Lamatitaperscrivereilcielo è un progetto di scrittura, legata all'anima delle persone che condividono un percorso di scoperta, di osservazione e di ricordo.
Questo blog intende raccontare quanto non è facilmente visibile che abbia una relazione con l'Umanità nelle sue varie espressioni
Sono salita al pollaio per portare gli scarti di casa e il pastone alle galline, che mi aspettavano impazienti zampettando avanti e indietro davanti al recinto.
Come prigionieri in attesa della libertà, mi inteneriscono sempre e apro il cancelletto per farle uscire, sapendo bene che troverò i vialetti arruffati e pieni di terriccio che loro per natura spargono gioiosamente alla ricerca di vermi, larve e pietruzze.
Si precipitano subito fuori le due pollastrelle nere e marroni, belle e eleganti che non ho capito se hanno iniziato a deporre le uova oppure non ancora.
Loro, mangeranno con calma dopo gli altri, iniziano la caccia con battaglia, se negli scarti trovano pezzi di formaggio oppure parti di carni.
Si rincorrono per rubarsi il pezzo conquistato e cercano angoli protetti per divorarlo in santa pace. Mi diverto a seguire le battaglie e i comportamenti diversi di ognuno.
Gli spiriti liberi che dormono invece sul tetto del pollaio in tutte le stagioni e che non sono riuscita a domare, gallo David, Bianchina e la Rossa, sono scesi da un pezzo e razzolano liberamente senza controllo. Le ho provate tutte ma non sono riuscita a trovare una soluzione che mi tranquillizzi.
Temo sempre che qualche predatore si faccia una bella scorpacciate beffandosi del loro desiderio di libertà. Bianchina semina uova dovunque, obbligandomi a fare ricerche e controlli ogni giorno: ho trovato dodici uova sotto un muro pochi giorni fa.
Sarà perché gallo David è nato da una covata casalinga che ha mantenuto intatti i caratteri istintivi e ha contagiato le due compagne galline ma, ogni strategia ha fallito e devo rischiare ogni giorno.
Ieri, la suddetta compagnia , trovando la porta di casa aperta, si è tranquillamente introdotta nell’ingresso, so ben io cosa cercavano. Mi chiamavano per ricevere coccole e quel che rimaneva nel sacchetto di semi per le mie insalate che a loro piacciono tanto.
Si fanno ogni volta più audaci, sanno che non resisto e mi intenerisco sempre più e così banchettano con semi di girasole, papavero, semi di zucca sgusciati e qualche crosticina di formaggio. Sarà che David mi è molto riconoscente da quando l’ho liberato dagli attacchi di gallo Maciste che lo aveva attaccato a sangue ripetute volte, fatto stà che adesso mi viene a trovare ogni giorno, accompagnato o da solo.
I miei 25 anni ringraziarono il 1973 con il suo divieto di circolazione imposto alle automobili, tutte le domeniche, per fronteggiare la prima emergenza energetica in Italia.
Fu così che arrivò la bicicletta, dopo diciotto anni dall’ultima che avevo inforcato.
Ero ruzzolata lungo lo scalone della caserma Garibaldi a Varese. Dopodiché venni portata di corsa all’ospedale.
Andavo in una bici senza freni con i pattini ai piedi.
Dopo l’accaduto la bicicletta sparì.
Non venne rimpiazzata.
Persi un’amica: negli anni successivi non mi resi conto di quanto mi mancava.
Per un avvenimento fortuito, legato all’amore, la ritrovai: era verde.
Il mio “biciclettaio personale” si occupava della sua manutenzione: adesso non correvo più rischi.
Poggiavo su spalle forti.
Per lui era un tornare al periodo dell’adolescenza quando percorreva le Murge in bicicletta per andare da Bari a Putignano e viceversa perché il biglietto del treno costava troppo.
Erano quaranta chilometri di dossi con la sola ricarica di una banana. Erano quaranta chilometri di forature, catene saltate, freni da registrare, … che lo avevano reso un meccanico pronto ad ogni imprevisto.
Per lui era un tornare indietro ma con l’entusiasmo della nuova vita. Per me era una piacevole avventura. C’era da scoprire un mondo nuovo di cui acquisire la consapevolezza dei luoghi e delle persone. Era tutto da guardare, mettendo a fuoco ciò che capitava, per sentirsi parte di una città che si concedeva con estrema parsimonia. Gli occhi diventavano esploratori al rallentatore della realtà che ci ospitava da quattro anni.
Era possibile andare a zonzo all’ombra del cupolone con la scusa di fare la spesa. Le soste erano Calderai in via Calimala che sciorinava sul bancone un tripudio di golosità o Pegna in via dello Studio dal quale era possibile scovare tante diverse specialità regionali introvabili altrove come ad esempio l’uvetta passolina, piccola, di colore prugno-nerastra, da usare insieme ai pinoli per cucinare la pasta con le sarde o gli involtini di pesce spada.
In quei giri non mancava mai la sosta sulla panchina all’angolo di via dell’Oche per mangiare il panino con la mortadella acquistato da Pegna.
In bici ci si poteva muovere agevolmente in centro anche di notte per andare alla Pergola o al Comunale ma pure a qualche spettacolo underground spesso rappresentato in spazi non convenzionali dove venivano eseguite performance con linguaggi innovativi. È stato possibile vedere tra gli altri il mimo francese Yves Lebreton che univa espressione corporea e vocale con l’humor clownesco e con il gusto dell’assurdo: ma anche Carmelo Bene e Tadeusz Kantor. Quest’ultimo teneva il pubblico assolutamente ipnotizzato per più di due ore mentre lui e la sua compagnia recitavano in lingua polacca, scandita dal ritmo e dalla musica.
Era forte la sensazione di stordimento provocata da queste esibizioni. Esploravano memoria, trauma, dimensione onirica, potere, ingiustizie, tabù, distruzione … attraverso lo straniamento e colpivano a fondo. Ho ancora negli occhi e nelle orecchie “Lorenzaccio” al Teatrino di Palazzo Pitti dove Carmelo Bene frantumava vetri e fingeva di ingerirli in un rumore allucinatorio.
A fine spettacolo la bicicletta si dimostrava il mezzo ideale perché il pedalare scaricava la tensione accumulata, consentiva di pensare, di riflettere e di riprendere contatto con la realtà.
La prima meta era l’aperitivo.
Non c’è nulla di meglio di un Margarita, di un Martini o di un Gin fizz per riorganizzare le idee dopo che qualcuno ha picchiato giù duro.
Poi toccava al mangiare.
C’era un locale vicino a Ponte Vecchio, all’inizio di Borgo San Jacopo, dove un tipo istrionico, Ghigo, improvvisava piatti stravaganti per i suoi avventori appollaiati su sgabelli vertiginosi. Da lui si mangiava il cous cous più strepitoso di tutta Firenze.
Un altro si trovava in via del Porcellana, “I tredici gobbi”, dove un amico aveva in serbo sempre qualcosa di speciale e comunque si poteva contare sul suo prosciutto di Praga davvero impareggiabile.
Talvolta tra un andare in su e in giù capitavano dei siparietti inaspettati come trovarsi in un gruppo che ballava danze popolari in Piazza del Duomo o anche piroettare in Piazza della Repubblica con uno sconosciuto albanese decisamente allegro che voleva godersi la musica proveniente da Paszkowski.
D’inverno qualche bicchiere di vino in corpo proteggeva dal freddo durante il percorso di rientro a casa. Pedalata dopo pedalata era bello tornare al proprio mondo dopo essersene allontanati. Era bello svuotare la mente per far entrare la pace e il silenzio della notte che aveva continuamente in serbo qualcosa di magico: le luci dei lampioni sui lungarni riflesse nel fiume, la luna sempre bella nelle sue diverse facce e posizioni, il cielo nelle varie forme, il mosaico di San Miniato che veniva fuori dal buio, scintillante d’oro, dominando la piana ai suoi piedi. Via via entrava anche lo stupore di tutto come se ad ogni angolo ci si trovasse davanti a un miracolo.
D’estate in città di solito imperversava un caldo spietato ma dal tramonto in poi la situazione gradatamente migliorava. Era bello vagare lungo i viali deserti magari alla ricerca di qualche arena dove vedere un film. Era eccitante sentirsi così padroni del mondo da attraversare gli incroci anche con il rosso, se non c’era nessuno in vista. Ma una volta i vigili mi hanno seguita, fermata e fatto una bella ramanzina mentre mio marito li sollecitava a fare la contravvenzione. “Fatele la multa – diceva – così se la smette di fare la spiritosa!”
