Nebbia

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Nebbia – di Carla Faggi

Dalla finestra di casa mia: …. la nebbia….tanta….gli alberi si intravedono appena…il verde del bosco è diventato biancastro, in alcuni punti più denso, in altri meno, come albumi non finiti di montare.

Nel cielo però c’è un piccolo cerchio più bianco, più luminoso, come un faro nella nebbia, non posso tenerci lo sguardo tanto è intenso.

Dai forza, penso, metticela tutta, sfonda questo velo, illuminami, porta il tuo bianco splendente ad abbracciarmi!

Come mi avesse sentito quel piccolo cerchio bianco si è ingigantito, schiarito, è diventato abbagliante. Il cielo si è offerto allo sguardo sopra il verde del bosco. Eccomi, gli ho detto, e sono andata a passeggiare.

Lenzuolo bianco

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Lenzuolo steso – di Simone Bellini

Steso al sole, mosso dal vento, ondeggiava un lenzuolo, spandendo un  fresco profumo di pulito, rendendo ancora più suggestiva la visione aulica della campagna primaverile.

Quand’ecco un fragore di ciottoli, sassi smossi dalle ruote di un calesse trainato da un cavallo impazzito, accompagnato da un  abbaiar di cani all’inseguimento insieme al padrone che gridava :

– Fermati bestiaccia maledetta, ronzino della malora ! –

Puntava diritto all’immacolato lenzuolo, che nell’impatto ricoprì il muso del cavallo, che accecato finì la sua corsa furibonda .

Amore bianco stanco

cuore bianco

Un amore bianco e stanco – di Rossella Gallori

Un amore bianco, ecco sì… un amore stanco, un amore…bianco e stanco.

Lo ricordo bene, la luce passava morbida attraverso il tulle della zanzariera….le lenzuola,troppo bianche avevano bisogno di noi, per essere vive….colorate di pelle

Il mio bicchiere di latte , la tua vodka ghiacciata …

Poi tutto si sciolse, andò  a male….un amore di gennaio,  bianco e stanco….un po’  inutile , consumato  a luce accesa, impietoso.

Ricordo te e quella stupida lampadina guardona.

Quando si fulminò restammo al buio, non ci riconoscemmo. Fuori, dietro le tende di mussola, la nebbia si annunciava , borbottando qualcosa che non  ricordo, parlava di neve, di sale, di cotone…….di schiuma…di due anime perse, anime color perla….perle coltivate….nell’A rno ghiacciato dal gelo.

La neve, la prima volta

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La prima volta che ho visto la neve – di Stefania Bonanni

È un ricordo tenero e nitido, quello della prima volta che ho visto la neve.

Penso di aver avuto cinque o sei anni, e la mia sorellina pure, visto che ha quasi la mia età anche adesso. Avevamo una seicento bianca, e mi sembrano così curiose, quelle portiere che si aprivano al contrario,  al contrario rispetto alle macchine di ora. Forse questo me lo invento, ma erano portiere educate, che permettevano a donne con le gonne di scendere dalla macchina senza che si vedessero le gambe, nel caso qualcuno guardasse dalla strada.

Comunque, era inverno, ed era molto freddo. Io avevo un cappottino che scopriva le ginocchia, di un colore tristissimo, melange, tra il grigio ed il marrone, e quello sarebbe stato il suo ultimo inverno, perché non avrebbe sopportato di essere rigirato ancora…..sotto il cappotto avevo la gonna a pieghe, poi i calzettoni a quadri rossi e blu, ed un paio di stivalini bassi, alla caviglia.

La Sonia era vestita uguale, con quello che io mettevo l’inverno prima.

Disse il babbo, con un sorriso quello sì bianchissimo…: “Bambine, forza, vi porto alla Consuma. Sulla neve, andiamo, avete anche i vestiti adatti!” E si parti’ per quello che allora era un viaggio vero e proprio. Non posso fare a meno di fare questo raffronto, l’ho fatto sempre, ogni volta che siamo andati nella vita a fare merenda alla Consuma, o a fare una giratina, o al fresco…penso a quella volta, a quella prima volta che ho visto la neve.

C’era ghiaccio sulla strada, si andava piano, nel centro della carreggiata. Dopo Rosano non si incontravano altre auto, e io ero sempre più concentrata sull’eccezionale avventura che stava per capitarmi, tranquilla perché se ci portava il babbo, non c’erano pericoli.

E il paesaggio cominciava ad essere tutto bianco. Giganteschi alberi d’argento con rami pesanti che si chinavano a salutare, microscopiche casine con camini fumanti ,un fumo denso grigio, quasi bianco, casine nel bosco, come la nonna di Cappuccetto Rosso, o come quella di marzapane. E poi tane enormi, nel tronco degli alberi più grossi, dove erano al sicuro cerbiatti, leprotti, scoiattoli, lupi…….lupi? Questo aspetto mi turbava un po’, non sapevo…..

Il viaggio continuava…a Diacceto il babbo accostò per mettere le catene. Mi sembro’ un’operazione davvero complicata, con questa ferraglia intricata che andava distesa per poi passarci sopra con le ruote della macchina ed essere poi agganciata, a ricoprire tutta la ruota, per darle dei denti che non aveva di natura, per mordere, anziché scivolare.

Poi, poco dopo, di nuovo fermi perché dovevo vomitare. Ed andò bene, con la portiera al contrario ci volle un attimo di troppo a farmi scendere, rischiai di vomitare in macchina.

Invece lo feci sul ciglio della strada, e in quel punto tornò a comparire erba e terra. Fu un miracolo.

E non fu l’unico, perché capitò di nuovo, dopo un’altra serie di curve. Ora capite, ci voleva davvero un evento straordinario, altrimenti non valeva la pena sottoporre tutta la famiglia ad un simile rompimento di scatole…

Comunque, si arrivò alla Consuma. E c’era tantissima neve, tutto bianco immacolato. Tutto freddo, ghiaccio, ma ancora non si era toccato questo prodigio. Ci si fermò in un punto in piano, e finalmente si scese. Le nostre scarpe scivolavano, tutti si scivolava, e si rideva e si muovevano le braccia buffe, come in un balletto. Poi si toccò la neve, finalmente, e i guantini di lana si inzupparono e subito ghiacciarono intirizziti. Le gote e le cosce rosse, la gocciola al naso che diventava un ghiacciolo, le pallate, le risate argentine. Fu bellissimo, bellissimo e felice. Fu difficile andarsene, ma come si dice sempre: tutte le cose belle finiscono.

Tornammo a casa più in fretta, anche perché eravamo bagnate.

Solo che io ero più bagnata…quando mi aiutarono a spogliarmi, in mezzo alla cucina, davanti alla cucina economica accesa, si accorsero che ero molto bagnata all’altezza delle tasche del cappottino. E dicevano: “cosa hai fatto? Come mai?” Non capivo: ma come? Solo io avevo preso un po’ di neve? Pochino, solo pochina, per me, per casa, per ricordo……

 

Violenza

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RUMORE – di Roberta Morandi
Rumore assordante delle macchine operatrici dietro casa: scavano e sbattono la terra, la violentano, come violentano le mie orecchie.
È talmente forte che  lo sento ballare nella pancia. Un rumore è un rumore.  Già, chissà   come mai i rumori forti e ritmici passano dalle orecchie alla pancia: ricordo da ragazza quando andavo in discoteca, fine anni ’60 inizi ’70, la musica non era cosi potentemente forte, come quella di oggi, che prima di percepirla nelle orecchie te la senti rimbalzare nella pancia, tanto che sei costretta a deglutire più volte per cacciare via quella sensazione “rumorosa”.

 

Schiuma

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Schiuma – di Mirella Calvelli

La parola magica che è saltata agli occhi e al cuore è …Schiuma.

Era imprigionata insieme a tante  altre parole in un barattolino di vetro, che passava di mano in mano, senza destare attenzione alcuna. Tutte parole che esprimevano qualcosa che richiamava  il bianco, tema di questa nuova “sessione”.

Ma come si fa a bloccare questa parola vibrante, energica e trainante?

Già rinchiusa perde il suo fascino, l’acqua si rilasserebbe e voilà…anche il suo aspetto subirebbe una trasformazione tale da cambiarne l’ottica, il colore e persino l’ identità…

E allora liberiamola nell’immaginario, facciamola volare fino al mare e ammiriamola nel suo habitat naturale e nel suo  movimento regolare, nelle onde che corrono verso la riva e poi arretrano lasciando una scia bianca informe.

