Una poesia rossa – Papaveri – di Aldo Bombaci

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Sparuti papaveri tra sterpi riarsi

stanno dove il Sole calante

ha reso l’aria afosa e dormiente

Attese sono le fresche ore della sera

per donar vigore alla natura

che morir non vuole

fino al nuovo dì,

rinnovato di raggi infuocati

e gocce bramate

dai rossi petali stanchi

che l’esile stelo ancor trattiene.

 

Un uomo in bianco e nero

uomo che gioca

(foto di Ubaldo Maurri)

Lorenzo Salsi – L’antipatico. “O come ? La ‘un m’aveva detto che la c’aveva un carico? Mah!”

” Sie… bonasera” , risposi .

” Ma lei che sa giocare a briscola?” disse.

” Poco ! ‘Un mi ricordo mai icchè passa ” bofonchiai.

” E lei quando ha imparato ?” cercai di allungare il discorso.

“Da ragazzo!” . Punto.

Uomo di pochissime parole, ma di vigorosissimo nervosismo.

Dai modi e dalle mani pareva stato, e tutt’ora forse lo era , un artigiano, un muratore o agricoltore.Lo trovai a Monteriggioni a un bar nella piazza. Giocava con altri, ma non capivo se gli fossero amici , non aveva e dava loro molta confidenza.

Mi interpellò solo perchè il “quarto” era dovuto andar via (la moglie si era chiusa fuori di casa) . A vederlo d’acchito mi ricordò P.P.Pasolini, quel magro non del poco alimentato ma del “un po’ bilioso”.
La maglia scura che portava lo faceva sembrare ancor più magro di quanto non fosse. Una testa da uccellino proporzionata al fisico.
Non vidi la fede nunziale , poteva essere come per me che non la porto per paura di farmi male sul lavoro, poteva averla persa oppure data come oro per la patria, a suo tempo, avendo indietro quel simulacro della “vera in acciaio” che dava il partito.

Poteva essere come si dice un “pinzo”.

Non traspariva niente, non ci capivo niente di lui, del suo presente, del suo passato, forse non era simpatico neppure agli altri giocatori.

S’alzò quasi di scatto . “Bona!” disse , che se mi avesse mandato a quel paese mi avrebbe fatto più piacere.

Uno degli avversari rimasti li seduti con me, sgranò gli occhi, mi guardò e muovendo il capo in direzione di Pasolini sibilò “Buco torto”.

***

Mirella Calvelli LO ZIO DINO –  Lo zio Dino è sempre stato un uomo semplice, sfilato e magrissimo. La  pelle baciata dal sole, mani lunghe e affusolate, ingiallite fra l’indice e il medio per le numerose sigarette che aveva fumato negli anni.

Ha sempre amato il gioco del tre sette, il suo unico passatempo, rubato ad un lavoro duro, quello di ciabattino. Tante ore reclinato su se stesso, con le mani sporche di mastice ed anilina.

Il ciuffo dei capelli disturbava la visione, quando era intento al lavoro, ma appena finito abili colpi di mano, come in un fiacco flamenco, riportavano quei ciuffi ribelli all’indietro immobilizzati dalla consueta brillantina. Quindi, uscendo dalla bottega risultava composto e curato, come fosse stato dal barbiere e ricercava in quel gioco e in qualche chiacchiera con gli amici la possibilità di stirare quella lunga schiena per troppo tempo costretta a stare genuflessa.

***

Germana Fantini – Nonno Germano. Avrei molte domande da fargli.

Lo sguardo vigile e nello stesso tempo austero, le mani si vedono poco ma sono mani modeste che mi riportano indietro nel tempo, non sono mani né dà impiegato,  né dà pittore, né dà banconiere, ma rivedo le mani di uno scalpellino. Eh si era proprio bello e fiero, un uomo con una sola parola: quello era  mio nonno Germano, con lo sguardo severo  dal cipiglio austero, ma amante della musica e del buon vino. E quando sentiva la musica o il mio nome i suoi occhi si facevano vellutati, le sue guance si facevano del colore di pesca  e le sue labbra aperte lasciavano vedere i denti scintillanti; e  come si faceva a non andargli incontro con il rischio di cascare tutti e due? Questo era il mio nonno Germano.

***

Aldo Bombaci – Lo scultore. A una prima occhiata, un po’ perché la stanza era in penombra, un po’ perché la mia vista da quella distanza è un poco sfuocata, mi parve di vedere Pier Paolo Pasolini.
Poi quando mi avvicinai a lui capii che con Pasolini c’era solo una vaga somiglianza, e notai le sue mani, nodose scarne, di quelle che avevano molto lavorato, ed ancora tanto avrebbero potuto lavorare.
Quando si mise a parlare iniziò col dire che stava aspettando un grande pezzo di marmo bianco e da quello ci avrebbe ricavato un cavallo ritto sulle zampe posteriori e la criniera al vento.
Era uno scultore, le due mani parlavano di lui, ed il suo volto scavato, pure.

***

Carla Faggi – L’età degli uomini. Magro,arcigno, legnoso e spigoloso. Vecchio! Avrà sessant’anni! Così penso mentre corro verso il gruppo di amici per giocare a palla avvelenata.

Lo guardo  di nuovo: un po’ maturo, fisico asciutto, doveva essere un bell’uomo da giovane, avrà cinquantanni! Così penso mentre vado a ballare la domenica pomeriggio di nascosto a mio padre.

Ancora uno sguardo: piacevole, sta perdendo i capelli, portamento atletico, l’uomo maturo è sempre interessante! Così penso mentre vado a passeggio dopo il lavoro e dopo aver ripreso i figli a scuola!

Lo guardo di nuovo: coetaneo, secco rifinito, un po’ uggioso come tutti i vecchiarelli, comunque un buon compagno di burraco!

***

Rossella Gallori – Ti ho già visto? Forse, dico, forse…per non dire mah…boh…ti ho già  visto, hai l’ età dei miei fratelli….ma anche tu qui? Perché? Per cosa?

Si, ecco ora ci sono, facevi canottaggio con Gianni, o no, ricordo meglio, giocavi al club Sportivo Firenze, con Goffredo…

Hai gli stessi colori, scuro di carnagione…non sarai mica un fratello che non conosco?

Sei muto, no muto no, silenzioso , guardi lontano, hai occhi profondi, sopracciglia folte….Tu sai chi sono io? Ti interessa?

Ti prendo una sedia!

Ti offro una penna!

Ti porgo un cioccolatino!

Penso che tu abbia uno zaino, ed anche pesante, dove lo hai lasciato? Sento che lo porti con te , ma non lo vedo , è sotto il tavolo o dietro la sedia? No è dentro di te!

Ti darò un nome sento che ti chiami Francesco, cioè ti voglio chiamare così,  mi piace dare un nome alle cose …ma tu non sei una cosa sei una persona.

Ma ho capito chi sei, un allievo di mio padre, eri un ragazzino quando ti ho visto giocare a tamburello, allo sferisterio….

…….Ma vuoi sapere chi sono io…..?