Capitava che l’automobile era dal meccanico, allora la bicicletta serviva anche per andare al lavoro. Nel periodo in cui si poteva usufruire della chiatta che univa le due sponde dell’Arno in corrispondenza della Nave a Rovezzano il tragitto casa scuola risultava più breve. Era divertente condividere il viaggio con ortolani, artigiani, muratori che parlavano fra loro in vernacolo: volavano battute in libertà che spalancavano mondi diversi da quelli che conoscevo.
Intorno al 1978 iniziò il periodo delle vacanze in Maremma in un furgone trasformato a camper parcheggiato sopra un poggio in un podere in prossimità del mare.
La bicicletta era il mezzo per arrivare in spiaggia. In quegli anni erano davvero in pochi a farne uso. Addirittura capitò che qualcuno sorpassando gridasse dall’automobile “A fanatici!”
Pedalavo e sapevo solo che mi aspettava il mare, il suo odore, il suo rumore, la pineta, le dune.
Era tutto mio.
Non pesava lo zaino né il traino con sdraio e ombrellone; non bruciava il sole a picco.
Sfilavano al mio fianco scenari in continuo movimento: piante, animali, vecchi macchinari, capanne, recinti.
A poco a poco avevo imparato a mettere a fuoco tutto ciò che capitava sott’occhio o a tiro d’orecchio.
A poco a poco avevo imparato a riconoscere gli animali che si mimetizzavano nel terreno o fra gli alberi, a poco a poco distinguevo i differenti versi che facevano.
L’arrivo in spiaggia era il meritato premio: dopo aver creato zone d’ombra con teli e ombrelloni mi abbandonavo a quello che ho sempre considerato il mio paradiso.
A quel tempo la famiglia era al completo. Le bambine non stavano ferme un attimo. Tra un bagno e un altro c’erano le incursioni in pineta dove fare provviste di rami, bacche, pigne che arredavano le capanne improvvisate oppure riempivano i coccini che portavano nella grotta di Collelungo.
Tornati al camper, le bambine rimanevano volentieri sull’aia di Vacchereccia per giocare con gli altri bambini e per stare dietro ad Elena, Emilia e Gemma che avevano sempre un gran da fare nei recinti degli animali fra galline, pulcini, conigli, faraone, oche, tacchini. Quello era il momento di partire per scorribande fra i poderi alla ricerca delle pere più succose, del pecorino più saporito, dei gelsi più golosi, di qualche pezzo di cinghiale.
A Spergolaia Romilda, tipica donna veneta, snella, con gli occhi azzurri e l’accento dolce che coronava il suo garbo nel porgersi, metteva a disposizione uova, frutta e verdura. C’era da ringraziare i suoi maiali per quel che faceva trovare in abbondanza perché alcuni prodotti come fichi e susine Scosciamonache non glieli poteva dare sennò avrebbero avuto “gli scioglimenti”.
Elia, altro veneto magro, biondo e con gli occhi azzurri, aveva una stalla di cento bovini dietro ai quali lui e suo fratello erano davvero sempre indaffarati. Vendeva dell’ottimo vino bianco che faceva gustare in cantina in dosi generose.
È anche capitato qualcuno che ha rifilato il bidone tipo un pollo che non riusciva a cuocersi in nessun modo ma in genere le persone erano corrette.
Ogni mattina a Vacchereccia un gran suonare di clacson fin dai piedi del poggio annunciava l’arrivo dei prodotti da forno: era il panaio, un gran bel ragazzo veneto, biondo e con gli occhi azzurri che, giunto sull’aia, apriva gli sportelli del furgoncino e cominciava la vendita. Le massaie si affollavano intorno a lui e fra una battuta e una chiacchiera venivano distribuiti pagnotte, panini, schiacce, focacce, pizze, bomboloni mentre i bambini facevano le loro richieste ad alta voce e i cani giravano intorno. Il più pestifero di tutti era Briciolo un bastardino con i tratti prevalenti di un pinscher che abbaiava senza sosta con voce strozzata facendo la pipì in qua e in là per l’agitazione.
Il latte arrivava dal Nocchi che aveva il podere ai piedi del poggio: ogni giorno riempiva il grande recipiente d’alluminio con il latte appena munto.
Il panaio non era il solo ambulante che saliva: c’era anche il merciaio, il mesticatore, il dolciaio. Tutta la mercanzia veniva esposta in furgoni che al loro arrivo si aprivano, si allungavano, si abbassavano per mettere in mostra tutti gli articoli e le massaie si radunavano intorno a guardare, toccare, contrattare mentre venivano scambiate tutte le informazioni del contado lì intorno.
Dopo qualche anno, con le nuove regole del Parco dell’Uccellina non fu più possibile parcheggiare il camper a Vacchereccia e cominciò il periodo di soggiorno in paese.
Il rituale però rimaneva il solito. Dopo colazione, preparati i panini, c’era la partenza per la spiaggia percorrendo la pista ciclabile: solo qualche chilometro in più rispetto a prima.
Sembrava che quella consuetudine bicicletta-spiaggia-bicicletta non sarebbe finita mai.
Invece sono successe tante cose.
La mia vita ha smarrito le ruote.
Ero sola e mi sono persa tra dolore, mistero, trasformazione, passato, presente…
La magia di quella routine che si ripeteva anno dopo anno si è interrotta e dopo una brutta caduta con tutte le conseguenze del caso la bicicletta finisce in garage.
Incomincia la trafila degli appuntamenti per la riabilitazione.
Prendo il vizio di stare in casa.
Mi rincoglionisco davanti alla televisione.
Non cammino più: le gambe non funzionano.
A lungo andare la spina dorsale è tutta sconnessa.
La mattina mi alzo come una bestia: sono un animale in gabbia sempre più avvilita.
Il torpore mi pervade.
Ma le parole di Tina resuscitano la voglia di vivere.
“Perché no?” mi domando.
Penso: “No, non mi lascio andare”.
Dentro mi sento la stessa anche se il fuori invecchia inesorabile.
La vita scivola come un destino rotto: ma il sole sorge ancora e il tempo batte per me.
Una curva sinuosa abbraccia il gruppo di casine. Un nastro lucido che incornicia case piccine, vecchie, con piccoli tetti e pareti che scompaiono nel panorama. Il nastro incornicia come quello di raso fa con i regali. Luccica al sole ed anche alla luna, si fa tutt’ uno con la pioggia, notte nella notte.
È la divinità , l’ entità che c’ è sempre stata, c’ è e ci sarà, forse, per sempre. Non c’era discorso che non ne parlasse, né sera a veglia che non lo vedesse protagonista di storie, leggende, magie. Non è mai stato fiume, generico, lettera minuscola. Sempre Arno, presenza viva e possente, lettera maiuscola .
C’era chi da generazioni viveva con la sua rena, una sabbia meno sofisticata, più scura, di razza contadina. I renaioli conoscevano tutte le buche, tutte le trappole, tutti gli inganni delle correnti. Sapevano dove insegnare a nuotare ai bambini, in sicurezza. Tante volte ho sentito la nonna raccontare di quando Fortuna mise in acqua il mio piccolissimo babbo, nel fondo della Massa. Fortuna ed il fratello Nandino, i renaioli, erano loro stessi personaggi mitologici. Avevano pelle scurissima e quasi a scaglie, simile a quella dei pesci, ed un odore d’ Arno che era profumo di quell’ acqua e solo di quella . Un misto di odore d’ acqua, erba, fango, schiuma di pescaia, che non ho sentito né a Firenze, né a Pontassieve, era solo lì. Era il profumo del mio babbo.
Lui e l’ Arno erano una cosa sola. Fin da piccino era stato con i renaioli. Forse per attitudine, in ogni generazione avevano dei giovani a cui trasmettere il fiume. Uno fu di certo il mio babbo, uno Gigi, che da poco spero stia di nuovo pescando con il babbo. E loro trasmisero a Paolino. Erano sempre lì, piedi nell’ acqua e canna da pesca appoggiata al fianco. Il babbo andava tutti i giorni, dopo pranzo, un paio d’ ore. I pescatori si vedevano da lontano, silenziose sentinelle di acque dolci . I pesci, alla fine, non interessavano a nessuno. Il babbo portava a casa quelli bellissimi, e quelli che i vicini mangiavano volentieri I piu’ belli erano ricoperti di scaglie colorate. D’ oro sulla pancia, grigie, blu e verdi sul dorso . Li portava vivi e si andavano a liberare in processioni di bambini Vederli guizzare e sparire, tra lampi di sole, era un’ emozione grande. Avevano labbra umane, per il resto facevano capire l’ appartenenza ad un mondo altro, di cui erano padroni . Il babbo era rispettoso, li amava davvero. Del resto, lui quell’ acqua c’è l’ aveva nelle vene e lo attraversava, perlomeno fino a quando il posto dell’ acqua l’ ha preso il vino, e da allora in poi niente è piu’ stato lo stesso .