Quante volte lo stesso movimento ha ipnotizzato il mio sguardo.

Divertente vedere la traccia che si imprime sulla sabbia, mai uguale, uno smeriglio che poi  viene subito ricancellato ogni volta dall’onda successiva.

La stessa consistenza del latte, che una volta agitato nella tazza, produce schiuma …di latte.

Dalla schiuma, anzi spuma, del mare secondo la mitologia, nasceva Venere o Afrodite , Dea dell’amore e della bellezza.

Dalla bocca del piccolo sazio fuorisce schiuma…di latte.

Schiuma come nascita, schiuma come proseguimento della vita.

Il cartamodello

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Ma…..Il cartamodello non era bianco? – di Tina Conti
Ricordo che andavo in Via Nazionale portandomi dietro  una rivista  di moda che avevo ben studiato e quando uscivo portavo questa nuvola bianca: il cartamodello incartato nella velina. Per strada  facevo attenzione.   Lo portavo come fosse un oggetto prezioso e fragile cercando di non scontrarmi con nessuno altrimenti  non avrei saputo bene come presentarlo alla mamma e giustificarne il costo.
La bottega della modellista di abiti era piena di veli bianchi:  i modelli in carta velina o tela trasparente appesi su grucce e ganci, servivano per abiti, giacche, cappotti  e cambiavano  ogni stagione.
Se trovavo qualcosa che mi piaceva di più  nelle riviste sul tavolo  del negozio, cambiavo idea, altrimenti mi facevo preparare il modello scelto  sulla rivista  che veniva adattato  alla mia taglia.
Una volta scelto  il modello si doveva essere sicuri perché l’investimento era importante: allora si facevano pochi capi e dovevano durare .
Fino ai 16,17 anni la stoffa era spesso di recupero, a volte si rivoltava un capo e si usava per nuovi abiti (nuovi per modo di dire perché c’era sempre il problema  degli occhielli che non tornavano). Poi è venuto il giorno dei vestiti di stoffa nuova.
Un giorno sono andata con la mamma nell’ingrosso di stoffe di sua fiducia. Lei conosceva un commesso occhialuto e rotondetto e io avevo le idee chiare per un  vestito smanicato bianco e un cappottino viola-lilla.
La mamma  nel negozio soppesava e accarezzava la stoffa con gesti esperti da sarta scaltra  poi, veniva il momento della scelta. Lana buona, di qualità…. poteva andare.
Il cartamodello fatto su misura questa volta era di telina, dato che l’occasione era importante
Quante cose ho dovuto fare in casa per sollevare la mamma dai suoi compiti e lasciarle il tempo per lavorare al mio completo.
La mamma era brava e il lavoro di sarta le piaceva molto, in poco tempo tutto era pronto. Io nel frattempo sono andata dalla mamma della Lory che faceva la modista e mi sono fatta insegnare a cucire un cappellino nero di velluto modello fantino. Non so quante uscite ho fatto orgogliosa di quei vestiti nuovi e tanto desiderati.
A fine stagione portai tutto in lavanderia perché in casa cose così preziose non si potevano  lavare, ma
quale è stata la mia delusione, quando ho ritirato gli abiti! Tutto  era scolorito  e accorciato, le fodere uscivano dal fondo: un vero disastro! avevano fatto un lavaggio ad acqua  e si era rovinato tutto.
Vane furono tutte le proteste della mamma! Alora non si parlava di assicurazione  e non mi rimase che il ricordo delle uscite  e la speranza  di una nuova occasione  per convincere la mamma a fare per me nuovi abiti.

Bianco abbagliante

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La notte bianca – di Aldo Bombaci

Eccomi qua, sorprendentemente sveglio nel mezzo della notte a scrivere!

La cosa più naturale che potessi pensare nell’attribuire una qualche associazione a riflessioni o cose sul colore bianco  è la neve, i campi imbiancati dalle brinate stimolanti al romanticismo, il cielo coperto da nuvole bianche, o quando diventa plumbeo come se il bianco fosse stato macchiato da gocce d’inchiostro nero, oppure il mezzo busto di marmo di Fata Morgana del Giambologna al Bargello. Questi ed altre decine di suggerimenti potrebbero via via presentarsi ai miei occhi, o scaturire dalla mente, ma non  avrei mai immaginato che a darmi uno spunto collegato a quella parola così chiara, così accesa, abbagliante, come sa essere il bianco, da tenermi con gli occhi spalancati come quelli del gufo di notte, fosse il trascorrere la nottata bianca.

Nuvole

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BIANCO di Nadia Peruzzi

Bianco il colore delle nuvole spumose che si rincorrono nel cielo di una giornata invernale, per altro nitida e luminosa come non mai. Scie lattiginose, che in qualche zona si fanno più compatte.

Dal pullman dove stai, le vedi far cornice a montagne e colline. Riesci a vederle così perché la Pianura Padana non ha intralci visivi, se non in lontananza. Le nuvole in qualche caso sembrano giocare. Si dilettano a costruire e intrecciare forme sempre cangianti.

In qualche caso, fanno da sfondo ad alberi ormai spogli. Rami nodosi, talora stizzosi, più spesso armoniosi ombrelli aperti sulla pianura.

Rami che diventano ricami quando incontrano  e lasciano trasparire il bianco. L’inverno è in grado di tradurre una nudità in spettacolo.

Il rosso non cede nemmeno un po’. Si prende il suo tempo per far capolino. Arriva la sera. Forte quasi abbagliante sulla linea dell’orizzonte. Il tramonto sa esser fuoco talora. Vedi rimbalzare tizzoni di rosso e lingue di violetto.

Dura poco purtroppo.

E’ subito sera! E’ subito buio!

Bianco

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BIANCO – di Simone Bellini

Come il vuoto indecifrabile che ho in testa
Come i vapori della memoria
Come le mani gelide
Senza speranza
Che cercano un accenno di volontà
ibernata in un corpo di ghiaccio

Solo un battito
ROSSO
Del cuore
Ostinato
Si ribella

 

 

La bianca storia di Ivana in regalo alle Matite

di Ivana Acciaioli

 

Un bianco coniglio, scappato da una favola antica, si scelse, strada facendo, un gatto bianco per amico. Uno adorava le margherite, l’altro le rose bianche; di notte rubavano i loro fiori preferiti nei giardini, lasciando le proprie impronte sulla ghiaia bianca, che contornava le aiuole.
Eccoli, una notte, nei pressi di una villa immersa in un giardino di alberi ricamati dal gelo. Curiosi e ammalati di domesticheria non poterono fare a meno di guardare dalla finestra e di stupirsi scorgendo un bianco orsacchiotto sfogliare bianche pagine di un libro tutto da scrivere. Il regalo perfetto da rubare per le loro amiche signore matite!

Alla ricerca del Simurgh – Un libro, uno spettacolo teatrale

 

di Cecilia Trinci

La conferenza degli uccelli è un poema persiano del dodicesimo secolo,  in 4500 versi, scritto da Farīd ad-Dīn ‘Attār – di cui quasi nulla si sa, tranne che intraprese un lungo viaggio dalla Persia fino in India. La storia narra di come un giorno tutti gli uccelli della terra siano stati chiamati a raccolta dalla saggia Upupa che, per fuggire il dolore del mondo, vuole convincerli  ad intraprendere la ricerca di un re, il Simurg, che si dice abbia tutte le risposte. Gli uccelli non sono pronti a questa avventura difficoltosa e manifestano infinite giustificazioni per rimandarla, finché, alla fine, trovano il coraggio di partire. È l’inizio di un viaggio  verso la dimora di Simurg, protetta da sette misteriose valli. In ognuna, gli uccelli dovranno affrontare insidie mortali: ma chi riuscirà a superarle otterrà la verità. Alla fine del viaggio infatti, i trenta uccelli superstiti,  si troveranno davanti l’oggetto della loro ricerca, che altro non è che  la propria immagine riflessa in uno specchio, a testimonianza di come  tutta  la necessaria forza  per vivere stia nascosta dentro ognuno di noi.

