono pacificatore e rilassante di tutte le porte di casa, colsero una lieve nota sgradevole e stridula, stonata.
Si girarono in contemporanea e videro che era rimasto un solo robot ed era sulla soglia, pronto a spingere il portellone. Non fecero in tempo a fermarlo.
Rimasero sigillati per decenni .Li ritrovarono mummificati  dagli speleologi che avevano sentito parlare di grotte da quelle parti e di anfratti da esplorare in quella parte di scogliera nella quale era stato ricavato a suo tempo il rifugio.
I rari passanti raccontavano anche di aver visto robot che facevano il bagno nella grande piscina. Si seppe di feste organizzate durante la bella stagione nella grande casa che dopo un po’ di tempo divenne un ristorante da 4 stelle Michelin, frequentato da persone che venivano da ogni parte del paese, anche perché nonostante tutto i prezzi erano popolari.
La casa sulla scogliera era diventata una piccola società democratica, in cui tutti facevano il loro lavoro ma senza padroni ,e tutto funzionava a meraviglia .Qualcosa di eccezionale, come lo erano i piatti che venivano proposti nel menù.
E la guerra atomica?
Ah, quella?
Mica c’era stata.
I capi che erano pronti a farla scoppiare erano stati cacciati a calci dai loro concittadini, che avevano preso in mano le redini di tutto quanto e avevano deciso di far scoppiare la pace.
Nel nuovo mondo le criptovalute nessuno sapeva cosa fossero.
Qualcuno fra i più vecchi, si ricordava di aver letto qualcosa di simile nei fumetti di Nembo Kid ,anche se aleggiava più di un dubbio, data l’età, che potesse trattarsi con maggiori probabilità della Kriptonite.

Il Secondo Titolo di Stefano

Il rosmarino non capisce l’inverno – La neve in fondo al mare

La neve e il rosmarino – di Stefano Maurri

Era forte e asciutto come lo erano quasi tutti in paese. Lavorava per la fattoria del conte e come tutti si ritrovava al bar mescita sul Corso scambiando un po’ di parole. Lo aveva fatto suo padre e suo nonno, ma da un po’ di tempo le idee non  si conciliavano più con quelle degli altri avventori

-Va via bischero, o un lo sai che per farsi rispettare bisogna essere forti, ma non singolarmente, ma tutti insieme

Lui preferiva lavorare e essere solo piuttosto che sentir parlare di forza che si oppone ad altra forza. Tornava a casa e continuava a curare le sue piante officinali e soprattutto il rosmarino, la pianta che aveva superato tutte le stagioni.

Mentre gli altri litigavano decise che non avrebbe fatto altro fino a quando non fosse caduta la neve.

Poco dopo cominciò a nevicare in maniera abbondante su tutto il paese e anche sul mare.

La neve era stranamente pesante e cominciava a ricoprire non solo il terreno, ma scendeva anche sul mare. Purtroppo non sapeva di ozono ma di un odore che intossicava tutto il mondo.

Il Titolo di Tina

IL ROSMARINO NON CAPISCE L’INVERNO

Il rosmarino e l’inverno – di Tina Conti

Non sono proprio il solo, l ’avete vista la forsizia tutta indorata di giallo che era quasi Natale?

Le fresie che si dondolano con sfumature viola e gialle sotto l’abete.?

Io, non ce la faccio a trattenermi, caccio rami nuovi vicino al muro, qualche fiorellino per i calabroni coraggiosi dietro al pollaio.

Poi, precipita tutto con delle ventate furibonde e rovesci di acqua gelata che fanno tappeto dei miei poveri fiorellini azzurro viola.

Non mi arrendo però, mi commuovo quando la giovane mamma, accosta il passeggino alle mie fronde per far odorare quel bimbo tutto incappucciato che allunga le manine per acchiapparmi.

Sono diventato eroico e resiliente, ho radici forti e profonde amo replicarmi in giovani talee profumate e robuste.

Sono anche diventato di moda, mi cercano per tisane calde insieme all’alloro presuntuoso.

Un posto davanti alla porta di casa lo trovo sempre, anche se a volte mi fanno morire di sete.

Fortunatamente qualche buonanima, mi versa l’avanzo di un bicchiere d’acqua, ma anche mi soffoca con cartacce e scarti di plastica.

Io resisto, a marzo però sono nel mio splendore, mi fanno compagnia fino a sera api, vespe calabroni e farfalle. All’ora di pranzo mi riposerei volentieri ma con quel ronzio non riesco a chiudere occhio, pazienza, aspetterò l’autunno e, con qualche sforbiciata mi rimetto a posto la chioma e mi riposo.