***

Vanna Bigazzi: Non è sapienza. Pier Paolo è un uomo interessante, un intellettuale, molto vissuto.   Nei solchi del suo volto c’è tutta la sua storia, il superamento delle sofferenze, il raggiungimento di una stabilità tutta diversa dal concetto di stabilità comune: è un introverso carico di vita, di contenuti solo suoi, di vizi mai confessati. La sua storia lo ha distaccato dal mondo, tuttavia se ti degna del suo sguardo ti penetra nel profondo dell’anima. Le sue rare parole arrivano come inconfutabili verità, ma non è sapienza la sua è intuizione e cultura.

***

Sandra Conticini: Un uomo antico. Finalmente è domenica, giorno di festa, me ne vado al bar a giocare a carte. Dopo aver lavorato tutta la settimana nei campi assolati o con il vento e il gelo mi concedo qualche ora di riposo e gioco a briscola o ventuno con quei tre o quattro amici rimasti.

Ormai gli altri se ne sono andati via dalla campagna tanti anni fa per lavorare nelle fabbriche delle grandi città.

Poi dopo diversi anni molti sentono la nostalgia e provano a tornare, ma non si sentono più a loro agio e così non stanno bene  né dove sono nati ed hanno vissuto i primi anni della loro vita né in città.

Sì è vero io rispetto a loro mi sento un uomo delle caverne, ma cosa vuol dire, non cambierei mai la mia tranquillità con la loro insofferenza!!!!

***

Laura Casati: LO SCONOSCIUTO. Alla festa dell’assaggio dell’olio nuovo all’Impruneta l’ho rivisto, era fra i tavoli dove veniva distribuita la bruschetta. Sono rimasta sorpresa non mi aspettavo di incontrarlo, era passato tanto tempo dall’ultima volta che ci eravamo incontrati,  mi aveva detto che partiva per un lungo viaggio e non sapeva se sarebbe tornato. Mi sono chiesta, non mi ha avvertita, cosa l’ha costretto a rivedere i suoi piani?  E’ tornato proprio ora, in questo periodo, in autunno quando ormai la natura si sta addormentando ed anche i ricordi della bella stagione si stanno assopendo.   Nella primavera passata tutto sarebbe stato diverso,  l’avrei accolto con un altro spirito. La natura che in quel periodo si stava risvegliando  mi avrebbe dato una mano ad uscire dal  torpore- Forse è successo qualcosa durante il viaggio, ha incontrato qualcuno che lo ha avvertito della nostalgia che sentivo dei nostri incontri, delle nostre chiacchierate, del suo sapere che riusciva a saziare le mie curiosità. Oppure anche lui ha avvertito la mancanza delle nostre conversazioni, anzi delle mie confidenze. Certo è invecchiato molto, la sua faccia si è fatta più incavata, più rugosa, chissà….Non sono pronta ad incontrarlo, ora, ormai la sua partenza la stavo accettando me ne ero fatta una ragione ne avevamo parlato spesso, come parlavamo di tutto il resto, della necessità di procedere da sola, del mondo nuovo che doveva venire al quale mi stava preparando ma poi da sola mi ero  fermata. Ed ora era tornato per stimolarmi a riprendere il cammino?

***

Patrizia Casati: L’uomo al bar. A  prima vista mi ha messo un senso di tristezza: il suo volto incavato ,provato dagli anni forse anche dal lavoro,adesso è lì davanti ad un tavolo con amici e gioca a carte. Si sta rilassando dopo una giornata dura. La sua famiglia lo aspetta……

Ecco mi ha fatto venire in mente il babbo che ogni giorno dopo il lavoro andava al bar, ne frequentava due:  alle Riffe e al Ponticino;  giocava a carte con i suoi amici.

A volte con la mamma andavo in Piazza delle Cure e non c’era una volta che non mi fermassi a salutare il babbo: entravo nel bar e diritta rasentando il bancone e via… mi avvicinavo a lui o allo zio Ugo (anche lui era al tavolo del gioco).

Ecco anche il babbo aveva un viso con i segni degli anni ma i suoi occhi erano più espressivi, era contento di essere lì e passare alcune ore con gli amici.

La sera tornava a casa e raccontava..

Se andava a giocare dopo cena al rientro ci lasciava sul tavolo due cioccolate LUISA che al mattino ci davano il buongiorno.

***

Chiara Bonechi: Amici al bar. Aspetto dalla mattina questo momento,”sono le quattro, sì mi muovo, di sicuro trovo qualcuno”.
E così l’uomo, ormai in pensione, si avviò verso la piazza del paese, là dove c’era il solito bar.
Era ormai primavera inoltrata, i tavolini erano stati posizionati all’aperto e a quei tavolini ogni giorno si sedevano i quattro amici per trascorrere le ore di quei pomeriggi che in casa sarebbero stati troppo noiosi.
Lo stavano aspettando, senza di lui nulla iniziava, nè un commento, nè un racconto, nè un gioco a carte.
“Stasera una briscola!” Disse con piglio deciso.
E così la partita iniziò.

***

Maria Laura Tripodi: Ritratto. Quando è entrato tutti ci siamo chiesti chi fosse. Non si è presentato, ha detto solo un  buona sera a labbra strette e si è seduto. Aveva l’aria annoiata di chi deve per forza assistere a un avvenimento.

Non so perché mi sono chiesta dove avesse lasciato soprabito e cappello.

Ogni tanto cambiava impercettibilmente posizione sulla sedia e dietro la sua espressione impassibile si intuiva un’attenzione particolare puntata su ciascuno di noi.

“Ecco, adesso comincia a cantare” ho pensato. Mi trasmetteva la tranquillità e l’armonia che solo la musica sa dare.

E l’ho visto. Camminava sul lungo Senna in una ventosa serata d’autunno, con le mani nelle tasche del soprabito mentre canticchiava a mezza voce una triste canzone d’amore.

***

Patrizia Fusi: Attilio. Oggi è arrivato un signore di mezza età, quando sono arrivata lui era già seduto al tavolo, il suo aspetto mi ha incuriosito, ha i capelli pettinati  come mio padre tutti all’indietro e stempiato, la pelle del viso segnata dal sole, le guance infossate, le labbra sottili, gli occhi piccoli con lo sguardo pungente, le sopracciglia folte, vestito di scuro.

Il suo nome è Attilio; mi è sembrato molto riservato, le cose che lo appassionano di più sono  la letteratura e la poesia. Gli piace anche  scrivere.

Ha un piccolo appezzamento di terra che coltiva ancora.

***

Stefania Bonanni: Il pescatore. Settimo nato di undici maschi, stipati come acciughe nella stanza umida del Vomero, dove da secoli abitava la sua famiglia. Fu subito chiaro che per mangiare  doveva darsi una mossa e fin da piccolo andò con i fratelli in barca, prima per aiutarli a gettare le reti, poi anche per tirarle su, sperando fossero pesanti.

E passarono i giorni, i mesi, gli anni. E si vedevano tutti, questi passaggi, sulla pelle sempre più scura e più lucida, sempre più arrostita e riarsa, come ad aver cambiato pelle. Come aver bisogno di una corteccia. Non fu una vita comoda, ma non fu neanche difficile. Non ci furono strade da cercare, scelte da fare. Era già tutto lì. La fidanzatina girava per casa, era la sorellina della moglie di un fratello, sposarsi fu normale. I figli vennero da sé. Tanti, quanti Dio volle. E la fatica cresceva, come gli anni che passavano, e da un certo punto in poi non più in maniera proporzionale. Sembrava avesse cent’anni, quando ne aveva la metà.