 

E’ stato il testo, che da tempo si muoveva tra i progetti teatrali di Riccardo Massai, che alla fine si è materializzato, rivestito  in una  forma  che ha potuto dare vita al laboratorio per extracomunitari del mondo e allo spettacolo replicato più volte “Alla ricerca del Simurgh”, prodotto da Fondazione Teatro Metastasio Prato-Archetipo- Giallo Mare  Minimal Teatro – Regione Toscana.

Un lavoro  “immenso” come hanno definito gli stessi protagonisti, che ha presentato problematiche inattese e variegate  anche per chi, come Riccardo Massai e Miriam Bardini hanno lunga esperienza non solo in campo artistico, ma anche di teatro sociale.

Il progetto era infatti rivolto a giovani extracomunitari che volessero, anche per la prima volta, mettersi alla prova in uno spettacolo teatrale e molti hanno risposto alla sfida, creando un gruppo molto composito per lingua, civiltà, paese di provenienza, esperienze di vita e aspettative.  Le difficoltà maggiori sono state, come raccontano i protagonisti, proprio nella fase di progettazione, di studio delle persone, di coordinamento e conoscenza di storie personali variegate e complesse.

In una intervista concessa il 21  dicembre scorso, il regista Riccardo Massai, l’attrice e collaboratrice Miriam Bardini e uno dei ragazzi che hanno partecipato al progetto, Nimantha  (per gli amici Nima) di origini dello Sri Lanka, hanno ripercorso i punti salienti della loro avventura umana e teatrale.

“Se dovessi riassumere tutto in una parola, dice Nima, direi emozione. Quello che mi è piaciuto di più è il testo. Questo è  un testo persiano, antico, con uccelli fantastici colorati, che volano, che viaggiano. Mi sono piaciuti i ragazzi che venivano da paesi diversi, come se ognuno fosse davvero l’uccello che veniva da quel posto lontano. Mi è piaciuto che non volevano partire e che invece poi hanno trovato il coraggio di andare verso qualcosa che non conoscevano. Mi è piaciuto il pubblico, mi piaceva dare quel messaggio di coraggio a tutti. E  poi a vedermi c’erano tutti quelli che conoscevo, ero contento e imbarazzato perché mi chiedevo cosa potevano pensare di me vestito da uccello, con quel  becco grande. Ci tenevo molto al parere di una mia amica e mi domandavo: Sarò piaciuto a lei?”

Lo spettacolo ha lasciato nuove relazioni. Amicizie che non sarebbero nate altrimenti. Tra i ragazzi tra loro ma anche tra loro e gli adulti. Riccardo e Miriam parlano dell’affetto forte che li ha accesi in questi due mesi di lavoro. Due mesi soltanto per un lavoro così grande.

Miriam Bardini ci racconta che è stato un lavoro complesso, totalizzante, un lavoro in cui si è costantemente messa in gioco e in discussione confermando il concetto che mai niente è scontato, soprattutto quando si ha a che fare con adolescenti e per di più con problematiche molto varie, ma che quello che più a fondo rimane è la relazione, la meraviglia per l’essere  umano. “Se  dovessi riassumere tutto  in una parola, dice lei, sarebbe  stupore”.

“Ho capito che la loro forza, anche dal punto di vista scenico, stava nella loro persona. Quello che un attore deve conquistarsi con il lavoro e lo studio, loro lo possedevano come essenza, come natura. Questo mi ha fatto stare in ascolto costante e questa apertura  è quello che è rimasto, al di là e oltre il successo momentaneo dello spettacolo e della risposta del pubblico. Il pubblico percepisce sempre il valore della materia umana che sale su un palcoscenico e ne ha sempre rispetto”.

“Questo poi, aggiunge,  è stato un vero spettacolo di poesia, i ragazzi erano davvero attori ed è questo che il pubblico ha percepito, senza alcuna sfumatura patetica”.

Riccardo Massai infatti ha curato lo spettacolo come tutte le sue creazioni, con lo scopo di ottenerne un lavoro importante, emozionante, senza sconti per nessuno degli attori coinvolti.

“Devo ammettere, dice Riccardo,  che quando lavoro ad una messa in scena pretendo sempre il massimo dagli attori e non distinguo la loro formazione e neppure gli scopi che possono condizionarli. Anche nel lavoro fatto anni fa con i non vedenti, o i ragazzi del carcere minorile  è stato così.  In questo caso ammetto che spesso è stata  una fatica molto più dura per la varietà umana che raccoglievano, ma insieme abbiamo raggiunto l’obiettivo che mi ero posto, anche artisticamente. Se dovessi riassumere tutto in una parola direi disgregazione,  perché ha distrutto le mie certezze, le mie abitudini, le mie aspettative iniziali, ma ha ricreato qualcosa di nuovo e potente”.

Il pubblico ha risposto infatti con grande entusiasmo in tutte e tre le repliche: al Teatro Comunale di Antella e a Castelfiorentino oltre che al Fabbricone di Prato. Colori, energie, vitalità, entusiasmo in uno spettacolo intenso dal messaggio profondo, guidato con potente magia.

 

Una spettatrice ci ha donato il suo personale commento concedendoci di pubblicarlo:

 

Sperano nell’amore

Coni di cartone il loro naso coprono:

sono uccelli e volano

ma frenetici nei pantaloni alla zuava

volteggiano

danzano

colori, lustrini, musica, canto, felicità.

Qualcuno il becco perde,

ma vanno avanti

volteggi, girotondi, capriole.

Tutti a convegno

sfilano sul fondo i loro nomi:

passerotto, airone, merlo, fagiano, pappagallo, rondine, upupa….

Tanti, diversi, tutti.

Discutono, bisticciano, poi partono.

Il loro dio, Simurgh cercano.

Lungo viaggio per ritrovare se stessi.

Ma il dio è dentro di noi.

Si schiudono le porte del cielo.

Storie strane, terre lontane,

lingue bislacche

la bellezza non è né prima né dopo

la bellezza è dentro di noi.

Gli uccelli sono persone e

sperano nell’amore

sorridono e si prendono per mano.

 

M.Grazia Lotti

 

Racconti per la pace – India

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Un racconto di Lorenza Negri, per il Progetto Letterario “Firenze per le Culture di Pace” e premiato in Palazzo Vecchio a Firenze il 13  dicembre 2017:  

Anja

(una storia di fantasia ispirata alla dura realtà di fatti realmente accaduti)

Mi chiamo Anja, sono nata in India, e sono di etnia Bhil, una sottocasta, ancora più bassa degli “intoccabili”. Nel mio paese l’Andhra Pradesh, “gli intoccabili”,  è la casta cui appartengono le persone addette a seppellire i morti o a eseguire i peggiori servizi che nessun altro fa o vuole fare.

Ho dieci anni, tre fratelli e una sorella. Le mie trecce sono più scure del carbone, alla mia narice destra è appeso un anellino dorato; una collanina di palline d’argento illumina la mia pelle bruna, le ciglia vellutate ombreggiano il nero dei miei occhi. Indosso un sari stracciato, ma colorato come ali di farfalla. Io adoro le farfalle, anche se non ne ho mai vista una dal vero. E mi comporto come una farfalla. Ogni giorno, prima che sorga il sole, mi accovaccio sulle piantine del cotone e con le punte delle mie minuscole dita apro i fiori maschili, rimuovo gli stami e prelevo i pistilli con il polline per sfregarlo delicatamente sui fiori femminili. Ogni pianta ha molti fiori maschili, essi si aprono quando è ancora buio; se non sono abbastanza svelta essi si chiudono, e poi per me sono guai. Dopo la pausa per il chai, uno squisito té con latte, riprendo il lavoro per almeno dodici ore, comprese quelle che trascorro in mezzo ai macchinari che dividono il seme di cotone dalla fibra. Interrompo il lavoro solo per una tazza di orzo e polvere di curry per dargli un po’ di sapore, o un mezzo pane di frumento con pesce secco, da bere c’è l’acqua dei rigagnoli, usata per irrigare i campi. Sempre così per cinque mesi; fra scrosci improvvisi di pioggia e sole ardente. Ho i piedi immersi nel fango, tra insetti utili solo a pungermi e il terrore dei morsi dei serpenti. L’aria è fumosa per i veleni degli antiparassitari, che mi tolgono il respiro oltre a sterminare farfalle e api. Il cotone che è coltivato qui è diverso, proviene da molto lontano, mi hanno detto che si chiama Monsanto: è più resistente alle malattie e rende di più, ma non riesce a riprodursi se non a mano, soprattutto da quando sono sparite farfalle e api. Perciò il lavoro che in Natura dovrebbero fare loro, lo eseguo io, e altre bambine come me.