Paolo, fino da ragazzino aveva un sasso su cui sedere, in pescaia. Sempre il solito, un grigio sasso schiacciato sul quale si poteva stare anche in piedi, ed anche in due Ci si poteva scrivere, con i sassi rossi. Ci si trovava lì. Ci penso solo ora, nel mio amore un posto l ha avuto anche il sasso, l’ Arno di sicuro. Fin da bambino Paolo passava le giornate sul fiume e la sua mamma passava le ore sgolandosi a chiamarlo dalla finestra, inutilmente. Tornava solo al tramonto. Allora l’ unico pericolo era cadere in acqua, bastava stare attenti . Anche adesso, per noi le passeggiate finiscono sempre in pescaia, ed il tramonto che si moltiplica sull acqua ci emoziona come sempre.
Da un bel pezzo la zona è tutta recintata per grossi lavori di manutenzione. Quando sono cominciati sono stata malissimo, certa che nulla sarà piu’ come prima . Anche ieri Paolo mi ha detto che non si riconosce piu’ nulla. Il sasso non c’è più. Un gran dolore . Ogni volta che scompare qualcosa che ci vide ragazzi, che vide i miei genitori giovani, posti dove anche loro avevano camminato, riso, amato, mi sembra muoiano un altro po’.
Ho delle foto di loro lì . Non ho foto di loro da “grandi”, come se volesse dire qualcosa
Sono ritratti mentre si bagnano, mentre sono seduti sulla rena all’ ombra del muro, mentre lui mette in mostra tutte le costole spingendo la stanga della barca del renaiolo. Lei fa il bagno e non sapeva nuotare. Si fidava di lui e dell’ Arno . Erano bellissimi e molto felici. Una consolazione.
Forse qualche goccia di quelle che li hanno cullati potrebbe essere rimasta incastrata sotto i sassi, o tra le foglie tremuli di piante acquatiche.
Quelle acque scorrevano quando si sono amati loro, quando ci siamo amati noi, quando sono nata, il giorno che il babbo si voleva buttare. Scappò di corsa quando le mie manine gli sfuggirono ed invece di una capriola, feci una sonora caduta di testa. Lo rincorsero, lo chiamarono, urlarono che non era successo nulla. Da quando me lo raccontarono, ogni volta che mi rimproverava, dicevo che se ero grulla era perché mi aveva fatto picchiare la testa lui. Si rideva, mi accarezzava
Era bellissima anche la passeggiata per arrivarci, in quel punto dell’ Arno. Si attraversava un rigoglioso campo pieno di ogni specie di albero da frutto e poi, quando già si vedeva il fiume, si camminava sulla viottola attraverso un campo di grano che a primavera vibrava di verde e lasciava occhieggiare il rosso di migliaia di tulipani . Fiori di campi, gambi fini e petali fragili, bellezza gratuita che rimane negli occhi
Poi, la spiaggia di rena a ridosso del muro massiccio ad argine dell’ acqua e le acacie che ballavano al ritmo del vento, spargendo profumo e fiori bianchi a grappoli, nella stagione nella quale si vestivano con il bianco vestito buono.
Non c’è più il muro, non c’è piu’ la spiaggetta e nemmeno le acacie . Non ci sono più le vecchie pietre della pescaia. Tutto cemento, temo
C’è l’ acqua. Quella che non è mai la stessa. Quella che porta via .
Il piccolo agglomerato di case apparve all’improvviso dietro alla collina all’uomo che stava camminando nella campagna solitaria.
Lui si avvicino ’ affrettando i passi. incuriosito. anche perché sulla carta che aveva con se’ non trovava traccia di quelle costruzioni. Arrivato si accorse che le case. alcune piccole ed altre piu’ grandi costituivano quasi un anello intorno ad una piazza lastricata . La piazza era deserta e silenziosa . Si mise a sedere su un muricciolo e, come con un periscopio guardo’ la cortina di facciate ad anello notando che c’erano solo due aperture per accedere alla piazza; da una era entrato lui e l’altra opposta diametralmente, piu’ piccola, dava sulla campagna dietro che proseguiva; ad un tratto avverti’ un rumore di passi che si avvicinava dalla parte del secondo varco; cosi’ dopo poco apparve un vecchio (non che lui fosse giovane peraltro ma quello era piu’ anziano di lui) che, vistolo, lo saluto’ con un cenno del capo e apri’ l’uscio della casa piu’ modesta . Entro’ e lo senti’ mormorare “finalmente a casa “. Poi fu di nuovo silenzio …. e l’uomo continuo’, seduto, ad ispezionare quelle case che gli parevano avere un’impronta familiare. Piano piano, appoggiato ad una pietra che gli faceva da schienale, in quella piazza si lascio’ afferrare dal sonno e con il sonno arrivo’ un sogno strano che aveva come sfondo sfuocato il luogo dove era e davanti allo sfondo passavano scene della sua vita reale, gli pareva, ma che veniva ripercorsa ed alimentata dalla piazza . … cosi’ vide se stesso aprire la porta della prima casa e si accorse che dentro ancora non c’era lui . . era nel grembo di sua madre …
1. Quel febbraio del 48 a Firenze faceva freddo e c’era la neve; sua madre era venuta dal paese nel pistoiese, per sicurezza, a stare in casa da una parente in città in attesa del parto. Sicurezza sì ma occorre anche fortuna; sì perché appena qualche giorno prima del parto era stata fissata in casa una visita di controllo di un professore medico . Appuntamento fissato, come ritrovo angolo di una piazza vicina alla casa; suo babbo con la Topolino ando’ a prelevarlo al posto stabilito mentre nevicava . ” E’ lei il professore?” aprendo lo sportello “si sono Io”; salito dentro l’auto il tempo di arrivare quasi a casa due parole del babbo sulla visita medica “medica? mai non sono un medico sono professore di lettere!”; un po’ di panico. Il letterato rilasciato sul luogo dell’ appuntamento e preso il professore vero. Dopo pochi giorni, finito il tempo, la nascita era andata bene a parte la “pera”, per dire il gonfiore della testa su un lato a causa del forcipe che aveva troppo premuto sulla testa, formando quel gonfiore spropositato asimmetrico …; per fortuna come tutta la frutta dopo un po’ la pera maturo’ e si sgonfio’ !
Quindi quella casa fu abitata credo al massimo un mese. Ma non dimenticata. Quando l’uomo passa ancora oggi da quella piazza di Firenze guarda spesso la finestra della casa; l’effetto che prova è come risalire alla sorgente di un fiume che scorre sempre.
… per quello strano sovrapporsi dei due fondali nel sogno l’uomo si vide aprire nella piazza un’altra porta della casa piu’ grande di tutte; vi era entrato infante di un mese circa …ne sarebbe uscito dopo 16 anni.
Entro’ ed un insieme di sensazioni, odori richiamarono alla sua mente ricordi.
2. In una stanza al piano primo c’era un signore in camice alto ed autoritario nei modi ed una assistente in camice armeggiava con qualcosa in una vaschetta di metallo; a cinque anni gli fecero aprire la bocca, fu tenuto fermo a sedere e con uno strumento strapparono le 2 tonsille . . si ricordo’ dell’urlo strozzato di dolore. del sapore del sangue e poi dopo nel letto a mangiare un gelato dietro l’altro ! la medicina era molto piu’ piacevole della operazione.
Al piano terra, sopra una porta vide una scritta conosciuta bene allora: “Farmacia” entro’ e riconobbe l’odore caratteristico un misto di medicinali, di aromi speziati, di caramelle che era inconfondibile. Farmacia unica del paese, dentro la casa. Era cosi’. Si rivide nelle corse a rubare caramelle d’orzo e di menta (le valda) dai vasi nelle vetrine. Nella stanza dei preparati a curiosare scoprendo che esistevano delle supposte enormi nere che venivano fatte proprio lì dal pratico di farmacia e le domande, senza risposta, a chi potevano servire? (erano supposte vaginali !). E i vasi con le sanguisughe che venivano applicate sulla pelle ed altri medicinali fatti in casa o meglio in farmacia di casa.