Il giorno che al mercato del pesce, un signore elegante lo fissò a lungo, ne fu molto infastidito.

Quando il signore tornò anche il giorno dopo e stavolta gli si fermò proprio davanti, lo apostrofò sgarbato. “Che hai da guardare? Mai visto un pescatore vecchio? ” Ma l’altro insistette, lo guardò in faccia, gli girò intorno, gli guardò le mani, poi chiese di vederlo camminare. Gennarino fece due passi, poi si girò con le mani a pugno, minaccioso. L’altro si mise a ridere. “Sono Pasolini”, disse, ” cerco qualcuno per un film. Un pescatore”  “Si, di quello sono capace, si può fare”.

Passarono i mesi, il banco di Gennarino era chiuso. Il rione parlava di fortune che gli sarebbero capitate immense, la gente non vedeva l’ora di di sapere come sarebbe tornato arricchito. E passava il tempo.

Senza preavviso, vestito di nero come quelli che scrivevano poesie in Francia, una domenica pomeriggio riapparve al tavolo da gioco del bar in piazza. Senza una parola. Solo le solite bestemmie, quando non venivano le carte giuste, la solita cicca penzoloni al labbro, a sinistra, o a consumarsi in bilico sull’orlo del tavolino. Non un divo, era il solito Gennarino, quello che giocava la spuma, come premio della partita.

“Ma non facevi l’attore?” “Macché, non ero adatto. Ma lo sai cosa dovevo pescare? Io che credevo di conoscerli tutti, i pesci? Uomini, quello voleva pescassi: Uomini……Non sono stato capace…torno alle acciughe”.

***

Monica Baldi: Il giocatore. L’uomo giocava. Con i compagni, al solito bar. Metteva nel gioco tutta la sua attenzione, come se tutta la fatica della sua vita già passata avesse avuto come unico scopo quello di portarlo lí, in quel momento e in quel luogo; nessun “poi”, nessun “dopo”.

Il volto asciutto, preciso, solcato, mostrava una fronte alta e spaziosa sotto la quale uno sguardo acuto, indagatore, sprigionava forza e autorevolezza. Condensava in pochi scarni tratti tutta l’essenza della sua vita.

***

Ivana Acciaioli: Mio padre. Mio padre giocava a carte.
Era bravo e misurato nel gioco.
Accigliato e concentrato giocava e anche se comparivo al suo fianco a mala pena si accorgeva di me, piegava la bocca sottile in un sorriso appena accennato ed era tutto.
Io che ero piccola non capivo perché la sera doveva lasciarci sempre per andare al bar; non capivo e mi attaccavo a lui abbracciandogli le gambe per trattenerlo, ma non ricordo di averlo convinto nemmeno una volta.
La mattina sul comodino trovavo sempre un chicco , ma quella dolcezza seppure dono raro a quei tempi, non mi compensava.
Frequentavo la prima elementare di pomeriggio, allora usava così, non so se per carenza di aule o perché era ritenuto l’orario migliore per i piccoli .
Mi accompagnava il babbo perché la mamma lavorava nelle ore pomeridiane.
Raggiungevamo la scuola in bicicletta, lui sulla sua nera da passeggio e io sulla mia di terza mano lo seguivo ruota contro ruota.
Poi lo trovavo ad attendermi all’uscita, ed era un bel momento.
Un giorno, però lui non era come il solito ad aspettarmi, allora mi misi fiduciosa  in attesa vicino al mio piccolo mezzo a due ruote.
Le custodi si affaccendavano pulendo le aule ed ogni tanto mi guardavano, ma nessuno si preoccupava più di tanto, non esistevano cellulari e nemmeno telefono fisso.
Ero rimasta l’unica bambina fuori dalla scuola, un po’ triste all’inizio poi sempre più infuriata, era evidente che il babbo si era dimenticato di me.
Ad un certo punto presi la decisione, sarei tornata da sola e il babbo mi avrebbe sentito!
Dimenticarsi di me , lasciarmi ad aspettare tanto tempo!
Infilai il manico della cartella nel manubrio e partii, nessuno mi fermò, nessuno cercò di capire il dramma nel quale il mio piccolo essere si dibatteva,la cartella mi sbilanciava, avevo dovuto trovare una soluzione, avevo realizzato che nessuno si sarebbe curato di me se non io stessa.
Mi diressi verso casa con un po’ di timore ricordandomi le parole del babbo:
-Devi sempre stare a destra .
Per mia fortuna avevo abbastanza sale in zucca da sapere quale fosse la destra e ricordare la strada di casa, ma giunta a destinazione non trovai nessuno, il mio piccole essere fremeva di collera..ero stata dimenticata..abbandonata.
Realizzai che il babbo era sicuramente al bar a giocare a carte, solo la sua grande passione poteva averlo distratto da me, infatti era seduto al tavolino con altre tre  persone e , super concentrato  con  le carte in mano, girò appena la testa verso di me, mentre le sue dita continuarono scorrere le carte.
-Ma babbo non sei venuto a prendermi!Sono tornata in bicicletta da sola!
-Brava! Da ora in poi lo farai ogni giorno.
Odiai lui e le carte.
Perché dovevo crescere così in fretta?

***

Gabriella Crisafulli: Un amico. Eccolo pronto per la partita a briscola. Quanti prosciutti e salami vinti nei tornei di carte delle varie Case del Popolo! Vi ci sfamavate, tu e la Paola. Gli occhi di un azzurro trasparente, magnetici, balenavano di un sorriso monello mentre la voce tuonava. È stato un incontro fulminante che ci ha trascinati in avventure estreme. Come quando a Saint Floran, sotto una tempesta notturna con diluvio, mentre il vento portava via la tenda, la piccola chiese “Papà, affondiamo?” Finimmo tutti insieme nella sua canadese che resisteva alle intemperie.

***

Lorenza: Il poeta solitario. Quando ho visto la lontano la persona fotografata ho pensato che quell’immagine avrebbe potuto essere quella di un poeta.

Il volto dai tratti scolpiti, come tagliati con l’accetta, scavati dalla sofferta ricerca delle parole adatte ad esprimere pensieri e profonde riflessioni che riguardavano il sé o il mondo intero. I capelli radi sulla fronte come se la mano a forza di passare e ripassare li avessi tolti uno a uno lasciando i versi che cercava con ansia mai sopita.

Invece guardando meglio da vicino ho visto che tra le mani teneva delle carte da gioco. La bocca era aperta e sdegnosa, il cipiglio alzato. Allora mi è stato chiaro che era un giocatore, impegnato a vincere una partita che sembrava persa a causa delle carta giusta che non entrava o della mossa sbagliata del compagno di gioco. Ebbè certe volte è meglio non vedere da vicino le persone. E comunque a un giocatore incazzato io preferisco il poeta solitario seppure spelacchiato.

