
Simone Bellini: I limoni e la neve
Era il silenzio ovattato nel freddo delle montagne che strideva col ricordo del frinire delle cicale.
Era quell’ambiente dal legno cupo ma accogliente e quell’ipnotico calore della danza del fuoco che si opponeva alla accecante luce del sole aperta su tutto l’agrumeto e fu proprio il calore del tè con il profumo del limone, che le fece apprezzare il forzato cambio, che unì ancor più la loro passione.
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Rossella Gallori: I limoni e il caffè
Una dignitosa povertà, un giallo assordante, un bianco che fa sole, che fa sale…..Quante volte ho bussato, alla porta di Lino e Carmela , senza scarpe su per le scale, fughe brevi , che sapevano di zucchero e limone, di pane e panelle, di fave secche da sgranocchiare …..Casa Basiricò era così , tutto sapeva di limone, anche il bucato…e la porta sempre aperta per me, che cercavo di scappare dai caffè della mamma , che non eran tazze, ma flebo. Tutto sapeva di caffè in casa Gallori, anche i pantaloni del babbo che la mamma smacchiava con quell’acquetta marroncina, sul tavolo di cucina , con quella copertona di feltro……”la coperta del cavallo”, come diceva la solita carogna della nonna …..”un cavallo???” ma chi lo aveva mai avuto un cavallo…..se ci fosse stato se lo sarebbero mangiato…..per fame, non per cattiveria…..
Quindi a pian terreno odore di caffè, al secondo di limoni …..e più in su la musica….quella della vita…che non sempre era ben sintonizzata….
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Aldo Bombaci – I limoni e la casina bianca
Un campo di limoni ben tenuti, coltivati, ricchi di frutti.
Al margine dell’orto una casa non grande come superficie e altezza, i muri bianchi sia esterni che interni, una cucina, un tavolo con attorno quattro sedie, un cestino vuoto.
Dentro al frigo una brocca di vetro contiene la spremuta di limone, bevanda fresca in usanza del luogo, caldo secco.
Una donna dai capelli grigi è ricurva sul telaio, sta tessendo una stoffa dai colori variegati, il rosa prevale e poi altri a decorare il futuro scialle con filamenti dorati.
Una dignitosa povertà si avverte dentro quella casa pulita.
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Maria Laura Tripodi – I limoni e il telaio
Non fu il rumore a svegliarmi. Piuttosto la sensazione che il silenzio non fosse più così totale. Mi buttai di sotto al letto alla svelta, mi infilai le ciabatte e corsi davanti alla finestra che dava sulla terrazza……………..
Ma il giardino dei limoni sembrava immobile e silenzioso come sempre. Un gatto sonnecchiava al sole del primo mattino con posa impertinente.
Però dabbasso qualcosa era mutato. Dal silenzio assoluto si percepiva appena il battere ritmico sul pedale del telaio. La nonna doveva essersi alzata di buonora e stava tessendo la stoffa per il mio abito da sposa.
A entrare lieve nel mio sonno era stato un sentimento profondo di commozione e tenerezza.
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Stefania Bonanni – Limoni e realtà
Comincio le giornate con un bicchiere di succo di limone, in un po’ d’acqua calda.
Così, la scossa sveglia e caso mai fosse rimasta in circolo qualche notturna dolcezza, magari sognata, sarebbe tutto riportato alla realtà. Perché la realtà è acida. Aspra ed acida.
Il limone: una bella metafora. Si strizza finché ce n’è, si usa anche la buccia, e mai per farne il protagonista di qualcosa, quasi sempre per profumare, per correggere, per dare sapore ad altro.
Cuoce senza fuoco, per magia. Si arrangia, è multitasking, come le donne. Può servire per le pulizie, per fare brillare i capelli, per pulire la pelle, per schiarire le macchie sulle mani, per disinfettare, per sfiammare, per digerire, per vomitare.
Si fanno torte insipide, senza una grattatina di buccia. Fa rimanere bianche le mele sbucciate, verdi i carciofi tagliati. Diventerebbe tutto marroncino, senza limone.