Nel retrofarmacia vide una poltrona occupata dal pratico di farmacia e 3 bambini (lui e 2 cuginette) arrampicati sopra che dicevano un numero di novella sempre diverso. E il signore pelato tirava fuori storie incredibili, corrispondenti al numero chiesto. Le storie duravano anche un’ora e portavano in giro in mondi meravigliosi a cavallo della fantasia.
Un suono di campanello prolungato . . ecco era di ora pranzo e tutti arrivano a quel tavolo molto grande: due famiglie: i nonni, il personale della farmacia (la zia farmacista e anche i pratici talvolta). Ridarella dei bambini: lui e le due cugine coetanee che scalciavano sotto il tavolo rimproverati dallo zio burbero. Ecco un’altra stanza ripostiglio con le pareti annerite . . sì i ragazzi riuscirono con una candela a dare fuoco alla stanza; bello il fuoco,…. poi urla, acqua a secchi, scivolone di una signora e rottura di una gamba, scappellotti che volavano e altre divieti per punizione per diversi giorni .
A piano terra ritrova la vecchia porta con i paletti di sicurezza che conduce al giardino da una parte e la scala che va alle cantine; la apre verso il giardino ed all’improvviso si fa notte. Notte calda d’estate con un grande tavolo di pietra rotondo, illuminato da una sola lampada con grandi e piccini a mangiare asparagi, tanti asparagi tutte le sere ( verdura a produzione continua dell’orto di casa) e cocomero fresco tirato su con il cestino dal pozzo. Tavolo illuminato e tutto intorno lucciole nel buio. Tavola completa di racconti del giorno; anche il cane tra i piedi in convalescenza della grande craniata presa a correte sotto l’altalena .
L’uomo affronta il buio del giardino e intravede il viale dove di giorno giocava a palla con un amico (poi divenuto prete e sempre amico ) ed il muro che serviva da compagno di pallone per lunghe partite in solitario. Dopo mezz’ora di queste partite. anche dopo mangiato, si doveva fermare e rimangiare qualcosa per non svenire.
Ancora su nelle stanze le camere di tutti compresa la nonna da parte di madre che prima della buonanotte quasi tutte le sere distribuiva da un vaso sotto chiave le chicche per i bambini che erano stati buoni…
La piazza nel frattempo si era animata come piazza di paese. Lui usci e ritrovo’ il gelataio che con 10 lire vendeva un biscotto con il gelato dentro: il pasticciere che che per 50 lire sfornava bignè alla crema enormi. Il suono dell’arrotino che passava e quello del venditore dei cenci, il lattaio in bicicletta con la misura del latte, gli amici per giocare a palline di vetro e a correre con i carretti di legno……
Dopo poco tempo, nel sogno, la casa che pulsava di vita ed era da essa illuminata . perse suoni e colori . .
La farmacia trasferita per una nuova nel centro del paese, le due famiglie divise, i nonni partiti. Anche la piazza pareva assopita; quando rientrava in casa le stanze vuote risuonavano dei passi, il tavolo grande silenzioso e solitario, nessun suono di campanello. Il tutto pareva grande ma ormai inutile .
Era il momento di chiudere la porta per sempre e passando sulla piazza di aprire altre porte ora che ormai era giovane fatto . Aprì la porta della terza casa
3. Subito nell’ingresso si capiva che l’aria era diversa; una villetta su 2 piani alla fine della città delle terme sempre nel pistoiese, con di fronte campi coltivati . Per l’uomo erano i tempi del liceo: veniva da un paese, passando ad una cittadina termale fiorita e curata; tante nuove attrattive: cinema, locali, corse dei cavalli …ed un modo di vivere la piazza meno paesano, con necessità di farsi nuovi amici. Erano gli anni del liceo e la famiglia ora era ridotta a 4 persone, con sua sorella che cresceva e diventava ragazza con cui discutere come fratello maggiore. Discussioni ed un po’ di contestazione fraterna e di conseguenza anche con il babbo. Poi per il genitore un periodo di sofferenza fisica per una operazione dolorosa con esito per fortuna buono . . Quel genitore che si vedeva in quella casa era diverso per la prima volta; passando da persona energica a fragile e sofferente. Nel letto della casa di cura all’uomo, ancora ragazzo, pareva di dover raccogliere il testimone di capofamiglia . Per fortuna, per diversi anni a venire, non fu cosi’.
L’uomo si chiuse la porta alle spalle ed usci . Si guardo’ intorno nella piazza e trovò quello che cercava: la casa piu’ alta di tutte. Apri’ la porta e subito sentì sul volto uno spiffero
4. Eccola la casa ventosa: al quinto e ultimo piano di un palazzo recente. La nuova casa aveva una terrazza che girava tutto intorno dalla quale si vedeva il panorama della stessa città termale . Nel soggiorno grandi vetrate lasciano passare nelle giornate di vento filetti di aria tipo la grotte del vento sulle Apuane; stessa città termale, stesse amicizie del liceo classico. Nuova invece la passione per la moto arancione ducati scrambler 250 cc. e non molto tempo dopo la conoscenza con altra ragazza che avrebbe poi fatto parte della sua permanenza futura nella piazza. Esperienza vissuta in solitaria la notte memorabile osservata dal Messico: Italia Germania 4-3 nel giugno del 70 con claxon finali, caroselli e bandiere per l’Italia in festa. Da questa casa la partenza estiva per la Sardegna e la conoscenza conseguente della ragazza di cui sopra. La casa ha visto l’impegno finale per la tesi con la camera piccola resa quasi impraticabile dal tecnigrafo giallo a contrappeso . E’ durata non tanto qui la permanenza. Comunque l’uomo entrato qui studente è uscito laureato e da ultimo anche militare in licenza .
5. Per completare il mezzo giro della piazza gli restava l’ultima casa che a prima vista sembrava simile alle altre già visitate ma c’era qualcosa che non gli tornava Comunque si decise ed apri’ la porta; allora comprese. Il muro sulla piazza era solo una facciata. Entrato riconobbe la casa piazzata dietro un cancello in salita con vialetto: casa proporzionata, non enorme, ma completa di giardino e di cane lupo . Casa nuova fatta fare dal babbo ed abitata da loro 2 con la sorella fuori regione per gli studi . Qui l’uomo porto’ per la prima volta la sua ragazza a conoscere i genitori . da qui una mattina di giugno fece lavare la macchina ed ritorno’ a Firenze a sposarsi in una serata bella d’estate dove festeggiarono con le lucciole sulla citta’ e dove la sposa a fine serata sporco’ un poco il bel giardino con conati di vomito per il fresco o l’emozione .
In questa casa la piazza, cioè la vita, ha portato come al solito cose belle e meno belle … la venuta del primo nipote beniamino del nonno e la malattia dello stesso che presto, ancora abbastanza giovane, ha lasciato la famiglia ; in un cassetto della camera ha fatto trovare uno scritto . . poche parole . . aveva capito tutto del suo male e ha indicato su carta le cose alle quali, secondo lui, era necessario dare priorità per rendere la vita degna di essere vissuta . Ha anche lasciato all’uomo per sempre il rimorso di non essergli stato vicino come avrebbe dovuto . Sperando che la storia non continui …
Completato il mezzo giro della piazza e saltata quella piccola dove era entrato il vecchio, restavano le altre 3 case.
6. Entrato nella prima di questo lato capi’ dove si trovava: non era casa dell’uomo ma si direbbe oggi per lui un bed e brekfast gratuito dato dalla abitazione dei suoi suoceri; subito si senti’ a suo agio in queste stanze anche se piene di confusione, di persone anche giovani (figli ed amici) che gravitavano intorno come famiglia della sua ragazza e poi sposa.; la sua suocera ospito’ per quasi un anno durante le settimane di lavoro a Firenze l’uomo con l’attenzione e l’affetto che avrebbe avuto per un figlio; lì si respirava l’aria di gente operosa di un paese nella cintura di Firenze, pragmatico, terragno e pieno di iniziativa; il paese dei telai nelle case e della pecora a tavola a (per la verità quasi mai mangiata). Tutti lavoravano lì, chi studiava, chi insegnava, la suocera ostetrica, il suocero uomo geniale in pensione. La sera anche in quella casa belle tavolate a gustare la cucina romagnola e toscana . Venendo dalla città termale turistica ed elegante il passaggio con il paesone alle porte di Firenze era notevole; l’uomo comunque si adatto’ molto bene a questa mentalità, forse a lui piu’ consona .