Noi siamo preferite perché abbiamo dita sottili, agili, e siamo pazienti. Non come gli adulti o i maschietti che si distraggono, si perdono in chiacchiere, fumano o protestano. Vabbè, almeno fino a che non diventiamo donne.  Poi tutto cambia. Dopo non ci vogliono più perché dicono che diventiamo ribelli e il nostro ciclo mensile rovina il raccolto. Così mi ha detto Jasmine, la mia amica del cuore. Lei è uguale a me, però ha tre anellini alla narice perché è più grande di me di tre anni, e sa tutto.

A volte mi dispero e finisco tutte le lacrime che ho dentro gli occhi, che diventano acquosi e gonfi. Devo resistere perché la mamma mi  ha supplicato piangendo, sono sicura che se non fosse stato necessario non me lo avrebbe mai chiesto; così i miei fratellini possono mangiare, almeno finché io lavoro qui. Oggi sono davvero sfinita di stanchezza e sono tanto triste e preoccupata per Jasmine.

 

Tutto è cominciato nel mese di luglio.

Harim, un tipo con una barbetta stentata, gli occhi in fuori come i canini che appoggiavano sul labbro inferiore, con indosso i soliti pantaloni-gonna a scacchi marrone e camicia militare stropicciata, ritornò a gironzolare per il villaggio. Lo faceva ogni anno in quel periodo. L’avevo visto altre volte, e sempre dei brividi mi percorrevano la schiena. Come al solito cercò di parlare con la mamma ma lei lo evitò fuggendo via. Quel giorno il mio fratellino più piccolo adagiato nella cesta di stracci colorati non smetteva di piangere. Aveva fame. Erano giorni che la mamma non trovava nulla da mangiare, né erbe commestibili, né frutti dell’albero del pane: era stremata e debole. Harim la trascinò in casa. Io attendevo sotto il patio rovente che neppure la notte aveva rinfrescato. Quando lui se ne andò, la mamma mi strinse forte tra le braccia piangendo. I nostri anellini al naso tintinnarono. Mi accarezzò i capelli, prese le mie mani e le tenne strette tra le sue.

– Anja, lo sai chi è Harim? È tornato e ha chiesto ancora di te.

-Sì, lo so chi è. È quello che cerca le bambine. Le accarezza, e osserva le loro mani. Tante volte ho sentito che discutevi con lui. E poi lui se ne andava infuriato.

-Sì, piccola mia, finché ho potuto l’ho scacciato, ma ora non ce la faccio proprio più. Non ho più latte per il piccolo né cibo per te e i tuoi fratelli. Devi partire con lui e diventare una farfalla. Lo so, lo so che cosa succede là. Lo so che Jesya è tornata con il piede ferito e le mani storte e ora deve mendicare per avere un po’ di cibo. Ma tu sei forte e ce la farai, ne sono certa. Anja devi promettermi che se Harim o qualcun altro è troppo gentile con te e tu non vuoi, cercherai di volare via come una vera farfalla. In alto, più lontano che puoi, tesoro mio, come le farfalle del tuo libro.

I mie occhi si illuminano al pensiero. Oh, mamma adorata che sai sempre tutto. Ah, sì, il mio amato libro, non potrei mai separarmi da lui.

Nel mio villaggio costruito con fanghiglia, sterco di vacca sbriciolato e impastato da sole e monsoni, non esistono libri, e non nascono fiori. I fiori sono rarissimi e sono riservati a collane e corone da offrire agli dèi nei templi, o da appoggiare sui drappi che avvolgono le salme da cremare sulle pire di legna.

Le farfalle le  ho viste sui fogli appesi alle pareti della scuola, come: -V: di Vanessa Atalanta, una farfalla colorata di arancione, punteggiata di marrone e bianco, bellissima- Purtroppo a scuola ci sono andata solo qualche volta, era molto lontana e occorreva tanto tempo per arrivarci. Mi piaceva indossare la camicina beige, anche se aveva le maniche strappate e la gonnellina a pieghe aveva perso le pieghe, ma l’uovo e la ciotola di riso che mi davano erano veramente gustosi. Le maestre erano sempre diverse perché venivano da lontano e dopo un po’ non venivano più e passavano la bacchetta a qualcuno del villaggio che la usava solo per picchiarci; soprattutto i maschi.

Noi bambine eravamo poche e stavamo buone. Ho fatto appena in tempo a imparare le sillabe e poi quando è nato il mio fratellino, ho dovuto smettere: in casa c’era bisogno di me, io ero la più grande. Ho sperato a lungo di poter continuare la scuola, pregavo spesso Surya il dio sole e gli altri déi della Natura, -gli stessi che implorava l

a mamma ogni sera accendendo l’incenso-, perché esaudissero il mio desiderio. Non hanno potuto fare molto perché potessi ritornare, ma  hanno fatto in modo che avessi il libro.

Me lo ricordo molto bene il giorno che l’ho avuto tra le mani la prima volta. Il sole crepava le zolle e il puzzo di animali morti dal caldo ammorbava l’aria del villaggio più del solito. Da una nuvola di polvere sbucò una jeep con una scritta sui lati. Jasmine mi disse che c’era scritto “Terres des Hommes” e che erano delle persone che cercano di aiutare i bambini poveri. Tutti i bimbi del villaggio la circondarono schiamazzanti; si sa che quando ci sono i turisti, una manciata di caramelle e qualche delizia ci scappano sempre. Tutti furono accontentati e si allontanarono. Fu in quel momento che una signora bellissima, vestita come le ali di una farfalla Vanessa Atalanta, scese e venne verso di me.  Io ero seduta sotto un banyan, l’unico albero frondoso nel giro di chilometri; ai suoi rami era appesa l’amaca dove dondolava il mio fratellino. Aruthia la mia mamma era a cercare qualcosa da mangiare. Papà non era più tornato dopo l’ultima nascita; lui lavorava come stagionale e i suoi ritorni erano abitualmente cadenzati dalla nascita di un bimbo subito dopo. Gli volevo bene ma forse era meglio se per un po’ non tornava.

La signora mi guardò e mi sorrise, poi si avvicinò e, mentre mi chiedeva il nome, osservava l’interno della casa di fango con tetto in eternit. Anch’io le sorrisi, era bellissima e profumava di buono. Mi fece una carezza e mise tra le mie mani sudicie, che tentavo di nascondere, due libri. Aprii quello più colorato: era pieno di farfalle; l’altro aveva le pagine bianche con attaccata una penna, e sulla copertina c’era la figura di una bimba con un cappuccio rosso. Si guardò ancora intorno come a cercare qualcosa d’invisibile, poi se ne andò con gli occhi che brillavano come stelle e il sorriso tirato giù da brutte pieghe ai lati della bocca. Ma era tanto bella anche così.

Non dimenticherò mai la gioia di quel giorno finché avrò vita.

Jasmine mi insegnò a leggere su quel libro. A lei piace leggere, legge tutto ciò che può, ma soprattutto le piace scrivere e le ho donato quello con le pagine da riempire. Mi ripete spesso che la penna è come un’arma per le cause giuste. Se ai bambini è negata l’istruzione, non potranno fare altro che diventare schiavi di qualcosa o di qualcuno. Io non capisco bene cosa intende ma so che lei dice sempre cose vere. E io le credo.

Prima della partenza Harim diede dei soldi alla mamma, che comprò delle provviste e pagò i debiti contratti con il capo villaggio. Harim diede dei soldi anche a lui. Lo sanno tutti che lui paga i capi villaggio perché convinca i genitori ad affidargli le bambine da vendere e a indebitarsi, con i proprietari terrieri che le sfrutteranno fino a che farà loro comodo. A volte qualcuno protesta, la polizia li mette in carcere, ma dopo poco tornano in libertà e tutto ricomincia come prima.