A volte ne basta mezzo, ed allora succede che la mèta che non serve, sia riposta in frigo e dimenticata. E le gocce, le lacrime, piano piano si seccano, dal dolore dell’abbandono.
Resta mezzo limone, a volte non ha più neanche l’alibi della buccia brillante, resta quella pellolina ruvida che diventa sempre più grigia, e rinseccolisce, si ritrae, il frutto diventa secco così solitario. Così duro che non si potrà più strizzare, così risecchito, che si può solo buttare.
Era stato conservato perché poteva ancora essere utile.
Sarebbe finito con l’ultima, violenta stretta, forse un goccio in un the
Invece, si sono scordati. Proprio non l’hanno più visto, quando hanno aperto il frigo.
Era lì, come sempre, in quel suo solito posto, ma nessuno l’ha più guardato.
Ecco, alla fine non è complicato. È questa la dimensione, la lotta giornaliera, il progetto per il futuro. Non diventare quel mezzo limone inutile, secco e ammuffito. E dimenticato, ignorato, per la consapevolezza di tenerlo al posto giusto, lì dove è giusto che stia, lì dove ha un posto.
Lì dove può ancora scegliere: se essere strizzato fino in fondo, o ammuffire per dimenticanza.
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Emilia Caravaggi: I limoni e la 500
Filavo con Licia nella 500 filavano a tutta birra, come solo una 500 può andare. La campagna scorreva via mentre, da lontano, la casa di campagna dalle mura tutte bianche, si avvicinava sempre di più. Finalmente ci fermiamo accaldate e assetate mentre la vecchia signora stava portando fuori una bella limonata profumata. Ce la offre e mentre ce la gustiamo ci guardiamo intorno ammirando il giardino pieno di limoni, dal giallo intenso e ben succosi. In un angolo un telaio con una bellissima coperta colorata in procinto di essere finita. Chissà quante ore avrà passato la signora, china sul quel telaio pensando a chissà cosa. E’ arrivata l’ora di ripartire Licia ed io risaliamo in macchina e dopo qualche bizza parte scoppiettando. Dovrà affrontare una brutta salita e tutte e due abbiamo paura era che non ce la faccia. Infatti si ferma, tossisce un’ultima volta e non riparte. Con calma e allegria scendo, apro il cofano e guardo smarrita il motore. Poi l’idea : prendo una candela la ripulisco e la rimetto a posto. Miracolo! la 500 riparte alla volta di Firenze, a casa. L’avevo visto fare da un meccanico e così avevo provato a farlo. Per questa volta è andata bene!!!
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Simone Bellini – Limoni limoni limoni…….
Limoni, limoni, limoni, il frigorifero pieno di limoni! Come mai?
La salute signori, la salute; le mie donne salutiste sono convinte che, appena alzati dal letto, una bella spremuta di limone con acqua sia miracolosa. Brucia i grassi, fa bene alla pelle, dona energia per tutta la giornata. Chiaramente senza zucchero, bella, aspra da strizzar gli occhi. Vogliamo prendere un tè? Bene a casa mia si può dire che si prende una limonata col tè!
Ma che vuoi mettere una bella granita siciliana!!
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Monica Baldi – Il giardino dei limoni e lo scialle
I limoni mi avevano incantato. Il mio occhio non riusciva assolutamente a staccarsi dal colore che emanava da quei frutti, un giallo luminosissimo che sembrava irraggiare, intorno a sé, tutto il sole e il calore che avevano catturato durante quell’estate chiara e radiosa. Mi trovavo nella serra del giardino, a pochi metri dalla fontana. Era umida e c’era un’atmosfera silenziosa, ovattata. Il colore dei limoni vibrava così intensamente che sembrava quasi che emettessero dei suoni, un che di argentino, in quell’aria opprimente, da serra.
La vidi all’improvviso.
Stava chinata davanti ad un vaso. Riccioli morbidi, ramati e ribelli, scendevano giù, sulla terra della grande pianta cui stava dedicando le sue cure. Non si era accorta della mia presenza. Lavorava alla terra, con dita forti, magre, un po’ nodose, come radici. Continuai ad osservarla, cercando di intuirne il volto, il tono della voce.