L’uomo varco’ l’uscita del muro di cortina e si ritrovo’ nella piazza affollata di persone diverse come diverse erano state le ultime conoscenze di quella casa
In particolare uno zio adulto che ebbe il coraggio di venire con lui e la famiglia (2 auto) in un viaggio di 11000 Km in auto fino a Capo Nord e ritorno a Campi Bisenzio in 21 giorni .
Restavano da aprire altre 2 porte di altrettante case
7. La prima che riguardava una piccola costruzione lo fece entrare direttamente in uno stretto corridoio; era a Firenze e subito odore di chiuso e freddo; sì la casa del freddo . Entrati in due presto diventati in 3 con l’arrivo del primo figlio . Tutto bene a parte la temperatura di 3 inverni senza riscaldamento a causa di ripicche dei padroni di casa che per avere chiesto l’ adeguamento all’equo canone come dovuto chiusero il riscaldamento: il freddo, girando per le tre stanze, assali’ l’uomo e rivide le mattine con i ghiaccioli in cucina e con i fornelli accesi in aiuto alla stufa catalitica; il bimbo con bronchite e asma. Nonostante tutto bella la vita da freschi sposi che tessevano la tela della conoscenza reciproca; in 2 insieme ma ognuno da solo a fare anche altro.
Nuova uscita in piazza nella quale si aggiungevano altre persone. Ultima entrata in una casa
8. Quella aveva da fuori un aspetto famigliare. All’interno immagini e prospettive definite e nitide . . era ed è la casa attuale, casa a piano terra; le mura hanno visto una vita vissuta prima in 3 poi in 4 ed poi ora in 2, con i figli fuori casa di cui una lontana in Francia; da qualche anno per qualche giorno a settimana la casa si anima con 2- 3 nipoti, linfa giovane che fa ringiovanire. . pero’ lo specchio passando la mattina ed anche durante il giorno rimanda immagini improvvise di 2 anziani che si aggirano per casa.
L’uomo veleggia con passo certo nelle stanze e dalle finestre non vede piu’ la piazza ma la prospettiva del giardino; una sola cosa non gli torna: nel ripostiglio senza finestre vede una porta in piu’ sul fondo, alla quale, non sa perché, non riesce ad avvicinarsi mentre una sensazione di pericolo e di malessere lo blocca .
Decide quindi di uscire dalla entrata ed ecco riappare la piazza che gli infonde sicurezza ….
Una volta fuori un attimo e vede avvicinarsi il vecchio che lo aveva salutato all’inizio “ ha fatto buoni pensieri signore ?“ gli domanda il vecchio
“ strani “ risponde l’uomo “strani e farciti di ricordi del passato “
“credo che abbia avuto paura nella ultima casa per quella porta. Non abbia paura. anzi meglio: un po’ di paura è normale averla ma non terrore; quando sarà il momento cerchi di aprirla onestamente come spero abbia vissuto e la apra anche se non si sa cosa si trova fuori . . ”
E si allontano’ di buon passo come era arrivato .
L’uomo subito dopo si sveglio’ disorientato; si guardo’ intorno e non vide piu’ nulla ne’ le case, ne’ la piazza, solo campagna a perdita d’occhio. Allora ritrovata la carta, cerco’ la direzione per tornare verso casa e s’incammino’. Mentre tornava un pensiero: arrivato a casa, senza farsi notare, avrebbe cercato nel ripostiglio se c’era la seconda porta . Non si sa mai cosa ci riservano le case .
Ho voglia di salire ancora una volta sul treno e pensare a una mia storia che è quasi un segreto Mi piace ricordare i momenti in cui ho avuto coraggio I momenti in cui ho detto “me ne vado” devo realizzare un desiderio, non un sogno, un desiderio All’età di sedici anni stavo con un ragazzo biondo, occhi azzurri Non era bellissimo Era straordinariamente simpatico Credo di non essere mai stata innamorata di lui ma sicuramente è il ragazzo che mi ha fatto più ridere In quel periodo era la cosa di cui avevo più bisogno Era leggero e gentile, positivo e sorridente Con lui mi sono lasciata andare a mille scoperte del mio e del suo corpo Era facile, era semplice, mi sentivo al riparo da ogni giudizio Forse anche lui non era veramente innamorato di me, io sicuramente non lo ero Era bellissimo stare con lui Non abbiamo mai fatto l’amore Aveva un motorino azzurro cielo con il quale veniva a prendermi all’uscita da scuola Un battito d’ali, un volo e via Tutti i giardini di Firenze ci hanno visti insieme Così passo’ quasi un anno …poi “Ciao Lucia, devo andare, la mia famiglia si trasferisce, tornerò a prenderti con una due cavalli a fiori” Passarono gli anni e nuovi incontri ma non vidi mai una due cavalli fiorita Fu così che decisi Un treno mi portò da lui attraversando più di mezza Italia Non ricordo parole ma solo una stanza bianca e vuota al centro della città vecchia Non avevamo bisogno di altro Ripartii dopo poche ore ripercorrendo da sud a nord l’Italia L’incompiuto era compiuto Lui è mio amico da più di mezzo secolo.
Un amico me lo presentò un giorno d’autunno
Capelli lisci fino alle spalle
Un volto particolare
Non assomigliava a nessuno
A Firenze dalla Svizzera con la sua moto nera un po’ vintage
Era qui di passaggio
Il tempo per una silenziosa passeggiata
Camminammo nei campi tra le viti e gli olivi
Gli mostrai il mio mondo, la mia vita, il mio spazio
Senza parole gli dissi chi ero e da dove venivo
Sentivo che le parole non avevano senso e che ben altri modi di comunicare ci univano
Un gennaio qualunque, un po’ pioveva, un po’ no, ventate gelide cercavano di infilarsi tra vetro e legno, infissi sconnessi, in quella casa….ero nata lì, vivevo lì, da un innumerevole tempo di giorni.
Il riscaldamento, spento o quasi, freddo sì avevo freddo, nascondevo le mani nella manica sbrendolate di un golf informe, la tazza di caffelatte sul tavolo mi confortava, pur non risolvendo. Dopo il mio “ piccolo incidente” il medico mi aveva dato solo tre giorni di malattia, vigliacco lui, stupida io.
La vecchia poltrona Frau, mi proteggeva accogliendomi, eravamo simili, lei ed io, sbucciate, graffiate! Leggevo, un qualcosa che non ricordo… troppo ieri per la mia mente di oggi, la radio gracchiava canzoni, ripensandoci meglio, vedo l’immagine di una me che poco ricordo, o non voglio ricordare so per certo che non sempre mi piacevo, altalenante come ero, tra esserci e sparire mi sentivo poco intelligente, poco intraprendente….poco di poco, vivevo nel passato/babbo, mal sopportando un presente/mamma.
Lui così “me” da farmi credere morta con lui…lei così: sempre forte, sempre sorridente, sempre tragicamente da un’ altra parte, gareggiavamo a farcela, guerra dura, mai vinto una battaglia… io…lei era piena di medaglie al valore. ..
Generale sopra la collina….
Nessuno suonò, ma nel silenzio avvertii un graffiare, la porta di casa sembrava preda, vecchio portone, di carezze forti, piccoli colpi, struscìo di mani…forse solo il vento, oppure il nulla. Immaginazione, allucinazione?
Tutto questo vi sembrerà uno strano cappello, forse un basco pesante, è, invece, un colbacco , per proteggermi dal freddo dalla lunga descrizione del nulla o quasi, ma come non “ fotografare” il luogo, lo stato d’ animo di un attimo lungo, di un sogno, di una realtà apparente, di una verità ingigantita dall’ amore per chi tragicamente mi ha lasciata, un giorno, senza un perché…..spiegarmi allora che certe malattie sono inesorabili, era stato impossibile.
Più mi avvicinavo, più il rumore si faceva insistente, accompagnato da un leggero ansimare, un respirare forte.
Diffidente, spiai, dalla finestrella del ripostiglio che dava sulle scale: guardare senza esser visti, già…
Quanti strani nascondigli aveva quella casa, quanti metri di corridoio dividevano la solitudine, dallo stare insieme, il fischio del treno, dal silenzio del giardino….