La notte prima della partenza non ho dormito. Non è bastata a calmarmi la fantastica cena che la mamma ci aveva cucinato: pollo con riso e lenticchie, chapati caldi, burro cagliato serviti su piatti di foglie. Il cibo era ottimo ma la mamma non mangiò nulla e tenne gli occhi bassi tutto il tempo; ogni tanto li alzava al cielo e si strofinava la fronte. L’aria era pesante, anche se i miei fratellini gioivano per tanta bontà. In più loro, come è usanza, avevano ricevuto doppia razione. Durante la notte i singhiozzi della mamma e l’eccitazione per affrontare luoghi e persone sconosciute mi tennero sveglia.

Il furgone verde marcio di Harim ci caricò all’alba, e ci condusse verso le pianure.

Io e Jasmine eravamo sedute accanto e ci tenevamo la mano. Eravamo in tanti, maschi e femmine, più femmine, ovvio; alcune avevano solo cinque anni. Jasmine mi disse che i bambini del nostro villaggio li volevano tutti, perché da noi la vita era più dura e noi avevamo il fisico più resistente. Non so perché ma questa cosa non mi parve tanto bella.

Dal finestrino sfilavano i colli che un tempo erano stati folti di tamarindi e alberi profumati, li avevano spiantati per venderli; e ora l’aridità mi seccava il respiro. La strada di campagna, lontana dai percorsi abituali dei viaggiatori, era un’unica gobba e sobbalzavamo fra buche e dune, un miscuglio di melma e sterco secco di animali. L’autista cercava di schivarle ma non riusciva a evitare gli scuotimenti continui. Quando sfioravamo qualche casupola con il tetto di paglia, rallentava per scansare galline stente e scheletriche vacche sacre sdraiate placidamente sulla strada. Sedute sulla soglia, accanto alle acacie stecchite, sostavano le vecchie della famiglia, a seno nudo sotto il sari come, a volte, usava anche mia nonna. Ricordo che si lamentava dei costumi imposti dai maledetti inglesi, che la obbligarono a indossare un bustino sotto al sari, e di non poter più stare come le pareva dentro ai suoi abiti. In esse ho rivisto lo stesso sguardo sperso nel nulla e la bocca sdentata in un vago sorriso che sapeva di dolore mai esaurito. Nei cortili asini o buoi trainavano degli strani marchingegni per tirare su l’acqua dai pozzi. Certe case erano costruite di mattoni, provenienti dalle fabbriche in cui si vedevano i bambini che tagliavano l’argilla, la seccavano in stampi e la trasportavano in cumuli più alti di loro; dai muri scrostati pendevano in grovigli fili della corrente elettrica, del telefono o di chissà cos’altro.  Ogni tanto ci bloccava la strada un bambino che guidava un gregge di pecore o che tirava un carretto carico di merci per il mercato. Mi sentivo triste, per me e per loro, perché in certi luoghi non esiste il tempo per essere bambini. A un certo punto la strada si fece tortuosa. Ci dovemmo fermare per far passare dei pastori nomadi che guidavano un gregge di cammelli; su uno di essi era fissata una branda dove dormiva beato un bambino di pochi mesi.

Ne approfittammo per fare pipì; all’improvviso da alcuni arbusti si alzarono in volo schiamazzando delle volpi volanti: sembravano pipistrelli enormi e mi spaventai tanto, misi le mani davanti agli occhi per non vedere e caddi nella mia pipì. Poco dopo attraversammo il villaggio di Laliji, vociante di urla e clacson, dove ognuno strombazzava più forte dell’altro. Ci scontrammo con un –tuc-tuc- (l’autista uno dei tanti senza patente guidava come un pazzo) colmo di turisti pigiati come sardine; essi scesero svelti, per quanto lo consentissero le loro chiappe e pance traballanti di grasso, e scatenarono le macchine fotografiche nel vedere una vacca che pisciava e le donne con le mani a coppa a raccogliere l’urina per bagnarsi il viso e i capelli, nel mentre un’altra vacca se ne stava sdraiata sulle pezze di stoffa in un negozio di tessuti. Per il venditore restava solo la speranza che comprassero quella stoffa sudicia ma sacra come l’urina della vacca.

Jasmine non si accorse di nulla, era troppo occupata a guardare chi le era seduto accanto. I suoi occhi mori e appassionati risplendevano mentre sbirciava Kailash. Un quattordicenne con una zazzera nera impolverata e sempre arruffata, appoggiata sugli occhi foschi e il sorriso furbesco. Anche lui era incantato dalla bocca dolce e la grazia da danzatrice di Jasmine. Si amavano nonostante sapessero che per loro era impossibile stare insieme. Jasmine appartiene alla casta dei Dalit, “gli intoccabili”, ed era promessa sposa dalla nascita per un matrimonio combinato. Il suo cammino aveva già il percorso destinato. A quindici anni si sarebbe dovuta sposare. Non sapeva con chi. Probabilmente con un vecchio. Poteva provare il marito per sei mesi e se non andava bene, per gravi colpe del marito, poteva essere risarcita con dei porci. Ma sapeva già che non avrebbe mai potuto dimostrare nulla. In quella casta è possibile cambiare marito e moglie più volte. Gli uomini lo fanno, per avere la dote che ogni nuova moglie deve dare; a causa di ciò, capita troppo spesso, che il loro sari s’incendi ed esse muoiano bruciate.

Oltretutto per Kailash era davvero impensabile stare con Jasmine, a causa della mano.

Gliela aveva macinata un ingranaggio della macchina del cotone. Ora avrebbe dovuto lavorare finché non avesse pagato tutto il debito contratto dalla famiglia; ma dal suo stipendio erano detratti i soldi spesi per curarlo e le medicine. Non poteva né rifiutarsi né ribellarsi.

I proprietari delle fattorie, contadini arricchiti, vivono in lussuose haveli, compiacciono i potenti e sottomettono i deboli oltre a non rispettare le severe leggi sul lavoro delle piccole braccia, tenendo ben nascosti i piccoli lavoratori. Le famiglie non denunciano, altrimenti muoiono tutti di fame e malattie.

Quando Jasmine mi racconta queste cose, ha le guance in fiamme e gli occhi appassionati esprimono rabbia e dolore. Lei si sfoga così, s’infiamma, si dispera e scrive tutto sul suo diario. Poi lo chiude con un colpo secco e lo nasconde dentro la sacca di iuta dove tiene tutte le sue cose più preziose.

Arrivammo che era il tramonto, frastornati, con la bocca impastata dall’umidità e dalla polvere, nel luogo dove arrivano i bambini venduti e, se necessario, rapiti. Un recinto elettrificato lo circondava, degli uomini armati stavano di guardia. In alto sull’entrata c’era un cartello: Proprietà Verde Eden.   Alla prima occhiata non mi sembrò tale. Quella sensazione non fu mai cancellata.

Avevo mangiato solo la frutta che la mamma mi aveva messo in un involto di stoffa, ma non avevo fame. Nemmeno il tempo per dire “namasté” che ci mandarono a dormire. Otto in ogni stanza. Tutti insieme, maschi e femmine. Quello che c’è di buono nell’essere sottocasta o intoccabili è che non abbiamo tutti gli obblighi che hanno quelli che appartengono ad altre caste o religioni.

Il giorno dopo ci svegliarono alle cinque del mattino perché era la prima volta (in seguito la sveglia sarebbe arrivata prima) e ci portarono sui campi. E così iniziò la vita grama. Ma non avrei mai immaginato quanto potesse essere grama.

Ebbene sì, voglio molto bene a Jasmine, ma la invidio tanto. Questo per lei è l’ultimo anno. Dopo sarà libera. Si fa per dire, perché dovrà sposarsi con il vecchiaccio che i suoi genitori hanno scelto per lei, ma non credo possa essere peggiore di così. Almeno lo spero per lei. La sua mamma ha finito di pagare il debito che aveva contratto per fare l’intervento e non avere più figli. Eseguito chissà da chi, forse parenti di parenti, ma comunque li doveva pagare.  Aveva partorito otto figli e non ne poteva più. Altre volte era entrata nel furgone che gira per i villaggi per controllare il sesso dei nascituri: se era femmina, la scelta era una sola. Poco dopo morì il marito, aveva cinquanta anni. – Meglio così, – diceva sempre Jasmine – non faceva che ubriacarsi di liquore estratto dal “mahua”, e picchiare la moglie e chiunque osasse contraddirlo in quei momenti. Non so come se la passano le donne nelle altri parti del mondo ma qui non se la passano bene di certo. Qui le donne sono sfruttate, soggiogate, annientate, stuprate, diceva sospirando con lo sguardo infuriato. Quando le vedevo quegli occhi da rivolta selvaggia, sentivo un brutto presentimento ed ero agitata. Era capace di tutto in quei momenti. Poi prendeva il suo diario e scriveva per ore.