Non si accorse di me fino a che non le fui vicinissimo. Ero stato molto silenzioso; immaginai che avesse percepito la mia presenza per un lieve spostamento d’aria, oppure per un qualche odore che il profumo inebriante dei limoni non era riuscito a mitigare. Si voltò di scatto e feci appena in tempo a scorgere i suoi occhi. Si alzò e sparì in un tempo infinitesimale. Non avrei saputo dire né come, né dove fosse andata. Si era mossa con una leggerezza inaspettata, sorprendente. In basso, accanto alla pianta, uno scialle rosa con dei motivi colorati, che richiamava paesi esotici, (America del Sud?), testimoniava che non avevo avuto una visione.
Tesseva, insieme ai fili di cotone, i suoi pensieri. Immagini che si sovrapponevano ai colori del tessuto ed entravano a farne parte, tesseva la sua vita. Romina da piccola, scalza, i capelli stopposi, mentre la guardava facendo ciondolare le sue gambette sporche lungo il tronco dell’albero su cui si era arrampicata. Uno sguardo attento, severo, distaccato.
Romina quindicenne, con la fionda del fratello, che tirava sassate a tutti quelli che si avvicinavano, dal tetto del fienile.
Ennio…Ennio e Romina, le grida, le botte, la fuga da casa…l’odio che aveva provato per suo marito, la disperazione per la perdita di quella figlia che non voleva intrecciarsi nel tessuto della loro atona normalità, filo ribelle, filo ritorto, filo raro, filo d’oro della sua vita…giorni bui, occhi spenti, gli stessi che aveva visto, poi, in seguito, nel volto del marito di Romina, perdutamente innamorato e senza alcuna speranza di poter condividere alcunché con lei.
Filo spezzato.
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Lorenzo Salsi: I limoni e la fantasia
Quella mattina mi svegliò un rumore sordo, un tonfo. Rumore come di qualcosa di pesante che cadeva però sul morbido, su della terra smossa, lavorata. Mi alzai e lì per lì non vidi niente, solo affacciandomi vidi l’albero di limone, stracarico come sempre di frutti.
Mi accorsi però che il tonfo, botto, rumore era stato generato dalla caduta della mia fantasia; sì, lei era lì quasi esangue proprio sotto l’albero di limone, con un fil di fiato che le usciva da un racconto non finito.
“Sogno o son desto?” mi chiese il limone ” Sbaglio o questa è la tua fantasia?” continuò ” ma sei pazzo a lasciarla andare così ….. mica sei Montale?”.
“E ora che c’entra Montale?” chiesi all’albero, un po’ imbarazzato, mai avevo avuto un colloquio con un vegetale, casomai un soliloquio perché non avevo avuto mai risposte .
“Eh dici bene che c’entra Montale….ignorante. Lui con la sua fantasia ha incensato ed eternato la mia esistenza”, disse con aria bon-aria il limone .
“Ma se Montale era un razionale, un pratico mica un sognatore, un fantasioso, si rifaceva alla normale vita quotidiana nella sua opera.
A fatica la fantasia, che si era stufata di questi discorsi, si rialzò appoggiandosi al tronco dell’agrume. Stanca, afflitta, abbandonata , mi guardò con un’espressione fra il grato e l’ingrato e poi disse “…e il gelo del cuore si sfa …”.
Il limone tutto contento mi sibilò “Hai visto anche la tua fantasia si rifà a Montale?”.
Guardai l’albero con sufficienza e feci cenno alla fantasia di rientrare in casa.
Non si vola sempre sulle ali della fantasia, a volte basta un limone… forse un cestino.