Il Titolo di Daniele

Il rosmarino non capisce l’inverno

La voce del rosmarino – di Daniele Violi

Davanti ad un raggio di sole, si ragiona sul da farsi con un immaginario dialogo e confronto che coinvolge il rosmarino con un Inverno. Del rosmarino, come pianta si può dire di tutto, ci piace sfregarlo per sentire introiettato in noi il suo profumo, il rosmarino che ama la calda estate, ma ha tanto coraggio, affronta senza esitazione la stagione invernale, impavido fronteggia le correnti fredde, pieno con la chioma, con le sue esili fogliettine. Fogliettine tutte collegate ad uno stelo, come un virgulto, ad un rametto che collegato ad altri rametti forma un arbusto che talvolta pende e ci dona uno scenario magico. Il rosmarino é coraggioso, in pieno inverno vuole distinguersi presto dagli altri arbusti. Il rosmarino si riempie di fiori già prima che il sole lo riscaldi e lo possa aiutare alla vita. È  forte il rosmarino. Si ho propagato tante piante di rosmarino, con tante porzioni di piccoli rametti, staccati dalla pianta, per aromatizzare le infornate di patate, e poi lasciati alcuni nel bicchiere per giorni. Magnificamente lo spettacolo era che il rosmarino generosamente mi parlava con le sue radichette minuscole che sbucavano dal suo corpo legnoso, di seguito, con dolcezza, loro stessi usciti dalla sua base in acqua chiedevano poi di potersi accomodare dentro una coperta di terra. Il rosmarino. Quante volte ho pensato di essere il rosmarino, un rametto di rosmarino immerso con patatine accomodate nel forno, mica male come idea, dentro una teglia una pietanza facile, si facile a farsi, pure nei sogni. Ma come una pianta può cambiarti la vita si, con o senza allegria, ti può anche cambiare la vita. Quando poi d’inverno ti accorgi che davvero una pianta di rosmarino che avevo curato in decine di anni, portato avanti nel suo avvenire, si ferma, mi vuole salutare; muore pian piano, proprio d’inverno, proprio quando doveva interpretare il suo coraggio,  nella stagione fredda per difendersi meglio con il suo linguaggio che costituito dalla propria fibra e da sostanze meravigliose, riesce a stare in armonia con la luce, i suoi simili e gli esseri viventi che lo amano e le stagioni che lo educano alla vita. Si é morto un rosmarino in inverno; mi è morta una pianta di rosmarino, una delle tante. Avrei voluto essere io quel rosmarino. È morto perché non ha capito l’inverno. É morto perché l’inverno della guerra lo ha portato via. Il rosmarino ha capito l’inverno, e per non vedere più la tragedia che l’inferno dell’inverno ha con eufemismo deciso anche per lui, se n’è andato. Avrei voluto essere io il rosmarino. Ho avuto una piccola lacrima di fronte alla sua morte, una morte d’inverno. Allora forse il rosmarino aveva capito tante volte l’inverno. È rimasto vittima. Non ce l’ha fatta più ad accettare il grande freddo che gli è scorso dentro, di fronte alla morte che sentiva attorno. Si mi  aveva parlato il rosmarino. Mi aveva detto che voleva andare, forse aveva sentito la mia anima che non volendo più scorrere sopra la tragedia della guerra, delle tragedie, che mi fanno chiudere gli occhi e piangere dentro. Si è fatto carico lui di sostituirmi. Così anche Lui si è spento. Ha sentito dentro se stesso che non poteva più aiutarmi o aiutarci. Il suo dolore per le tragedie è arrivato da lontano, da un canto portato dal vento, un canto dei suoi amici  Ulivi in una martoriata Terra e che assistono tragicamente ad un delirio e alla distruzione della bellezza di migliaia di persone. Una Terra che si voleva chiamare promessa, non ha più di niente di promettente per chi vorrà vivere. Gli amici Ulivi che come è capitato, davano da mangiare a famiglie di abitanti palestinesi e che seppur difesi questi, e gli Ulivi, da Pacifisti israeliani come lo scrittore Amos Oz, gli stessi Ulivi hanno dovuto poi salutare chi li aveva curati e cresciuti, per avere un destino diverso e forse tragico, tutto a vantaggio di coloro che con violenza hanno voluto strappare il sentimento di amore per le Piante e hanno portato la tragedia per donne e uomini.