Cercai di aggiustarmi fuori, dentro avevo il cuore al posto dello stomaco, i polmoni non avevano più ragione di essere tali… dopo l’ospedale era arrivato il premio.!!! Sapendolo ci avrei provato prima.
Il babbo, il mio babbo, era tornato da un posto sconosciuto che forse non c’ è , era tornato da me, solo per me.
Aprii:
era alto, era bello, forse un po’ più magro, meno abbronzato, il sole aveva ceduto il passo alla luna, era stato, credo troppo al buio, i capelli cenere più bianchi sulle tempie lo identificavano come una me di oggi.
Ci prendemmo per mano…riconoscendoci dall’odore, dal sapore dello sguardo, dai profumi conosciuti per sempre in anni migliori, diversi, unici irripetibili
Smise di piovere e forse non aveva mai piovuto…e lo avevo dimenticato, un sole bianco ci accompagnò lungo l’ andito…eravamo magicamente insieme.
La poltrona ci accolse stretti: sentivo forte l’ odore di Turmac, mescolato al suo profumo di sempre, mi scoprii così felice, ubriaca di un amore, che così non l’ho vissuto mai.
Facemmo il gioco delle parole, mi sentivo bimba ..ed io, bimba non lo ero più da un pezzo. Continuammo un gioco interrotto anni prima, era bastato uno sguardo per iniziare la nostra buffa cantilena, la morte non ci aveva separati, anzi uniti ancora di più, fusi… per sempre…e…
Rosso
Sole
Luna
Cammino con la testa in su
Cadi!
Mi riprendi?
Acqua
Pesce piccolo
Balena blu
Nuvole…cerise
Non ci stancavamo mai del nostro strano dialogo, lo facevamo in macchina, tu guidavi cantando, io una voce così non l’ ho sentita più, era la tua voce per me, sapeva di : io ci sono.
Anche adesso che son molto grande, direi vecchia, nei momenti di rabbia, cerco una voce maschile, senza strappi come la tua, per lenire una ferita mai guarita, metto cerotti che al primo urto, si staccano, il sangue esce, sempre meno rosso, sempre più copioso.
Non ebbi il coraggio di chiederti da dove eri venuto, perché tu fossi riapparso , ero così felice, sicura che non fossi morto, la mamma aveva mentito, donna bugìosa, lui era magicamente con me! Quindi??
Volevo mettere alla prova la nostra memoria, corsi in cucina afferrai la grassa fetta di pane, avresti ricordato? Erano passati, 8…9 anni?
Sorrise, non rideva molto lui, sorridevamo insieme e solo di noi, di cose che gli altri non capivano parlavamo un’altra lingua. La nostra.
Prese il pane, separò la mollica dalla crosta e fu “incanto” come sempre: l’ isola morbida per me, la parte più dura per lui. Crosta e mollica: noi
Era tutto come sempre, le pesche gialle nel vino….le ricordammo ancora una volta. Detestavo il vino ma amavo te.
Strano non parlasti, tanto quel giorno, mi accarezzavi il capo, lentamente, quasi a voler fermare il tempo tra le dita, cercavi una treccia, che non c’era più…eppure io non l ‘ho tagliata mai.
Ma quante volte mi hai pettinata? Trecce fatte bene, le tue, mica quelle della mamma…
È quando mi accompagnasti a scuola e quella bamberucola scema mi domandò se eri il mio nonno…
L’ ho odiata, l’ odio ancora, ma forse è morta…e da tempo.
Preparai il caffè, una tazzina sola in due, macchiato freddo, vero babbo? Senza zucchero, sempre. Bevevo dove tu avevi bevuto, bocche poco pronunciate le nostre, il labbro superiore, poco evidente, uguali.
“Mi spiace non ho i nostri biscotti, quei wafer rotti che compravi a peso, con un sacchettino piccolo solo per me, da non dividere con gli altri”
Ma c’ erano gli altri, babbo?
Pensò ripenso, ho vissuto 10 anni solo con te, ti ho perso ed ora ritrovato, sei qui.
Sentivo il tempo che volava, un tempo breve, lo capivo, quel salotto chippendale mi avrebbe ritrovata sola…ferma il tempo, babbo, fermalo, fa qualcosa. Ti prego
Ma ti ricordi quando facevo finta di leggere, di scrivere? Tu ascoltavi decifrando i miei punti, le linee storte, che per me erano lettere. Sapevi leggere quello che non avevo scritto poi leggevo io ed anche quando ho imparato a farlo, l’ ho fatto male ma poco importava. Il mio con te era tempo bello, il tuo per me tempo poco.
A scuola, io, poco, conoscevo colori, piccoli bar, canzoni belle, chilometri di strada, campionari tavolozza
Quante ore in quel lettone magico, in quella stanza immensa, piena di non ordine, quel comodino pesante di medicine, quell’ odore perenne di tabacco buono, di schiuma da barba, di caffè, di te e di me, forse noi vivevamo li?
Il tuo stare male era intervallato dal nostro girovagare: Toscana un po’ nascosta di artigiani attenti, gente che cuciva, maestri di ago e filo, forbici d’oro.
Bemberg si bemberg …ridevo a quella parola, ridevano insieme, fodera seduttiva al tatto, mi abbagliava. BEMBERG , lo adoravo, ero affascinata dal bleu cangiante.
Per riportare tutto ad oggi, ripenso al silenzio, in quel freddo giorno di gennaio, nonostante il mio fiume in piena, di cose, parole, ricordi semplici, mai lacrime, solo quello stringersi di mani, che a tratti erano marmo, forti, a volte schiuma, più spesso miele….dolce da annusare.
Eri babbo, il mio.
Marito bello per lei!
Figlio premuroso per una donna cattiva
Padre sportivo per i miei fratelli!
Traduttore utile in una guerra lunga e cattiva, che non ho conosciuto, ma vissuta anche troppo.
Tornavo sempre più indietro con la memoria, in quel pomeriggio uggioso:
ed i sandalini pieni di sabbia? E la giardinetta un po’ marroncina? prima della 1100 grigia, in una Sorrento lontana , dimenticata forse, ma risento il rumore del mare, rivedo il secchiello, la paletta, le formine, tu con il costume nero, io rosso…di lana come gli anni 50 imponevano.
Se ti dovessi dare un colore, sarebbe il blu, dalle mille sfumature, dall’azzurro pallido, al cobalto, al manganese….blu le tue cravatte, azzurre le tue camicie, oro e bleu i tuoi gemelli, bleu notte le tue giacche di panno, bleu Prussia quella estiva, che in macchina toglievi perché si ciancicava, un’ altra delle parole che ci faceva ridere….cercavamo sinonimi…attenti piú alle risate, che alla parola.
..e quel segno dell’ orologio al polso sinistro, quando lo toglievi, mimavo io l’ora, con le braccia, tu capivi ed eri l’ unico…unico..
Ed ora? Ora ti vedo alzare lentamente dalla poltrona/cuccia rifugio, di un gennaio quasi inutile.!
Con una voce morbida e calda mi dici che devi, che devi rientrare, stupidamente mi domando dove…rendendoti la caramella di menta ciucciata, perché tu possa finirla, la chiamavamo la “mementa” succhiandola fino alla fine, un po’ io un po’ te, ci piaceva farlo davanti agli altri, per cercare di far capire che noi non eravamo due ma uno….
Ti allontani, non ti tolgo gli occhi di dosso, cerco di afferrarti, ma non ti raggiungo, in quel corridoio troppo largo troppo lungo! la porta è chiusa eppure sento passi scendere gradini, quei gradini di pietra serena grigio cenere che facevamo, due a due, in un’altra vita, corro alla finestra, nessuno per strada…
Forse ho sognato, forse ho sperato, forse sei tornato solo per poco, per farmi coraggio, con un’ ultima carezza che ti hanno impedito di darmi. Grazie per essere tornato a portarmela.
Ed anche oggi che è un febbraio qualunque…che fa un po’ freddo ed un po’ no, un po’ piove un po’ si, io ti aspetto, ti riconoscerò…..mi riconoscerai, tu sei me…. io te.