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Laura Casati: I limoni e le luci di Amalfi
Sul quel pulmino che da Castellare di Stabia ci avrebbe portato ad Amalfi, attraverso i monti, eravamo in diversi. La strada era in salita, stretta con curve e ricurve a strapiombo sui burroni sottostanti. Sopra a noi i monti Lattari e il monte Faito. Era la fine di novembre e il sole calava presto, ormai stava facendo notte. L’autista era del posto e conosceva come le sue tasche quei luoghi, ma tutti noi eravamo in po’ in ansia per la pericolosità della strada. Scollinato era già buio, fu allora che ripresi fiato e sollevai lo sguardo tutt’intorno, mi apparve un paesaggio fiabesco, piccole case in cima alle colline e chiese arroccate qua e là sui dirupi con campanili che si scagliavano verso il cielo, illuminati da flebili luci artificiali. Un presepe naturale si presentò ai miei occhi. Ora che la strada si stava allargando sperai che l’autista rallentasse o che la strada non finisse per poter godere di quel panorama. Ad Amalfi fu uno splendore di luce le stradine illuminate dai neon dei negozi. In fondo una piazzetta con al centro un camioncino e banchi di agrumi fra i quali i famosi limoni di Sorrento che emanavano un profumo inconfondibile. A fianco la scalinata che conduce alla Chiesa, fu allora che quell’atmosfera mi fece tornare in mente il Sinai con suoi i venditori di tappeti, di tessuti locali e di datteri ed in fondo alla strada il Monastero di Santa Cristina.
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Sandra Conticini: I limoni e la donna colorata
Un’isola assolata in piena estate con un mare cristallino ed invitante. Sparse qua e là qualche palma con sotto alcune sdraie per dare refrigerio ai turisti in questo paradiso incontaminato. Sulla spiaggia c’è anche una donna di colore, con indosso un bel vestito di stoffa fatta a telaio, dai colori accesi: rosa fucsia con una riga sottile azzurra ed un filo argentato, vende limoni profumati che tiene in un bel cestino di colore verde e marrone, dalla forma armoniosa e particolare…che direi di altri tempi.
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Patrizia Casati: I limoni e il treno
Il treno va, dai finestrini il paesaggio sfugge: alberi, case ….e via …..si allontanano.
Vedi un’immagine e subito un’altra, non riesci a fermarle.
All’interno del treno una bambina guarda con sempre maggiore curiosità il paesaggio.
E’ colpita dalla velocità e i colori l’attraggono più di ogni cosa.
Ma …alzando gli occhi vede che nel vano portabagagli, in alto, sopra la sua testa, si nasconde un cestino dentro una coperta a quadri.
Prende la tovaglia coloratissima e il cestino (sente che è pesante e manda un profumo di …limoni, sì sono limoni!) e immagina di ritrovarsi in un bel prato. Che delizia! Lei va matta per il limone, se lo mangia sempre con lo zucchero.
Il cestino la riporta alla fiaba di Cappuccetto Rosso che va dalla nonna e ….pensa che anche lei potrebbe portare alla sua nonna qualcosa.
Immagina di apparecchiare sul prato e si mette ad aspettare….
Aspetta che sua nonna arrivi.
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Elisabetta Brunelleschi: I limoni e U’ Petraru
(racconto tra fantasia e realtà)
Non era vera vacanza se ad ogni agosto non scendevano una o due volte al Petraru.
Si incamminavano al mattino o nel primo pomeriggio per il sentiero dei Pantani, un antico tracciato abbandonato con l’avvento dei motori che Sarina e Salvo ripercorrevano divertendosi a scoprire tracce di volpi o nidi di uccelli.
Nel tratto iniziale il sentiero scendeva ripido tra spini, peri selvatici e balzi profumati di origano. Venivano poi terrazzamenti irregolari irti di paglia stecchita. E via via che la montagna si allontanava, comparivano enormi pale di fichi d’India con i frutti già gonfi, sino alla valle dove vi erano oliveti, alberi da frutto e campi destinati al frumento. Da qui il sentiero continuava verso il mare.
Quell’anno, Sarina e Salvo uscirono subito dopo pranzo, con passo veloce percorsero lo stradone fino alla curva dei gelsi e da lì, a sinistra, entrarono nel sentiero che lassù attraversava una campagna selvaggia e incolta. Nell’andare chiacchieravano, scrutavano l’orizzonte e si tenevano per mano.