Sono davvero in apprensione per Jasmine, nonostante le cose stiano cambiando in bene per noi. Harim ci ha proposto di cambiare stanza, di andare dove c’è anche la televisione, così potremo vedere le storie dove cantano e danzano e poi si sposano con vestiti luccicanti e sono tutti tanto felici.  Vabbè, neppure lì ci sono i servizi e dovremo andare nella capannaccia puzzolente e lavarci con l’unico rubinetto che funziona a spruzzi, come tutti; salvo il capo squadra. Ma tanto ci sono abituata, nel villaggio non era diverso.

Però non riesco a capire perché Jasmine si è così incupita. È una cosa bella per noi. Di sera potremo guardare il libro delle farfalle: la mia preferita è quella azzurra con le ali bordate di blu, sembra un pezzetto di cielo sfuggito alle nuvole; inoltre Jasmine potrà raccontarmi la storia che c’è sulla copertina del suo libro, quella della bambina con il cappuccio rosso che incontra il lupo che la vuole mangiare; senza che gli altri protestino per le nostre chiacchiere. Ma Jasmine è sempre più angosciata e si guarda continuamente intorno come se cercasse una via di fuga.  Forse è sconvolta, come me, per la ragazzina cui ieri le ruote dentate del cilindro rotante hanno mangiato un braccio, catturata nella macchina a causa del sari sollevato da un colpo di vento. Era appena arrivata, e ora questa sventura distruggerà la sua vita e quella della sua famiglia.

Harim dice che siamo molto brave e molto carine; ci ha promesso che se lo saremo sempre di più ci darà altre cose belle che ci faranno felici. Una cosa è certa: io cercherò di essere sempre più attenta e svelta con le dita per non saltare i fiori; voglio evitare di essere picchiata con il ferro sulle dita o avere le bruciature di sigaretta. Certi giorni sono più stanca e distratta e lui mi punisce così. Preferisco quando Harim mi offre i dolcetti. Li accetto molto volentieri. Non credo che la mamma intendesse questo quando mi ha avvertito di non farmi fare le gentilezze da Harim.

Anche Jasmine mi ha raccomandato di evitare le gentilezze di Harim. Con ciò non capisco perché lei va ogni sera nella sua stanza. Quando gliel’ho chiesto, ha detto che ci va perché la chiama, e che lo fa per proteggere me. Io so solo che torna dopo un po’, e poi la sento piangere, però faccio finta di dormire.

Ieri ci siamo lavate insieme e ho visto che sanguinava. Mi ha detto che sono cose che vengono alle bambine quando diventano donne. E che quando verrà a me di non farlo sapere a nessuno, soprattutto a Harim.

Io ho pensato che non fosse una brutta cosa diventare donna, così non mi avrebbero più voluto nei campi e sarei potuta tornare dalla mia famiglia. Ne ho una grande nostalgia e ho anche provato a telefonare al villaggio; l’unico telefono era sempre occupato e non sono riuscita a parlare con nessuno. Ho pianto tanto, senza farmi sentire e vedere perché temevo di essere appesa all’albero come fanno ai bambini che vogliono tornare a casa.

Ho tanta paura per Jasmine, da un po’ di tempo è troppo strana, mi sembra che stia male. Qui è un guaio grosso stare male perché se non ci comportiamo bene o ci ammaliamo, o per qualsiasi altro motivo non lavoriamo, ci tolgono i soldi che già sono pochi.

Anche oggi nel campo, Jasmine si è piegata dal dolore con le mani che schiacciavano il ventre. Questa notte ha parlato nel sonno, soffiava e singhiozzava parole che ho inteso come – Harim, no, basta, non voglio, ti prego, lupo no…

Strano, forse stava sognando la storia della bambina e il lupo. Anch’io ho paura quando me la legge, ma voglio sempre risentirla. Comunque la tengo d’occhio e, se sarà necessario, leggerò, (lo so che non si fa), quello che scrive sul suo diario per capire cosa le succede e se posso aiutarla.

Io invece sogno spesso la regina delle farfalle. Nel sogno ha le ali blu, splendenti, piene di polverina magica che, mentre vola, spande intorno e tutto fiorisce. Poi viene da me, mi solleva e mi fa volare in alto verso il cielo. Vedo il villaggio dall’alto: la mamma e i fratellini che mi salutano felici, Jasmine mano nella mano con Kailash (quella buona, ovvio) e….Harim che piange e si dispera perché viene bastonato da tutti i bambini rubati, venduti, rapiti e sono tanti e gli danno tante botte; e dopo tutti corrono felici su prati verdi fioriti, meno Harim che rimane da solo.  E anch’io sono tanto tanto felice. Evvabé è solo un sogno. Ah, dimenticavo, nel sogno vedo anche la signora che mi ha donato il libro sulle farfalle: cui ho dato il nome Vanessa.

Ma non è solo un sogno, un giorno l’ho vista davvero vicino al cancello. Era con altre persone e discutevano con le guardie, volevano entrare. Le guardie li minacciavano con i fucili. Ho sentito che diceva che sarebbe tornata presto. Mi ha visto e ha risposto al mio saluto con un bacio volante. Quella è stata una bellissima giornata, anche se stavo male perché non riuscivo a respirare a causa dei troppi pesticidi soffiati.

Sono due giorni che Jasmine non viene nel campo. Harim mi ha detto che è malata, e l’ha spostata in un’altra stanza. Gli ho chiesto dove, ma lui se n’è andato dicendo di non impicciarmi. Io, però, quando tutti erano a dormire sono sgattaiolata in giro per il campo per cercare la stanza di Jasmine.

L’ho trovata in uno stanzino nascosto dietro al magazzino. Non la riconoscevo più. Era gonfia e si lamentava di sentire dolore in ogni parte del corpo. Era contenta di vedermi e quando mi sono avvicinata per abbracciarla ho sentito odore di sangue, ma non vedevo da dove sanguinava. Le ho chiesto cosa dovevo fare e lei mi ha detto di portarle il diario e, se non l’avessi più trovata lì, di cercare il modo di consegnarlo alla signora delle farfalle.

A un tratto abbiamo sentito dei rumori, mi ha detto di nascondermi dietro a una tenda e di stare immobile. Ho trattenuto il respiro, come quando soffiano i fumi dei veleni nei campi, e sono rimasta in ascolto. È entrato Harim con un altro uomo. Parlottano fra loro, le fanno bere qualcosa, e se ne vanno discutendo. Jasmine mi implora di non farmi scoprire da nessuno e di tornare il prima possibile. Io non voglio lasciarla ma lei m’impone di andare. Prima però mi chiede un abbraccio di quelli che ci davamo quando volevamo far sentire all’altra il nostro bene più grande e la consolazione. Poi chiude gli occhi sfinita.

Il giorno dopo ritorno con il diario e il libro di farfalle. Forse l’avrebbe aiutata a guarire prima. La trovo sveglia, ma sbatte le palpebre come se non vedesse bene. Mi riconosce a malapena e mentre la bacio sento il sale delle lacrime scese sulle guance. Si mescolano alle mie. Mi dice di nascondere il diario nel sacco di juta e tiene il libro delle farfalle fra le mani come un pegno d’amore prezioso. Vuole che me ne vada perché teme l’arrivo di qualcuno da un momento all’altro. Me ne vado solo con la promessa di ritornare il giorno dopo prima dell’alba.

Le lame della luce non avevano ancora trafitto il buio della notte, che io ero già sulla porta dello stanzino. Non avevo chiuso occhio neppure un minuto per l’agitazione.

Trovo la porta chiusa a chiave. Sottovoce chiamo Jasmine ma mi risponde solo il silenzio assoluto. Giro intorno per trovare un pertugio dove passare.

Credo che questa sia l’unica volta per cui sono contenta di mangiare poco da essere così sottile in modo di poter passare dalla finestrella che dà nello stanzino dove c’è la mia amica del cuore.