***

Roberta Morandi: LUI. La vita a volte è dura, non crudele, ma dura: una vita che ti scolpisce il viso e non ti toglie più quella espressione. Quella ruga lì che scende dall’angolo destro del labbro superiore, e dice quanto la tua sofferenza passata ha inciso anche il tuo cuore.
Una ruga che ancora (help) sorride e quando lo fa riempie il cuore di aspettative…
Asciutto e severo nel tuo vestito della festa, del mio matrimonio, sembri un vero signore, elegante e austero quale sei sempre stato.
Lo stesso vestito di quel giorno radioso, con quella tua ruga che a tratti sorrideva, bagnata di una lacrima felice, quel vestito ancora nuovo lo hai indossato per l’ultima volta solo un anno dopo. Lo stesso abito, la stessa ruga, ora immobile ad abbozzare un finto sorriso, non tuo: ti hanno ricomposto togliendo la sofferenza dell’infarto.
Avevi 60 anni, solo 35 anni prima, in un altro abito, con al collo il fazzoletto rosso della brigata Sinigallia, e la tua solita espressione con quella ruga che non sapeva che direzione prendere, quando trovandoti davanti i tedeschi hai deciso di buttarti lungo i balzi del Lonchio e ti sei salvato. Poi sono nata io…poi ancora tuo nipote e te ne sei andato in silenzio, serio e composto, lasciando un mondo in sospeso: domande, attese, risposte che altri hanno elaborato per te. Tutte quelle storie che ……..prima ero troppo piccola, poi troppo presa dai giochi e poi dagli amori, dagli studi, dal lavoro…e ora è troppo tardi.
Quante domande ora farei a quella ruga lì  che un po’ ride e un po’ no, che mi dice di stare attenta a salire sugli alberi, di non aver paura a prendere in mano le cavallette e le lucertole, di guardare sempre avanti, verso sud ovest dove il cielo si tinge di rosso e il vento ti fa  strada.

***

Tina Conti: Seduto al circolo – Mi sarebbe piaciuto tanto e ancor oggi credo di cercare il posto dove  ritrovarsi senza tante formalità e strutture, parlare, ascoltare, confrontare pensieri e banalità, ritrovare  spensieratezza e  gioco
Appena sposata e lasciato il mio “il posto delle fragole ” (e Dio sa quanto ho cercato casa nelle vicinanze), dove io, la “contessina” (e  non per alterigia  ma per il mio cognome), imparavo a ricamare e da dove  osservavo il mondo, crescevo e apprezzavo le persone.  E avevo un tempo leggero.
Fu quella donnina piccola e gentile che in estate arrivava con la sua seggiola  e con tutti quei fili colorati a insegnarmi.  Il Punto Palestrina, poi  gli sfilati, mi regalava  i colori  e l’allegria, la voglia di imparare e muovere le mani. Per  le donne quello era il nostro tempo magico:
Si ritrovavano in primavera e in estate sotto  i platani, vicino al  pallaio  dove gli uomini facevano sentire il rumore delle bocce  e i commenti alle giocate, senza un appuntamento, a piacere. Oggi c’era l’Elvira, la Marisa, mancava la Clara, era dalla suocera, la mia mamma veniva poco , e io preferivo così perché ero curiosa di capire le altre donne, i loro discorsi, le  loro storie e i segreti della vita.
Quasi tutte lavoravano con le mani, con il caldo estivo  ci si ritrovava  anche a frescheggiare.   Si diceva “a veglia”, dopocena.
Dopo non ho trovato molto; ho dovuto continuare con caparbietà a cercare.
Dalla strada anonima dove sono andata ad abitare dove tutti stavano nel proprio giardino, alla casa nella nuova zona urbanizzata,  dove i progettisti non avevano creato un posto che aiutasse la donne a socializzare, fino a oggi dove ho il posto delle fragole diffuso. Non è lo stesso ma  quasi, e io mi ci ritrovo.
Gli uomini invece  trovano più occasioni per  incontrarsi.
Nella foto, Gustavo vive intensamente il suo tempo fuori casa, il circolo, le carte, ogni giorno con qualunque tempo. Gustavo esprime nel suo volto concentrazione, impegno.
Ha scolpito nei tratti la fatica della vita, ma ora il tempo è suo, gode  nel giocare una carta vincente.

IL FUOCO NELLE SCARPE – di Dana Carmignani

Quando son di sopra, fra le mie stoffe, o immersa nei miei scritti, nei miei pensieri.. uno solo ad un certo punto sovrasta.. “ Ohioi via mi tocca tornà giù.. c’ho da accende la stufa e andà a piglià la legna..”
Che bello , penso sempre, trovare tutto pronto, sistemato, caldo..
In questi momenti nonna torna prepotente ( quando mai non torna).. e mi sembra di risentirla che intramena di sotto, canticchiando sottovoce, mentre io nel letto, al caldo sotto le coperte aspetto ancora un po’ ad alzarmi. Poi giù trovo il fuoco acceso, il latte che bolle sul fornello a carbone, le scarpe pronte che si scaldano infilate sugli alari, anzi lei spesso, quando fa le gelate che si trizza anche in casa, prende le molle e raccatta dei pezzi di brace, li infila dentro le scarpe, e mentre io mi sbarazzo in un lampo del pappone zuppato che lei ha preparato per me come colazione, scuotendo le calzature come se il fuoco dentro, fosse un sasso in un barattolo, me le riscalda e me le porge, per farmi avere i piedi bollenti, nel mio avventurarmi dentro il freddoloso inverno verso la scuola.
Con la brace si fa tutto, si accende il fornello, si mette nei caldani, nel braciere.. nonno, con lo stesso gesto di nonna, ne prende un pezzo sempre con le molle e si accende la pipa.. ho visto anche a volte raccattarne dei pezzi con le mani a quei vecchi, di quei carboni, senza bruciarsi, come fossero immuni in modo arcano alle fiamme.
Si presta anche il fuoco.. a volte vengono i vicini.. “ Mi date un po’ di brace Giulia.. così un’ammattisco..”.. e si dà in un coccio di sasso una parte del carbone incandescente che passa nelle mani della vicina e quindi finisce nella vicina casa… e inizia una nuova vita da fuoco in un altro focolare.
Stessa cosa quando rientro dalla scuola.. so che troverò caldo e la tavola pronta, anche se un pezzetto, tanto siamo me e lei.. il braciere sotto la tavola .. il gatto sulla seggiola.. un mangiarino che finisce di sfrigolare sempre sul fornello a carbone, in un tegamino che lei porta in tavola, mentre si siede a fianco a me.. gli stessi posti.. lei a capo, io nel mezzo.. sotto il braciere coi nostri piedi insieme sopra.. ce lo litighiamo come bambine quel calducciolino fra le gambe, mentre si mangia tranquille, perchè è questo il bello di sapere che c’è qualcuno per te.. la tranquillità, la serenità che comporta la presenza costante di qualcuno che ti ama, e che tu sai che sarà sempre presente.. non c’è bisogno che te lo dica, lo sai dentro, e dentro di te rimangono queste attenzioni, che poi crescendo restano e formano le basi di te stessa che, anche se non te ne accorgi… ti porterai dietro.

Lo specchio oscurato – di Rossella Gallori

Non volevo guardare, questo me lo ricordo bene. Lei era lì lo specchio  tragico di quello che era successo …..me lo disse piano …feci finta di non capire, le chiesi con lo sguardo di ridirmelo più forte .

Mi alzai ed andai di là: casa nostra era immensa  e non usavamo dire  la camera, la cucina, il bagno ….il salotto…..c’ era un di qua ed un di là, uno un po’  più freddo  e un altro un po’  più  rumoroso.

E nel mio “di là” c’era la camera del babbo….cioè la mia, la nostra.