Camminarono senza fermarsi, un’ora di strada li separava dal Petraru. Sarina si limitò a raccogliere pochi rametti di origano, una manciata di semi di finocchio e già alle due del pomeriggio avevano raggiunto la valle ampia e riccamente coltivata.
Attraversarono l’oliveto e sotto la loggia del Petraru scorsero da lontano Peppino, Maria e la zia Venera. Li stavano aspettando.
Si sedettero in circolo e con gioia si raccontarono le giornate trascorse tra il mare e la campagna. Al Petraru c’era un grande stalla e Sarina ogni volta amava fermarsi ad osservare le bestie. Quell’anno la vacca aveva un vitellino. Sarina corse a vederlo: la mucca lo stava allattando. Fuori le galline razzolavano la terra alla ricerca di appetitosi vermi e da una parte l’asino se stava tranquillo legato ad un palo.
Dalle stanze dell’umile casetta comparvero come una sorpresa le tre figlie di Peppino e Maria: Giovanna, Esterina e Severina. Sarina fu felicissima e subito tutte e quattro si raggrupparono in chiacchierare e confidenze. Stavano al Petraru da due giorni, dovevano raccogliere le mandorle e il ricavato della vendita sarebbe stato tutto per loro.
Le tre sorelle, nate fitte fitte una dopo l’altra, avevano ormai l’età in cui si comincia a pensare all’amore e alla preparazione del corredo nuziale che laggiù era fatto di lenzuola di lino ricamate, di coperte con tralci di rose a punto in croce e di elaborate trine che Maria col suo uncinetto instancabilmente preparava.
La vecchia zia Venera grossa e ridente sedeva immobile su una bassa sedia e non sapeva esprimersi che in dialetto. Maria raccontava di quando le aveva acquistato le prime mutande e non si sa quanto lei ne fosse rimasta contenta perché nella sua lontana giovinezza le donne non avevano indumenti intimi, stavano senza, oppure avevano larghi mutandoni completamente aperti. Venera si era abituata così e quelle mutandine di cotone tutte chiuse e ristrette quasi quasi le davano fastidio!
Peppino accompagnò Salvo nella proprietà e via via gli mostrava i frutti, la vasca con l’acqua, i campi ormai mietuti, lamentando le fatiche, rallegrandosi per le abbondanze. Giunsero all’arancio vaniglia e Peppino ne staccò due frutti.
Erano arance bianche dolcissime, dal gusto stucchevole, quasi impossibile per un agrume.
Bevvero acqua fresca e fine versata da eleganti brocche di terracotta, sotto la loggia del Petraru seduti tutti insieme.
Poi Maria prese i limoni e iniziò a sbucciarli. Dissero che sulla buccia c’era stato dato qualcosa, che forse poteva far male e quindi era meglio sbucciarli. Con un coltellino Maria tolse con delicatezza un finissimo strato, quello giallo.
I frutti che venivano offerti erano i verdelli, i limoni che si raccolgono in estate, ed erano grossi, belli, non come quelli che arrivano nelle città del continente, piccoli, striminziti, loro quelli lì non li raccoglievano, lasciavano che cadessero a terra. Nemmeno per i porci erano buoni.
Peppino vantava i limoni raccolti nel loro giardino che non era lì al Petraru, ma in paese, a Scifì, vicino alla loro casa.
Intanto Maria tagliava i limoni già privi della buccia e ne distribuiva le spesse fette dicendo che si potevano gustare così com’erano, non avevano bisogno di zucchero.
Sarina li assaggiò e non le parvero così tanto dolci, ma per rispetto dei presenti tacque e mangiò come loro ed insieme a loro.
Poi alla fine arrivò l’ora del ritorno, tutti insieme andarono a piedi a Scifì e da lì Sarina e Salvo dopo i saluti, gli abbracci, gli appuntamenti tra una settimana, un mese, un anno, risalirono verso la montagna con la corriera.