Jasmine non c’è. È tutto vuoto. Come se non fosse mai stata lì. Ci sono solo delle vecchie scatole. Per un momento ho la sensazione di essere dentro a un sogno. Ma la sensazione è così crudele che è più giusto dire incubo. Jasmine dove sei? Giro intorno annusando e cercando qualche traccia di lei. Vago disperata nello spazio che ha contenuto il nostro affetto e trovo solo polvere e silenzio. Caccio un urlo come una bestia ferita che non trova cura alcuna. Rovescio tutto ciò che trovo e poi, sfinita, cado sulle scatole scoperchiate dalla mia furia. Accanto a me compare il sacco di juta che contiene il diario di Jasmine. Me lo stringo al petto e faccio appena in tempo a nasconderlo sotto il sari che la porta si spalanca.

-Che cosa ci fai qui dentro? Perché non sei  al lavoro? Ehi, cosa sei venuta a cercare qui?

-Perdona, perdona, Harim, me ne vado subito.

-Eh no! Un momento, stracciona ficcanaso, prima mi dici come hai fatto a entrare e perché sei qui…

-Mi era sembrato di sentire dei lamenti, mi pareva il miagolìo di un gattino. Lo volevo prendere e tenere con me per accarezzarlo. Sai da quando Jasmine se n’è andata, mi sento così triste…

-Hai detto bene, la tua amica se n’è andata. È venuto il suo futuro marito a prendersela. E ora sta meglio di te. Chissà, può darsi che anche tu finisca come lei. Non crederai di passarla liscia per aver lasciato il lavoro per raccattare un gatto che non c’è. E stai tranquilla, avrai anche le carezze che ti mancano… Sei cresciuta parecchio eh bimba…

-…No, ma, io sai Harim io non sono grande come Jasmine, io sono ancora piccola…

-Quanto sei grande o piccola, lo decido solo io, hai capito? E ora vattene, vai al lavoro che poi facciamo i conti, non temere. Mi guarda con gli occhi che cercano risposte a dubbi inquietanti.

Invece temo e quanto temo. Non so bene che cosa, ma so che temo. Mi raccolgo intorno al corpo il sari e tenendo stretto il diario mi avvio verso la porta. Quando gli passo accanto, mi dà una botta sulla schiena che mi fa cadere per terra. Batto il muso in terra perché non metto le mani avanti, occupate a tenere il diario. Mi rialzo con il sangue che esce copioso dal naso, che impregna la camicina e sporca la copertina del diario. Fuggo per quanto le gambe tremolanti me lo permettano.

Sangue. Sono passate molte ore, giorni, settimane, mesi, ma nelle mie narici c’è sempre l’odore del sangue di Jasmine. Non mi abbandona mai, come la sensazione di vuoto che mi ha lasciato nel cuore e nella mente. Ma mi ha lasciato anche un peso infinito da portare; dovrò trovare il modo di passarlo a chi mi può aiutare, perché tutto non sia accaduto invano. Sì, ora so che cosa è quell’odore. È sangue di donna, di donna ferita. La sua era la ferita più grande per una donna. L’ho letto nel suo diario. Jasmine aspettava un figlio. Il padre era Harim. Ma Jasmine dov’è? Lo stesso che gli ha messo la vita in grembo gliela tolta? Forse è venuto davvero il suo promesso sposo a prenderla? Ogni notte leggo il suo diario. C’è scritto tutto ciò che ha vissuto lei, e quello che ha saputo da altri. Tutte le nefandezze che sono commesse ai danni degli esseri umani, di più sulle donne e le bambine, qui e in altri luoghi. Jasmine era una bambina come me, ma qui si diventa presto grandi senza mai essere state veramente bambine.

Ora mi devo impegnare a far arrivare il diario alla signora delle farfalle, com’era desiderio di Jasmine. Lo devo fare a ogni costo. La signora Vanessa viene qua ogni giorno. Si ferma al cancello e discute. A volte rimane lì per ore. Sto cercando un modo per avvicinarmi a lei. Non sono libera di muovermi, come tutti d’altronde qui, ma io in particolare sono controllata da Harim. Mi tiene a dormire nella stanza dove stavo con Jasmine, e nonostante le mie preghiere non mi lascia andare con gli altri. Sembra che stia aspettando qualcosa. O per meglio dire il momento buono. Spesso colgo il suo sguardo viscido su di me e mi sento come se mi avesse ricoperto di qualcosa di schifoso che m’imbratta il corpo e la mente per giorni. Di notte sogno i suoi canini che affondano nel mio collo.

Non resisto più, mi sembra di impazzire. Oggi tento di dare il diario alla signora Vanessa. Dopo di che spero di stare un po’ meglio. Non sono andata al lavoro con la scusa che stavo male, e non è solo una scusa, è vero. Sento che oggi è il giorno adatto. La signora Vanessa è al cancello da alcune ore. È accanto alla rete di recinzione; da questo lato c’è il camion carico fino all’orlo dei fiocchi di cotone. Sto tremando e il cuore mi batte a mille. Nessuno fa caso a me. Salgo svelta sul camion da dietro, cado dentro i fiocchi bianchi e lancio dall’altra parte il diario che vola come una farfalla. La signora Vanessa lo afferra svelta. Scendo infiocchettata come un albero di Natale. Ecco fatto, e adesso accada quel che deve accadere, non me ne importa più nulla.  Sento che Jasmine è vicina a me e sorride contenta. Dai Jasmine, dimmi che sono stata brava!

Harim è venuto a cercarmi.

-Dove sei finita? Perché non sei al lavoro?

-Perdona Harim, mi sono sentita male…ora vado subito.

-Che cosa hai? È quello che hanno le ragazze ogni mese?

-No, no Harim che dici?- (Mi ricordai la raccomandazioni di Jasmine…)

-Bene, bene. Vai sbrigati, riprendi il lavoro, hai perso anche troppo tempo. Perché hai tutto il cotone sui vestiti? Ma cosa sta succedendo laggiù? Che cosa hai combinato? Ora vado a vedere e se…centri tu per qualcosa te la farò pagare stai certa!

Sono diversi giorni che nel campo c’è subbuglio. Sono tutti agitati. Ma non è cambiato gran che. Non è venuto nessuno da fuori e temo che il diario di Jasmine non sia servito a nulla. Forse nessuno ha creduto a quello che c’era scritto perché era talmente sconvolgente che forse hanno pensato fossero solo fantasticherie di una adolescente  inquieta.

L’unica cosa  cambiata è che ora ci accompagnano sempre nei campi e poi gli altri li portano a dormire in uno stanzone nascosto e li obbligano al silenzio assoluto. Hanno minacciato punizioni durissime. Se per caso trovano qualcuno, ed è interrogato, deve dichiarare il falso: cioè che è tutto regolare e va tutto bene.

Spero che non trovino me perché io dirò la verità, a costo della vita. Perché quello che vivo qui non è vita. Tanto vale.

Stasera sono particolarmente avvilita. Rileggo con la mente (lo so a memoria) il diario di Jasmine e cerco di indovinare cosa può aver pensato la signora Vanessa e perché non fa nulla per liberarci da questa terribile schiavitù dopo averlo letto. Forse non ha creduto a nulla, o aveva altre cose più importanti da fare.

All’improvviso sento qualcuno alle spalle. Sento il calore di un corpo, puzzo di alcol. Qualcuno mi accarezza il collo. So già chi è.

Mi giro e lancio un pugno nell’aria. Poi mi rannicchio, divento piccola piccola.

-Eccomi, piccola Anja, sono venuto da te. Mi aspettavi, vero? Sono venuto a farti le carezze e… proprio come alla tua cara amica Jasmine.

-Ti prego dimmi dov’è Jasmine?

-Te l’ho già detto. Lei ora sta bene. E se anche tu sarai buona con me, potrai stare bene. Io voglio solo essere gentile con te…

-Non avvicinarti, non voglio le tue gentilezze.

-Su, piccola Anja devi essere buona con me, guarda ti ho portato un regalo.

Nel momento in cui Harim mi porge il libro di farfalle, mi scoppia in testa un fuoco d’artificio e vomito sul libro. Jasmine non lo avrebbe mai lasciato nelle sue mani. Lo guardo e vedo nelle sue pupille Jasmine morta. Sento una sirena che suona. È l’allarme del campo. Dalla finestra vedo che c’è un’irruzione della polizia, guidata dalla signora Vanessa. Scappo fuori. Harim m’insegue. Mi sta agguantando. Raccolgo tutte le mie forze, mi giro e lo colpisco sugli occhi con il libro delle farfalle. Lui urla per il dolore, indietreggia barcollando. Io corro verso gli stanzoni e li apro. I bambini schiamazzano fuori urlando felici come tutti i bambini del mondo dopo che sono stati rinchiusi da qualche parte contro il loro volere. Giustizia è fatta, lo vedi Jasmine? Siamo state brave. Ce l’abbiamo fatta!