Salii sullo sgabello, quello che la mamma , con la sua aria da signora chiamava “piccola dormeuse”, ero alta, non grande….coprii lo specchio, con il cencio che la nonna portava sul capo alla messa, si chiamava così quel pezzo di pizzo nero, che  lei portava in chiesa.

Mi inginocchiai, ma più  per il dolore, che per pregare…poi mi alzai di scatto e con tutta la forza che avevo lanciai contro lo specchio  oscurato quello spruzzaprofumo di cristallo, con la nappa verde, color salvia poco annaffiata.

Ci fu un rumore sordo, cattivo, non so se si ruppe  lo specchio, la toilette o la preziosa bottiglia.

Ricordo il rumore come di biglie di acciaio impazzite, che mi spaccò il cuore….poi  fu buio, poi giorno, e di nuovo specchio, cristallo, biglie, silenzio, morte.

Ma poi, il babbo,…… dove era andato e perché  …..?

 

 

 

LA LUNA NEL POZZO – di Mirella Calvelli

 

Correvo in un prato, in una notte di luna piena…a piedi scalzi, il rumore dell’erba bagnata e grassa.

Due colori distinti il verde scuro dell’erba e il blu scuro, ma iridescente del cielo…………e in fondo, sulla linea dell’orizzonte, un pozzo che sembrava di pietra.

Mi avvicino a quello che da lontano non sembrava così grande. Gli giro intorno e intanto il mio sguardo va al cielo, dove una palla luminosa la fa da padrona.

Ne prendo le misure, vorrei spostare il pozzo tanto da centrare quella palla così perfetta e distinta.

Mi arrampico con fatica, non sono mai stata così brava a salire sui muretti!!!

Ma il mio sguardo cerca sempre la signora luna.

Una volta salita, mi metto in sicurezza, sorreggendomi ad un’asta di ferro, dove una  vecchia carrucola arrugginita tentenna lentamente, lasciando scivolare un pezzo di fune marcia.

Adesso sono ben seduta, aggrappata e guardo il fondo del pozzo.

Che bello, la palla luminosa è laggiù, immobile, meno brillante  quasi invecchiata, prigioniera, non più perfetta, come quella che è in cielo.

Adesso, sono io che mi specchio…ora nel pozzo siamo in due, io e la luna, ma io chi sono quella in cielo o quella nel pozzo?

CONTROLLARE – Elisabetta Brunelleschi

Controllare l’ora ogni mattina.

Controllare il calendario.

Controllare la posta.

Controllare il telefono.

Controllare le date di scadenza.

Controllare il conto.

Controllare i capelli.

Controllare l’abito.

Controllare il fuoco ché solo possa scaldare e consolare.

Controllare il respiro per restare vivi e non morire in un attimo.

Controllare la voce per parlarti ogni giorno.

Controllare lo sguardo, il mio sguardo che su di te si posa.

Controllare le tue parole per capirti sempre e sapere dove sei.

Controllare le orecchie che ti vogliono ascoltare tutti i giorni un po’ di più.

Controllare il cielo grigio, bianco, azzurro e rosso al tramonto.

 

Controllare senza controllo

e alla fine  perdersi ad occhi chiusi nell’intorno

Con poco – di Emilia Caravaggi

Giocavamo con poco. A volte ci bastava una scatola, delle matite, qualche nastro, un po’ di carta, delle forbici e tanta fantasia.   Una mattina mia sorella Tilla andò all’Ufficio Postale con la mamma e restò fulminata nel vedere il centralino telefonico dove diverse signorine, con una cuffia in testa, introducevano una sorta di bastoncino, con un lungo filo attaccato all’estremità, in un pannello pieno di buchi e con grande dimestichezza riuscivano a introdurli  o a estrarli parlando velocemente nello stesso tempo: “ Venezia, ti includi ? “ “Torino no sto già parlando grazie” e così via.

Tornata a casa, Tilla non perse tempo. Ci chiamò a raccolta dandoci vari incarichi per procurarci scatola, matite, fili e forbici con le quali passammo tutto il pomeriggio ad allestire l’Ufficio Postale. Preparammo francobolli, buste e lettere, telegrammi  e poi ognuna di noi aveva un compito. Tilla ovviamente era al centralino, l’altra sorella, Gianna, era allo sportello ed io facevo il fattorino che portava i telegrammi. Ci divertivamo molto e la mamma adorava ascoltarci perché eravamo molto buffe inventando tutto di sana pianta. Un pomeriggio però sentì piangere disperatamente per cui si precipitò di corsa nella stanza e trovò tutte e tre in lacrime. Molto preoccupata e non capendo il perché di questa tragedia iniziò a farci domande e fra le lacrime e dopo varie domande riuscì a capire che io, il fattorino, avevo ricevuto un telegramma che annunciava la morte di mia cognata !!!

Eravamo tanto prese dal nostro gioco che avevamo perso il senso della realtà.

Libri e vita – di Nadia Peruzzi

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(…) Un libro ci segna, ci accompagna, ci rappresenta, mentre ci rapisce e ci porta lontano.  Scandisce fasi della vita.  Cosi’ tanto che non riesco a leggere di nuovo lo stesso libro.  So che dovrei, so che leggendo in momenti diversi potrei cogliere cose diverse perche’ il mio filtro sarebbe diverso, oppure no e potrei , rileggendo verificare anche questo.   Diversa da mia mamma in questo, che ha letto , ma pure riletto,  tantissimo.

Le mie riletture si contano sulle dita di una sola mano.  E uno dei libri l’ho riletto appena dopo 15 giorni. Perche’ non riuscivo a capacitarmi che la conclusione a cui l’autore voleva portarmi fosse proprio quella a cui in realta’ mi portava.

Ci ho provato piu’ volte con Delitto e castigo, ma no, non e’ piu’ nelle corde.  Non scorre.  Non riesco piu’ a logorarmi dentro quelle introspezioni e a quella oscurita’ dell’animo che destabilizza.

Tutto scorre, qualcuno ha sentenziato, quasi all’inizio della storia dell’umanita’ pensante.  E scorre anche per il lettore.  Si cambia, il mondo attorno propone nuovi stimoli e spunti, nuove sfide e nuovi problemi.   Alcune ti costringono pure a cambiare generi.  Fino a mattoni economici,  che mai avrei pensato di affrontare.   O i saggi su temi epocali che sono in grado di sconvolgere le nostre vite.  Libri non piu’ per perdere la realtà ma per entrarci ancor più dentro, anche soffrendo.  Perche’ sapere e conoscere e’ anche aprire la porta a cio’ che preoccupa e fa star male.   I libri sono tutto e parlano di tutto.  Sono vita nella vita!

 

ROSSO FLANELLA – di Mirella Calvelli

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Volevo scrivere qualcosa sul rosso…colore del fuoco, della passione, dell’amore, del sangue, delle ciliegie, dell’anguria, delle fragole, dei lamponi, dei pomodori ……..