La casa della mia infanzia è stata quella dove ho vissuto fino a 15 anni, ma per la mamma era quella “del cuore” perchè lì aveva vissuto la “ sua gioventù”. Era stata costruita dal suo babbo e dal fratello , che purtroppo morì giovanissimo. In casa ne parlavano spesso di questo bel ragazzo con bei riccioli neri, sempre allegro e giocoso. Sembra che una volta in centro avesse trovato una zingara che gli avesse letto la mano, gli predisse che all’età di ventuno anni sarebbe morto. Con il suo modo scherzoso lo raccontò alla nonna, e naturalmente nessuno prese sul serio questa previsione…. ed invece fu proprio così. Per questo quando vedo gli zingari li evito e da sempre mi fanno paura. Era una villettina a tre piani, in tempo di guerra il nonno l’aveva circondata con sacchi di terra e, tutte le volte che gli aerei sganciavano le bombe, si rifugiavano nel sottosuolo sperando di sopravvivere. Quando poi tornava la calma momentanea, uscivano in giardino a vedere…. la casa anche quella volta per fortuna era rimasta in piedi.
Arrivò il momento che la mamma e la zia si dovevano sposare, fu divisa in tre appartamenti, è li che ho trascorso la mia infanzia.
Un’infanzia spensierata, nessuno ci portava ai giardini, macchine ne passavano poche e così in estate noi ragazzi si giocava fuori a nascondino, a campana a color color, giochi semplici ma l’importante era stare insieme. Il gioco preferito mattutino era dare noia al postino. Appena lo vedevo in lontananza andavo a chiedergli se aveva posta per me e, se non aveva niente, lo seguivo finchè non si allontanava troppo. Anche a scuola iniziai presto ad andare da sola perchè non era troppo lontano, anche se c’erano da attraversare due strade.
Gli inverni erano freddi, il riscaldamento non c’era, qualche stufa elettrica ma faceva poco. La sera ne approfittavo per andare nel lettone con il babbo, si mettevano i piedi sullo scaldino, lui mi diceva che ero la sua “stufina”. Spesso mi divertivo a fargli qualche dispettuccio, mi brontolava, ma si capiva che sotto sotto gli faceva piacere.
Un’estate arrivò anche una bella bicicletta rossa, e quella mi fece sentire l’odore della libertà. Nonostante le raccomandazioni di non allontanarsi da casa, in estate andavamo sull’Arno ai massi e facevamo le traversate da sponda a sponda e spesso succedeva che si cascava dentro e tornare a casa tutti bagnati voleva dire guadagnarsi una bella punizione.
All’età di quindici anni circa andai ad abitare in una casa con tutti i confort riscaldamento, acqua calda dal rubinetto, camerina tutta per me, ma il mio cuore era sempre nell’altra casa. Lì avevo lasciato le mie amicizie e ricordo ancora quando, tornando da scuola, trovai la casa vuota, andai in terrazza ed iniziarono a cadere le lacrime e non riuscivo a fermarle, mi vergognavo della mia fragilità.
Quello per me fu uno dei primi dispiaceri. Con il passare del tempo trovai nuove amicizie, ma non ho mai abbandonato le altre, ho continuato ad andarci per molti anni.
E’ stata una casa di passaggio, ma non per questo meno importante, perchè lì ho lasciato i miei genitori quando ho avuto la mia casa e lì hanno finito i loro giorni.
Nella mia casa ci sono i ricordi della mia famiglia. E’ un appartamento luminoso, comodo e spazioso, arredata come ci piaceva e ci siamo stati bene, purtroppo per poco tempo. Ricordo il giorno che tornammo a casa dall’ospedale con quel fagottino, con tanti dubbi e paure di non essere all’altezza di fare i genitori. Tutte le sere prima di metterla a letto si inventava qualche gioco ed era bello sentire la sua vocina, le sue risate e si dimenticava anche la stanchezza di tutta la giornata. Tutti i traguardi di crescita li ha fatti qui. Le belle serate trascorse in compagnia di amici con musica, cibo, vino e tanta allegria. Poi qualcosa si è rotto ed è arrivato il buio completo, la disperazione, la paura. . Mi sentivo abbandonata e sola, ma non potevo mollare tutto e tutti, quindi mi sono fatta coraggio e a tentoni sono andata avanti. Non è stato facile non potersi confrontare con qualcuno che aveva le mie stesse priorità, ed anche le cose positive di questi anni non sono state vissute come dovevano perché quando manca qualcuno di importante ogni evento rimane sottotono.
Neva, Iolanda, Candida, Dilia, Manola, sembrano i nomi delle protagoniste di Liala e invece sono alcune mie zie che mi tenevano il pomeriggio a turno perché la mamma era sempre in quella benedetta bottega. Io stavo con loro buona buona, un po’ per non “dare noia” un po’ per non far fare brutta figura alla mamma. Già…i doveri…fin da allora cominciavo a metterli nelle tasche come sassolini che nel tempo hanno finito per pesare parecchio. Ma allora non lo sapevo, semplicemente li respiravo. Zitta zitta giocavo da sola con fili e bottoni dalla zia Marcella, sarta da uomo in casa, o vestivo da principessa una bambolina dalla zia Marisa, camiciaia, che mi regalava scampolini di scarti. Dalla zia Ernestina invece intrecciavo fili da ricamo di tanti colori mentre lei si finiva gli occhi su camicie e corredi altrui. Forse viene da quei pomeriggi la mia propensione ad ascoltare anziché a parlare, quel cercare di sparire che troppe volte mi ha resa incolore. E intanto le zie mi parlavano, quasi tra sé e sé, ma io ricordo solo delle frasi, spezzoni di discorsi: “studia, mi raccomando studia, così nessuno ti potrà infruscolare la testa”, “innamorati, ma mai di una divisa perché l’uomo che c’è dentro lo scopri dopo”, “viaggia piccina, vai a vedere le cose belle che dentro quattro mura non ci possono stare”. Inconsapevolmente mi raccontavate i vostri desideri frustrati, le aspettative deluse, le speranze disattese: mi volevate mettere in guardia e se non ci siete riuscite del tutto è perché nessuno può farlo ma a volte le vostre aspirazioni schiacciate e poi dimenticate mi hanno dato una spinta propulsiva. Poi sono cresciuta, non avevo più bisogno, anzi le superiori gli amici il motorino mi spingevano via a mordere la vita, verso il futuro. Care zie, avrei dovuto scrivere di me e invece ho un po’ raccontato di voi, ma è inevitabile perché gli strati di cui sono fatta hanno anche i vostri colori e se non mi riesce bene definirmi è perché tutte le mie sfaccettature riflettono anche le vostre luci. Vi penso con tenerezza e credo che sia grazie a voi che ho un’alta opinione delle donne, tutte, per questo mi arrabbio tanto quando siamo in competizione fra noi anziché essere solidali. Ziette care, forse un giorno proverò a scrivere la vostra storia, di ognuna la sua, perché non trovo altro mezzo per dirvi grazie che raccontarvi.
Genova per noi, uno spicchio di luna adagiato sul mare.
Genova per noi, la fine di un viaggio che, quando ero bambina, durava una intera giornata. L’autostrada finiva alle Bocche di Magra e allora su, curva dopo curva, costretti ad inerpicarci fino al Passo del Bracco. Curve a esse, strette e insidiose che non ci abbandonavano nemmeno nella discesa verso Sestri Levante. Con un camion davanti, il viaggio diventava una vera Odissea!
Genova la assaporavi prima di arrivarci, passando lungo il mare. Finalmente, lassu’ il Righi e i Forti e te la ritrovavi davanti, attorno, sopra, sotto, dietro. Ovunque, stretta fra monti dai pendii scoscesi e il mare azzurro. Una visione.
Ci resto ancora male quando qualcuno la bolla con un lapidario “è brutta”. Ma posso capire, bisogna entrarci nelle pieghe di una città così.
Non fermarsi alla prima impressione. Occorre viverla anche per pochi giorni girando nei luoghi che le hanno valso l’appellativo di Superba. Miseria e nobiltà la attraversano e la segnano, ma il suo “Superba” lo veste con orgoglio da secoli. Superba ma non scontrosa se sai toccare i tasti che valgono e scoprire gli angoli giusti. O se hai avuto la fortuna di poterla osservare seguendo le leggi del cuore e degli affetti, nello scorrere del tempo che ha accompagnato il mio viaggio fino a quella che sono adesso.
Genova per me, le vacanze lunghe passate a casa dei parenti, cibi e profumi diversi da quelli che abitualmente la nonna cucinava a casa, a Firenze a segnare quella linea fra unita’ e diversita’ che attraversa questo paese bello, ricco e un po’ dannato!