Ho pianto per l’amore di questo scrittore, per la sua Forza con la quale aiutava i Giusti, di fronte all’ingiustizia.

Anche lui ha pianto, questo mi ha detto il rosmarino prima di morire. Si, in inverno; un inverno che appunto l’inferno della guerra, ancora ci vuole fare assistere al proprio dramma.

Ma il mio Rosmarino, generoso fino alla fine, mi ha dato Calore e Coraggio. Lui stesso, mi ha parlato tra le braccia del fuoco che riscaldandomi scoppiettando, mi faceva sentire la Sua di voce.

Il Titolo di Carmela

La neve in fondo al mare

Photo by Katie Doane on Pexels.com

Il mare e la neve – di Carmela De Pilla

Eppure non era successo niente di strano durante la giornata, mille cose da fare, da pensare, ma niente che la preoccupasse.

Stava calando la sera e lì non ti senti mai solo, ci sono le stelle che brillano più del solito perché nessun lampione ne affievolisce il luccichio e poi c’è il mare che sotto i riflessi della luna sussurra storie di marinai, di balene , di profughi, di speranze soffocate e di sogni, nel buio della notte non lo vedi, ma tu sai che c’è, lo senti dentro e ti culla e pian piano ti allontana dalla solitudine.

Era sola quella sera, ma c’erano il mare, le stelle e il buio.

-Io non so come fai a dormire in quella casa grande da sola, non c’è più nessuno ormai, almeno la sera torna in paese!-

Ma a lei piaceva proprio perché era sola, ma quella notte non riusciva a dormire “Devo pensare a qualcosa di bello” si diceva e più ci pensava e più i sensi si svegliavano.

-Basta, vado a fare una passeggiata sulla spiaggia!-

Appena aprì la porta lo sentì e fu avvolta da un alito umido rassicurante.

Conosceva bene il vialetto e poteva andarci anche a occhi chiusi e perdipiù quella notte c’era la luna piena e il buio non era buio, era di un blu intenso, a tratti argenteo. Non si sentiva sola e non aveva nemmeno paura, le onde danzavano con leggerezza, sembrava che la chiamassero e lei andò verso di loro sicura.

Un cane randagio era sdraiato fuori dal cancello e appena sentì il suono metallico del lucchetto si scosse, si scrollò dal pelo la sabbia e la seguì come se la conoscesse già, chissà quante volte l’aveva aspettata lì fuori.

Si avvicinarono alla battigia e si fermarono uno accanto all’altra lì dove l’acqua delicatamente accarezzava i piedi e le zampe senza far rumore e guardavano lontano laddove lo sguardo si perde, chissà cosa stava pensando il cane, forse pensava alla cuccia che non aveva o al padrone scomparso inspiegabilmente,  sembrava tranquillo, ma cosa provava davvero? Lo guardò con tenerezza e lo accarezzò.

-Ho freddo dentro stanotte, la neve mi gela l’anima eppure non è successo niente di insolito in questi giorni, in questi giorni… ma prima?-

Il cane si era sdraiato quasi sopra i suoi piedi e respirava al ritmo delle onde, chissà se capiva la sua inquietudine, chissà se anche lui sentiva quel freddo insopportabile!

-Avrei potuto…avrei voluto…ma perché non ho fatto…? Avrei desiderato seguire un copione diverso…il tempo ha consumato la mia vita senza che me ne accorgessi…

Sussurrava  parole confuse e guardava il mare e lui era sempre lì, assorto nei suoi pensieri ascoltava in silenzio, come un buon amico non parlava, non giudicava…ascoltava e basta e il freddo pian piano incominciò a dileguarsi.

Una lingua d’argento giocava con le onde e mille luci si rincorrevano e portavano allegria in quella notte un po’ strana.

-Non voglio che la neve si sciolga dentro, la butterò in fondo al mare! -esplose a voce alta e col gesto delle braccia la lanciò più lontano che poteva, il cane ebbe un sussulto e di colpo si alzò poi la guardò e incominciò ad abbaiare, voleva giocare, aveva capito che era finito il tempo del pensare, la donna raccolse un legnetto e lo lanciò in aria.

Si divertirono per un bel po’ poi risalirono a casa, si guardarono negli occhi complici per le confidenze fatte poi lei gli strinse il muso tra le mani e lo coccolò.

-Grazie- gli disse -Stanotte dormirai qui.- E come un guardiano dormì in veranda sotto la finestra della sua camera.