Quante cose sono tinte di rosso……………ma a me d’istinto è venuta alla mente una vestaglia rosso rubino di flanella, svasata, abbottonata fino al collo, con la goletta rotonda, le enormi tasche a “toppa”, i bottoni grandi fasciati , legata in vita da una cintola attorcigliata………

Che descrizione particolareggiata …E la penso appesa dietro la porta di camera dei miei, immobile, lunga, inanimata….si perchè ha perso vita da quando te ne sei andata è rimasta li a sorvegliare la stanza…Per un po’ l’ho spostata da un gancio all’altro, poi l’ho coperta con l’accappatoio di mio padre…ma un giorno è caduta e nel raccoglierla ho sentito il tuo profumo di lavanda..Mamma.

Sei sempre stata una donna modesta, semplice, schiva, taciturna.

Mai un vezzo, non ti truccavi, non portavi gioielli, ma sapevi di buono, di pulito e di lavanda, appunto…

Sarà per questo che la tua ultima dimora è coperta di lavanda e che nel tuo giardino un cespuglio immenso di questa pianta rigogliosa, invasiva, aggredita da migliaia di insetti ancora ti ricorda……

Ma la vestaglia era rossa, civettuola, immensa, perchè tu mamma eri una donna grande, anche nelle misure…

Il sabato tornavo da scuola e dal fondo della strada ti vedevo al balcone, avvolta dalla tua meravigliosa coltre rossa….e anche la tua voce era imponente mentre cantavi le arie della Butterfly……
Ho sempre pensato che avevi una voce importante…….ti ricordo felice in quelle arie Pucciniane, in Chiesa durante la Liturgia, le conoscevi tutte!!! E anche quando eri arrabbiata con me o mio fratello i toni erano alti, ma sempre intonati, mai striduli.

Chissà se non fossi nata in una famiglia tanto umile, tu avresti potuto studiare canto.

E quando ti abbracciavo altezza vita, gli occhi, il viso, la bocca sprofondavano in quel rosso rubino…sento ancora il “ pelino“ della stoffa sulle mie labbra.

Proprio perchè eri semplice, riservata e umile, quel rosso era qualcosa di più…Infatti è stato l’ultimo tuo indumento a lasciare la nostra casa……..

Era una tua creazione, il tuo lavoro di sarta eccellente…perchè cucivi camicie e vestaglie da notte per un negozio importante…eri brava, pochi segni sulla stoffa con l’unghia e poi veloci le forbici tagliavano sapientemente mentre la sinistra teneva il tessuto…

Come quella pezza di seta ….sempre rossa, corallo stavolta, fatta volare come una tovaglia sul  bancone dove lavoravi, io sotto con le gambe incrociate vedevo ricadere i lembi di questa seta così lucida e luminosa………era la mia tenda berbera…………..Poi quel ticchiettio metallico delle forbici vive facevano scivolare a terra piccoli pezzi di questo tessuto così prezioso….quello era il mio bottino!!
Sarebbero diventati abiti per le mie bambole, braccialetti e gioielli che mi avrebbero adornato i capelli.

Ma non se ne poteva prendere troppa, era costosa tanto al metro, era per le signore…anche gli avanzi.

Sì era splendida, ma tu mamma eri da flanella, calda, accogliente e rassicurante……la seta non ti apparteneva, se non per lavorarla, era troppo fredda per te…..

Sei stata la mia tazza di tè, il mio brodo caldo, la mia coperta di lana…………Non parlavi molto, non giudicavi, mai……….Ma la tua maestria è stata che sei riuscita  a far parlare i tuoi oggetti, e continui a farlo, meglio di te stessa…..

 

Impegnativo – di Tina Conti

Sempre IMPEGNATIVO?    NO!!!
Anche leggero………
Irresponsabile………..no, non posso!
“nativo” – “impegn” –
Cosa significa?
Nato……Natone……Natuccio…….Nato ieri……..BRUNO!!!!!!!!
E poi? Domani…..
Dopodomani……..
Impegnati per Natale! C’è il pranzo di famiglia!
Quanti siamo?
21/22 …………..ci vuole la prolunga grande,
La pentola grande ce l’ho già.

Autoritratto – di Carla Faggi

Me ne sono fatta diversi di autoritratti.

A carboncino, con il pennarello, a colori.

Tutti seri ed attenti alle proporzioni con io in posa e senza emozioni.

L’altro giorno mentre disegnavo alla persa, senza soggetto, mi è uscito sulla carta un personaggio che mi piaceva.

Gli ho aggiunto un ciuffo di capelli ritti, un po’ di colore, un abito strano coloratissimo, macchie di colore sullo sfondo.

Una emozione incredibile! Si, ero io!

 

Salvia – di Lorenzo Salsi

 

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Salvia regina matta di misericordia/ vita d’un cieco…….”

La beghina  recitava con trasporto ma non avendo mai saputo il latino andava per sonorità.

Salvia, Silvia? Boh

Le prime 3 lettere corrispondono all’inizio del mio cognome SAL; VIA mi da l’idea della prora, di quel modo di dire marinaresco che indica l’andar dritti, Proravia.

Sal ….el sal de los mar ….. mi faccio paura.

Salvia di Gerusalemme pianta non edibile  per cucinare ma bellina a vedersi con le sue foglie color argento .

Salvia e alloro….. uhmmmm …..fegatelli!
Salvia parola morbida. 

Salvia parola veloce, forse per il “via”.

Forse era meglio se tenevo graffio!  Ma che c’entra ?

Il mio animo la mia deformazione professionale escono prepotenti; no, via, dai! non posso parlar di piante troppo facile per me .

Però che bella che è, che profumo. Ne ho una grande davanti la porta di cucina  e manda un profumo che …..ma sie ….Paco Rabanne, Hermes, Givenchy, Armani ….tse!

Mi siedo spesso a leggere, nella bella stagione, in giardino accanto alla Salvia sativa e godo del profumo e delle api e farfalle che si cibano del suo nettare e guarda caso la Salvia è proprio accanto al barbecue.

” Salvia regina ………”

PANE E CORTECCIA – di Ivana Acciaioli

Alle mie antiche merende è associata la parola pane e poco altro. L’ olio, il burro e zucchero o sale, acqua e zucchero, vino e zucchero, pomodoro strusciato erano vere e proprie golosità. Spesso il gradito spuntino dopo ore di corse e giochi all’aria aperta consisteva in una semplice fetta di pane solo. Io avevo coniato un nome per quella ricorrente merenda “il pane senza”,  senza nessun condimento o accompagnamento.

La merenda più modesta, ma più originale,  la mostrava uno dei bambini della compagnia  con il suo “pane e corteccia”, il piccolo stringeva saldamente tra le mani due fette di pane con in mezzo un pezzo di corteccia  del medesimo pane, benché la crosta del pane toscano abbia un buon sapore, quella merenda aveva soprattutto il sapore della povertà, anche se vissuta dignitosamente.
Molto più tardi arrivarono le merende ricche e profumate con “ella” come nutella e mortadella. Ma il “pane senza ” ed il “pane e corteccia” non li ho mai dimenticati ,conservo con loro il sapore della fantasia, dei giochi senza giocattoli, delle privazioni per fortuna solo materiali, e della felicità con cui un fico o una ciocca d’uva raccolti per caso potevano riempirti la bocca, rendendo il pane più umido e dolce.

Paura – di Emilia Caravaggi

E’ dentro di me da moltissimi anni. Aggressiva, deleteria, invalidante. Ha sconvolto la mia vita per anni e quando pensavo di esserne venuta fuori ritornava educatamente, in punta di piedi quasi silenziosa come il sibilo di un serpente. Non viene mai da sola. E’ accompagnata da ansia, angoscia, fragilità, rendendoti dipendente come una droga.