Harim m’insegue e urla alle guardie di sparare.

Centrata al primo colpo.

Non me ne importa nulla. Sto bene, finalmente.

Ehi, sento qualcosa di strano alle spalle. È come un prurito, ma non è fastidioso. Anzi è piacevole. Mi volto e vedo che mi sono spuntate delle ali bellissime, colorate, meravigliose. Evvai, volo. Sì, volo in cielo come la più stupenda delle farfalle.

Finalmente conosco la pace e la libertà, ed è tutto meraviglioso.

 

 

 

 

 

Solstizio d’inverno

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Nadia Peruzzi: Ancora voglia di rosso

Nel solstizio che sta per arrivare, il rosso sta per cedere ….per volgere al bianco! Sulla carta e fra le emozioni e le suggestioni ,del cimento che ci attende a gennaio, molto  probabilmente. Sarà una bella sfida, quella che inizia a gennaio.

Ma la realtà? Intanto, sarà che il solstizio è appena agli inizi, sarà che il vecchio fa fatica a lasciarsi andare se il nuovo non è del tutto pronto, Babbo Natale non solo non è bianco ma rosso rosso. Anzi è L’Omino Rosso per eccellenza. È previsto che svolazzi con la sua slitta e le sue renne a giro per il mondo a portar regali.

Cose materiali, materialissime, anzi. Non guasterebbe un po’ più  di calore e serenità  d’animo che sarebbero il vero toccasana per noi che corriamo sempre attaccati ai nostri orologi ,spesso senza costrutto e senza meta. Ma per tutto questo non c’è Babbo Natale che tenga, siamo noi che dovremmo cambiar registro!

Rosse le fiamme dei camini di quando eravamo bambini. Quei tizzoni che sprizzavano felicità e ce la trasmettevano. Noi seduti  sulle panche laterali che tendevamo in avanti mani e volti, per godere anche dell’ultimo baluginio di scintille. Nasi rossi, guance rosse, mani e ginocchi rossi . Un solo neo. Da dietro veniva un freddo cane che ci divideva a metà. Dietro quasi come fossimo al Polo, fra gli eschimesi che avevamo letto nel “Paese delle ombre lunghe”. Di fronte, come se fossimo ai Caraibi o nella Malesia di Sandokan e Yanez.

Facevamo ripasso di geografia, anche solo facendo correre l’immaginazione molto prima di aver iniziato a farli per davvero alcuni di quei viaggi!

Rosso prevalente quello delle carte regalo, dei lacci, dei nastri, delle palle sugli alberi di Natale,  a parte “Spelacchio”, passato a miglior vita nel cimitero degli abeti, dopo una parentesi triste e brevissima, durante la quale lo hanno preso pure in giro senza pietà.

Lucidi e rossi dalla contentezza gli occhi di figli e nipoti, quando si precipitano ad aprire i regali che dormono già da un po’ ai piedi dell’albero!

Ci sta che qualcuno, dopo esser portato alla luce, venga rimesso a dormire, gettato in un cassetto dove nessuno lo guarda più. Fra qualche anno, chissà, tornato per caso alla vista, può esser idea per un ricircolo operoso, in un fruscio di carta lucida e in una nuvola di tulle rossi rossi ,come di ordinanza! Visto il fiasco di quest’anno, perché non sperare in un  Natale da pronipoti in cui possa finalmente vivere il suo momento di gloria??

Il Bianco arriverà. Quatto quatto e forse dilagherà. Intanto per ora il Rosso, non ha alcuna intenzione di cedere il passo! A gennaio…………….chissà !!

Ode all’autunno

http://www.gallito.eu/poesie-di-pablo-neruda-ode-allautunno/

PABLO NERUDA Ode all’autunno

Ah, quanto tempo
si è
potuto vivere,
terra,
senza autunno!
Ah, che naiade
oppressiva
la primavera
con i suoi scandalosi
capezzoli
che mostra in tutti
gli alberi del mondo,
e quindi
l’estate,
grano,
grano,
intermittenti
grilli,
cicale,
sudore sfrenato.
Poi,
l’aria
reca di mattina
un vapore di pianeta.
Da altra stella
cadono gocce d’argento.
Si respira
il cambiamento
delle frontiere,
dell’umidità del vento
dal vento alle radici.
Qualcosa di sordo, profondo,
lavora sottoterra
stivando sogni.
L’energia si raggomitola,
la catena
delle fecondazioni
arrotola
i suoi anelli.
Modesto è l’autunno
come i taglialegna.
Costa molto
togliere tutte le foglie
da tutti gli alberi
di tutti i paesi.
La primavera
le cucì in volo
e ora
bisogna lasciarle
cadere come se fossero
uccelli gialli:
Non è facile.
Serve tempo.
Bisogna correre per
le strade,
parlare lingue,
svedese,
portoghese,
parlare la lingua rossa,
quella verde.
Bisogna sapere
tacere in tutte
le lingue
e dappertutto,
sempre,
lasciare cadere,
cadere,
lasciare cadere,
cadere
le foglie.

Difficile
è
essere autunno,
facile essere primavera.
Accendere tutto
quel che è nato
per essere acceso.
Spegnere il mondo , invece,
facendolo scivolare via
come se fosse un cerchio
di cose gialle,
fino a fondere odori,
luce, radici,
e a far salire il vino all’uva,
coniare con pazienza
l’irregolare moneta
della cima dell’albero
e spargerla dopo
per disinteressate
strade deserte,
è compito di mani
virili.

Per questo,
autunno,
compagno vasaio,
costruttore di pianeti,
elettricista,
conservatore del grano,
ti dò la mia mano da uomo
a uomo
e ti chiedo di invitarmi
a uscire a cavallo
per lavorare insieme a te.
Ho sempre voluto
essere l’apprendista
dell’autunno
essere il piccolo parente
del laborioso
meccanico delle cime,
galoppare per la terra
distribuendo
oro,
oro inutile.
Ma, domani,
autunno,
ti aiuterò a ripartire
foglie d’oro
ai poveri della strada.

Autunno, buon cavaliere,
galoppiamo,
prima che ci sorprenda
il nero inverno.
E’ duro
il nostro lungo lavoro.
Andiamo
a preparare la terra
e a insegnarle
a essere madre,
a riparare le sementi
che nel suo ventre
dormiranno protette
da due cavalieri rossi
che girano per il mondo:
l’apprendista dell’autunno
e l’autunno.

Così dalle radici
oscure e nascoste
potranno uscire danzando
la fragranza
e il velo verde della primavera.

Il rosso finisce e sfuma nel bianco

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Roberta Morandi: Una panchina sola

Finito un  periodo, rosso, ne inizia un altro, bianco, con in mezzo la pausa natalizia in cui i due colori si combinano e si mescolano nelle mille sfumature che solo in natura possiamo trovare.
Il rosso passionale del fuoco, ma anche il rosso ocra dell’autunno, delle foglie mature, del declino, della sospensione, delle emozioni imperfette. Ecco cosa mi porto dietro, un tempo sospeso, delle cose abbozzate e non finite, la melanconia di una foto in bianco e nero nella nebbia, di un albero spoglio, di una storia inconclusa…
Eppure il rosso prometteva passione, fuoco, vita, rabbia, allegria, estate… e più potente e rossa è  la stagione, più pacata, tenue e quasi triste è  la seguente, come se durante la giovinezza si galoppasse sull’onda dei piaceri e si assaporasse la vita godendo appieno tutto il rosso delle passioni, così che arriva poi il tempo della quiete, del porto tranquillo, della calma e pacatezza autunnale.
Un passaggio necessario, indispensabile su cui fra tutte le emozioni predomina tristezza e fra tutte le immagini, un viale di alberi spogli, una panchina deserta e sola.
Il lato oscuro del rosso: il fondersi nell’ ocra
Il consumarsi dell’estate: l’arrivo dell’autunno
Il bruciare delle passioni: il cedere all’accettazione.