Il mio matrimonio stava affondando ed io non riuscivo a capire come fare, cosa fare. Ero spesso sola la sera fino a tarda notte e la paura di stare sola mi attanagliava la gola lasciandomi senza fiato. Non sapevo mai quando lui sarebbe tornato se prima, dopo o molto più tardi di cena, così presi l’abitudine di fermarmi, dopo il lavoro, a casa di una mia carissima amica che viveva  vicino a noi, dove restavo fino all’ora di cena per tornarmene a casa con angoscia perhè non sapevo se sarei rimasta sola o se avrei trovato lui. Restavo in piedi fino a tardi finchè non sentivo girare la chiave nella porta. Magari erano le 2 o le 3 del mattino e alle 5,30 di nuovo in piedi per rassettare la casa e lasciarla in ordine prima di andare a lavorare. Così tutti i santi giorni ! Cercai aiuto perché ero stanca, non dormivo che poche ore, ne lavoravo almeno 8 e non ero padrona di tornare a casa perche avevo paura di stare sola, di trovarla vuota. Trovai uno psicologo, fortunatamente, molto bravo. Ho passato con lui di settimana in settimana ben 4 anni e nel frattempo mentre crescevo io il mio matrimonio faceva acqua. La fine delle mie sedute con lo psicologo fu anche la fine del mio matrimonio. La paura non sparì ma si attenuò molto, dopo che la mia padrona di casa, che abitava sotto il mio appartamento, mi offrì la chiave di casa sua, dicendomi che in qualsiasi momento sarei potuta entrare da lei anche se fosse già addormentata.

Mi resi conto più tardi che sarebbe bastato un piccolo gesto, una mano sulla spalla per attenuare l’angoscia, tutta la paura e la dipendenza da altri. Non ho mai usato la chiave ma sapevo di averla lì nel portacenere sul mobile accanto alla porta di casa.

 

La scatola magica

LE SCATOLE – di Elisabetta Brunelleschi

(Stasera sul tavolo ci sono due scatole. Sono identiche e un’unica carta geografica riempie ogni loro faccia. È un mondo colorato, dove non è detto che il mare sia blu o i monti marroni, è un mondo vivace, di fantasia. Le scatole hanno un’apertura e, al buio, dovremo esplorare l’interno, senza guardare, senza ascoltare, senza odorare, solo infilando una mano nella stretta apertura…Un brivido scorre, sarà la bocca della verità?Fortunatamente una voce rassicura che ‘non c’è niente di pericoloso’ !? Ed allora il gioco può iniziare )…

Con questo gioco posso percepire duro, morbido, liscio, ruvido, granuloso, soffice, resistente, appiccicoso, colloso, vischioso, peloso, fresco, scivoloso, ispido, …

Ed è bello dare il nome agli oggetti partendo da un sentire che è senza colori, senza odori, senza rumori.

Una semplice pressione, lo spostarsi di un polpastrello, l’appoggiarsi del palmo di una mano e l’ignoto prende forma.

La mano avanza lenta, tasta con delicatezza e i primi oggetti prendono forma e nome: un barattolo, una scatolina che sembra coperta da cellofan, una pezzo di pane secco, una spugnetta per rigovernare, .. un tondo liscio, una pallina fresca, una spirale pelosa, …

E la fantasia può anche galoppare, inventare e vincere la paura del buio e dell’ignoto

***

Scelgo dalla scatola………

…il palloncino rosso – di Mirella Calvelli

Un palloncino, libero, un filo lungo scappato dalle mani di qualcuno…vola in alto, fiero, incurante di lasciare un viso piangente, smarrito o anche solo sorpreso che lo sta guardando mentre vola via…Il colore è rosso, nitido, lo rende ancora più fiero, veloce vero l’infinito, sicuro che grazie al suo colore qualcuno lo sta ancora seguendo….

Ma lui si piega, gira su stesso e cerca il contrasto con il cielo fino a diventare un puntino piccolo (rosso) ed essere inghiottito dalle nuvole, forse solo accolto fra le nuvole o nascosto dalle nuvole…come un sipario che si chiude a teatro…

Ma dove vanno a finire i palloncini che si liberano???

***

….la spugnetta ruvida – di Stefania Bonanni

La spugnetta ruvida per rigovernare serve per staccare gli appiccicaticci resistenti, quelli che se ne vanno solo dopo ripetute sollecitazioni, e che a volte proprio non ne vogliono sapere. In quei casi, si fa a chi insiste di più. Si stropicciano, loro se ne stanno appiccicati,resistono attaccati con quelle manine a ventosa, non cedono,e allora si lasciano lì. Ma non è finita. Si riprova,dopo averli lasciati un po’ a bagno per farli ammorbidire. E si stropiccia, ancora. Non se ne vanno?  Va beh, finiscono in lavastoviglie. E quella…..non guarda in faccia nessuno! Si apre l’elettrodomestico e voilà….gli appiccicaticci sono sempre lì: hanno vinto loro! E allora viene spontanea una riflessione: ” Ma che roba era quella che si è mangiata ieri a cena?”

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…..la pasta appiccicosa – di Sandra Conticini

La prima sensazione è stata di ribrezzo che poi si è trasformata in tenerezza, perché toccando l’oggetto ho pensato che poteva essere uno di quei mostri cinesi che piacciono ai bambini. Vedere un bambino felice, contento, che gioca con un balocco che gli piace a me fa venire una sensazione che io chiamo tenerezza. I bambini sono bravissimi in questa arte della tenerezza: ci sembrano fragili e indifesi e quindi siamo sempre pronti a proteggerli. Si percepisce che il piccolo si affida totalmente a te ed ha tutta la sua fiducia nei tuoi confronti e quindi  non puoi tradirlo.

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….la spugnetta ruvida – di Miriam Pavi

La mia mano ha riconosciuto subito l’oggetto, credo che questo sia avvenuto perchè:

  • Serve per togliere le incrostazioni (…mi piace l’anima, l’essenza delle cose)
  • mi somiglia un po’ (sono abbastanza ruvida all’esterno)
  • è un oggetto comune e funzionale…..

d’altra parte i miei sogni e la mia creatività partono quasi sempre da spunti di realtà.

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…….il pane secco – di Chiara Bonechi

La mia mano che entrava nella scatola mi ha ricordato un gioco fatto a scuola durante una festa di primavera, in giardino: “La bocca della verità”.
Avevo preparato un grande volto di donna aiutata da un’amica che sapeva dare espressione e colore a quel volto sicuramente meglio di me. La donna aveva una grande bocca, leggermente aperta, contornata da labbra rosse.
Appesa alla finestra della casina di legno nel giardino della mia scuola, io nascosta dietro vedevo la manino dei bambini che coraggiosamente infilavano in quella bocca misteriosa…
Su quella mano cadeva marmellata o nutella o latte condensato o miele e loro dovevano indovinare e poi potevano assaggiare.
Io nella scatola ho sentito il pane secco, meno attraente dal punto di vista della golosità ma capace di suscitare bei ricordi.

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…….la collana di perle (che nell’immaginario corrispondeva a una lunga fila di perline di vetro rosso per addobbare l’albero di natale). – di Maria Laura Tripodi

C‘era un acuto profumo di muschio nella stanza.

Il babbo stava preparando il presepe e quello era il momento dell’anno in cui Marta amava assaporare il gusto della condivisione, anche solo osservando.

C’erano tante scatole per terra: quella che conteneva le statuine di gesso, quella con il muschio dell’anno precedente, quelle con le palline colorate che avrebbero addobbato l‘albero di Natale.  E poi rotoli di  carta dorata  per coprire le gambe del tavolo e quelli di carta  mimetica per simulare le montagne dello sfondo.

In un angolo c’era il muschio appena raccolto, in attesa di essere sistemato.

Il babbo, che era elettricista, aveva anche preparato un piccolo pannello di legno ricoperto di una carta blu a stelline dorate e con delle piccole lampadine tonde aveva composto la scritta W Gesù.

Tutto sembrava avvolto in un’atmosfera magica ancora prima che lo scenario fosse approntato.

Gli occhi di Marta erano curiosi e attenti. Lo sapeva che ci sarebbe voluta una giornata intera e che lei avrebbe solo potuto sbirciare dallo spiraglio della porta a vetri, ma alla fine tutto avrebbe brillato dell’atmosfera natalizia.

Alla sera quando il resto della famiglia fosse andato a dormire lei invece si sarebbe alzata e nel buio avrebbe goduto delle lucine che brillavano dentro le casette di cartone e del bagliore che l’albero di natale spandeva tutto intorno,  a intermittenza.

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…….sasso liscio – di Tina Conti

Non è facile trovare un sasso liscio e quando l’hai trovato te lo tieni caro. E’ come un tesoro. Nella tasca della giacca ti fa compagnia, è un passatempo quando sei in coda e,aspetti il tuo turno dal fornaio o quando hai un appuntamento e non arriva nessuno e tu cerchi di rimanere calma e serena. Nel frattempo giochi con il tuo sasso nella tasca: lo rigiri, lo accarezzi, lo stringi.
Quelli lisci e sottili, con grande dispiacere diventano piattellle da lanciare sull’acqua. quelli piccoli finiscono in un barattolo insieme a quelli tondi, a cuore o a forma di naso.
Un sasso liscio non si abbandona mai, si ritorna anche indietro per raccattarlo.
Peccato che  nelle tasche facciano un gran peso, e a volte si perdono perché la fodera si  è bucata.
Ne ho ritrovato uno in una borsa che uso solo in inverno, non ricordo dove l’avevo raccolto ma mi ha fatto piacere ritrovarlo.

***

…….il barattolino a sonagli – di Roberta Morandi

Per la verità nessun oggetto mi ha emozionata a tal punto da renderlo vivo, è  stato divertente ciacciare in una scatola, ricordo due film. Se proprio devo scegliere qualcosa, forse il barattolo a sonagli è  stato l’unico che mi ha fatto pensare alle biglie colorate che i bambini si scambiavano e facevano razzolare,  i bocchi. C’è n’erano di varie dimensioni e colori e stavano racchiusi nei barattoli di latta o vetro.
Tutti alle stradine avevamo i bocchi, c’è li portavano sempre dietro, racchiusi nei sacchetti ti tela o in vecchi calzini più volte rammendati,  ma a casa stavano nei barattoli, quelli che ci portavamo dietro erano quelli da scambiare, i doppioni o i meno belli e preziosi: una biglia di vetro trasparente con all’interno una pennellata di uno o due colori, a volte anche tre.
Il tintinnio dei bocchi nelle tasche dei pantaloncini corti (da piccola  non riuscivo a giocare con i vestiti da femmina) mi faceva sentire uguale a loro, i maschi, anche  se avevo le treccine bionde col fiocco, che era sempre sciolto. Per le stradine le femmine non giocavano per strada, i maschi si. Le femmine giocavano nei giardini privati con le bambole e i coccini a fare le signore, i maschi giocavano a “bocchi” o a far la guerra fra “bachi”, le stradine, e “semi” la piazza. A questo gioco le femmine e non erano ben accette se non quando si doveva raggiungere il numero dei “semi” o dopo la battaglia, a suon di cerbottane con lo stucco o i pirulini, a medicare le ferite dei “valorosi”. Una volta fui ferita pure io con un pirulino  ad una caviglia, quella fu la mia entrata nel modo dei maschi a giocare anche a “bocchi”.
 

Cappuccetto rosso – di Stefania Bonanni

Mi piace tanto quell’ultimo suo gesto. Quando col ginocchio destro appoggiato a terra,  con la testa vicina alla mia, occhi negli occhi, con la mano aperta mi accarezza le spalle coperte dalla mantellina rossa, dopo avermi agganciato i tre alamari che la chiudono davanti. Poi mi tira l’orlo della gonna a pieghe, che un pochino sporga da sotto la  mantellina. Poi si alza, fa un passo indietro per guardarmi tutta, sorride, e mi stampa un bacio sonoro sulla fronte. “Vai, sei bellissima”. Lo so, me lo dicono tutti.

Ho questi capelli nerissimi, con la frangina che incornicia occhi ancora più neri, sgranati, curiosi, il visino tondo. Quando ho questa mantellina rossa sono molto orgogliosa, perché lo so, me lo dicono tutti, che mi sta benissimo. Ho anche gli stivalini, rossi, perché è piovuto e ci sono le pozze. Sembro proprio Cappuccetto Rosso, me lo dicono tutti.

Prendo la cartella, bacio la mamma, e mi incammino. Lei mi guarda allontanare stando in piedi sullo scalino davanti alla porta. Mi vede fino alla pozza grande, prima della curva.

Vado a scuola. In prima elementare. A piedi e da sola, come tutti. La strada è quella sterrata che si fa cento volte al giorno, che passa davanti alle case di persone che conosco bene e che mi salutano sempre.

Sembro Cappuccetto Rosso, ma qui il lupo non esiste. Sono molto tranquilla, e mi piace tutto, di questa strada. Mi piace camminare vicino alla siepe, per vedere se per caso c’è qualche fiorellino, per la maestra. Mi piace tirare calci ai sassi.Mi piace saltare nelle pozze. Puliro’ gli stivalini  prima di entrare in classe, con il fazzoletto.

E poi, all’improvviso, mi rendo conto che devo passare davanti a quel cancello. E ora?

Ho paura, paura…mi batte il cuore forte..non me lo ricordavo…ho paura. Provo a strisciare vicinissima alla macchia, mi pungono i rovi, ma non importa, pur di provare a nascondermi.

Ma mi rendo conto di essere tutta vestita di rosso….mi si vede da lontano..

Speriamo il cancello sia chiuso….no, è aperto, vedo bene che le due parti sono appoggiate al muro….oddio, come posso fare? Cammino pianissimo, non respiro per non fare rumore…. Oddio, eccolo lì, mi ha visto…mi corre incontro, grida, ho paura….mi metto a correre più veloce che posso, sta per raggiungermi….arrivo alla curva…non lo sento più. Ho paura anche a girarmi, paura che sia lì vicino, ed invece guardo….e non c’è.

Madonna che paura….arrivo in classe trafelata, sudata, motosa, scompigliata. E dire che mi ero preparata tanto…

Da domani mi metto il cappottino blu, sperando non piaccia a quel grosso tacchino….gulu…gulu…