Genova per me quella del Porto Vecchio da cui partivano i “Vapori” prima delle immense navi da crociera di oggi, quella delle piccole trattorie e delle mescite di vino verso cui si affrettavano i marinai, quella dei vicoli “I Caruggi”, delle puttane cantate da De André che potevi vedere lungo tutta via Pré anche di pomeriggio.
Una sequenza di donne truccatissime e scollacciate. eccessivamente ammiccanti, con spacchi fin troppo generosi da cui talvolta si intravedevano calze smagliate. In piedi vicino
a porte scortecciate palese invito ad una lussuria stracciona e frettolosa, da pochi sghei. Stavano lì, in attesa spesso di chi non sarebbe venuto. I papponi erano riconoscibili per come le tenevano d’occhio dai bar poco distanti. La Genova dei grandi cantautori, in una stagione di parole bellissime che sapevano di poesia, ha saputo raccontare anche loro. Con grande umanità e senza censure bigotte.
Bocca di Rosa una vera opera d’arte per musica e versi. e una bandiera contro le ipocrisie di bacchettoni e benpensanti.
Genova dalle belle colline e dai palazzi abitati dai ricchi storici, quelli che la città la guardavano da sopra in giù, ritirati in strade secondarie, pressoché private per non subire l’aggressività e i rumori del traffico che passava lontano quanto basta per non disturbarli.
La zia di mia mamma, Rosetta, faceva la portinaia in uno di questi palazzoni ottocenteschi. Nomi illustri sui campanelli. Ma io, bambina, ero attratta solo dalla targhetta dorata col nome Dufour inciso sopra. Non tanto per loro che non ho visto mai, ma per le loro caramelle, gommose e non. Guardando la targhetta al portone, mi sembrava di sentire lo sfrigolio di quelle cartine lucide e colorate miste al profumo di caramella. Il pensiero andava a quel loro cuore molle e dolcissimo e l’acquolina in bocca era assicurata.
Quei palazzi li ho potuti osservare da sotto in su. Non sono mai salita ai piani alti, quelli degli appartamenti con vista mare sempre inondati di sole e di gran luce anche nelle giornate grige.
Nella casa degli zii la luce era quella delle lampade accese tutto il giorno . Il sole non ce la faceva a scendere i 6 piani per arrivare fino a lì.
Genova e la sua Lanterna, i suoi Forti a protezione costruiti su arditi pendii, i suoi abitanti, i suoi lavoratori.
La Genova dei miei ricordi è la storia della sua operosità. le grandi fabbriche come la San Giorgio che produceva elettrodomestici, l’Italsider, e i loro operai combattivi. Come lo erano i “Camalli” del porto. ,
Di poche parole ma di gran coraggio, maestria e capacità, la classe operaia genovese.
Uno degli zii, di mia mamma, lavorava come falegname sulle navi da crociera. Artista del legno si dedicava agli arredi interni. Non ha mai fatto una crociera in vita sua, ma cabine e tanto altro erano il prodotto della sua maestria. Era uso raccontare con gli occhi più che con le parole il bello che aveva prodotto col suo ingegno e con le sue mani.
Genova della Resistenza, quella che prese di sorpresa i tedeschi anticipando di due giorni al 23 aprile 1945, l’insurrezione e la battaglia finale contro l’oppressione nazifascista.
Genova Medaglia d’oro al valor militare che vide un generale come Meinhold costretto a firmare la resa e a consegnarla nelle mani di un operaio empolese, Remo Scappini, a capo del CLN a Genova.
Genova dei ragazzi con le magliette a righe del luglio del 1960 che tennero sottoscacco per giorni le forze di polizia. Non solo contro la possibilita’ di far tenere il congresso del Movimento sociale, ma per rompere il clima che si era creato e il tentativo di far rientrare in gioco a sostegno del governo il partito neofascista.
Genova della difesa della democrazia nel buio degli anni di piombo, quando con l’assassinio di Guido Rossa fu chiaro a tutti che chi sparava non erano “compagni che sbagliavano”, erano assassini che andavano fermati e messi in condizione di non nuocere. Genova composta, in un giorno cupo di pioggia e di lacrime, con la forza della ragione fu un punto di svolta. Non passeranno, grido’ muta allora. E non sono passati.
Genova del boom economico tradotto in edilizia sconsiderata. Case lavatrici, colline sventrate, occupazione esagerata del pochissimo suolo disponibile, gli alvei di fiumi, inesistenti per lo più, coperti per farci strade e giardini. Strisce di asfalto sotto e sopra le case e la citta’, l’intreccio delle autostrade a contorno che la segnano, la oltraggiano osando violare in molti punti l’intimità stessa delle abitazioni. Quasi ci si può vedere dentro :scorci di salotti, di camere da letto, di soffitti mentre corri verso Milano o Torino, o più in là verso la Francia .
Genova delle ville dei nuovi ricchi spesso cresciuti con lo sbrego urbanistico della città e lo sfascio delle colline.
Il quartiere di Albaro ne è pieno con i loro parchi, i loro giardini, i muri che ne celano la vista a chi passa per il lungo mare di Corso Italia. Al tempo della mia Genova da adolescente, era già, da quelle parti il tempo dei festini da rampolli della Genova bene spesso conditi da fumo, alcol e pure qualcosa di più, ma di qualità. Loro se lo potevano permettere.
In un assolato 21 luglio 2001 Genova fu quella del G 8, delle manifestazioni colorate e festose e delle provocazioni della polizia . Genova dell’assassinio di Carlo Giuliani, ragazzo. Genova della scuola Diaz e delle torture di Bolzaneto che costrinsero Amnesty a definire quelle giornate come “la più grave violazione della democrazia in un paese democratico”.
Per me che c’ero una ferita che c’è voluto tempo a rimarginare. Anche perché all’inizio la copertura mediatica aveva creato una distorsione dei fatti tali che chi era presente non veniva ascoltato come portatore di verità. Ci volle una lunga settimana prima che ciò che si era voluto nascondere venisse doverosamente a galla.
La mia Genova è un insieme di tessere di mosaico che sono scampoli di vita, di sentimenti, di grande amore.
L’ultimo ad affiorare in ordine di tempo, il ricordo della Genova delle Ville circondate dai grandi parchi aperti al pubblico. Villa Imperiale mi ha visto bambina. Ricca di fiori dai colori sgargianti e di una vegetazione rigogliosa in ogni stagione, con piante che spesso avevano fatto il giro del mondo per arrivare fin lì da paesi lontanissimi.
C’è voluta Istanbul e un angolo di vero paradiso come Ilahmur Kasri palazzotto neoclassico ricco di fregi e ornamenti. Di fronte un piccolo lago, con i suoi cigni e pavoni, erba verde e tulipani per far riaffiorare Villa Imperiale nei miei ricordi. In un attimo anche lo sguardo protettivo della zia Elena era su di me, me lo sentivo addosso.
Credo non sia un caso vista la storia che ha unito Istanbul a Genova, fatta non solo di commerci e di attracchi per le navi di allora cariche di spezie e di merci esotiche.
La sorte dell’esangue Impero Romano d’Oriente vide protagonista il Protettore genovese di stanza a Galata e Pera sulla collina, di fronte al palazzo del Sultano. Fu l’alleanza dei genovesi con gli ottomani a segnarne la fine.
Una porzione di storia surclassata dall’epopea colombiana e dalla scoperta di un nuovo continente mentre si cercava una rotta per arrivare agli Indiani veri, quelli dellIndia.
Della Genova regina dei mari e del suo spirito levantino restano i nomi di molte strade, e anche tracce nel dialetto. Tracce che solo pochi inseguono . Mia mamma era uno di quei pochi. Quante volte le ho sentito dire con fierezza mista a curiosità e stupore, che il fazzoletto da naso “u mandillu” in dialetto era di derivazione araba (mandil), come altre parole che adesso non ricordo. A distanza di anni è toccato a me scoprire che “mendil” è la versione turca. Mondo piccolo, grandi e benefici intrecci anche nei linguaggi.
Hal ha preso il comando della nave spaziale e, invece di giocare con il Cubo di Rubik, si diverte a far girare nella nave alla deriva nello spazio una sfera pesante, piena di piccole sfere che si uniscono in strane forme, ma priva di qualsiasi presagio di futuro possibile. Se sei alla deriva nello spazio siderale, un elaboratore di dati ha preso il comando, che futuro mai potrebbe esserci. Guardandola da vicino quell’ammasso di piccole altre sfere rivela il suo segreto. Altro non sono che quel che resta degli astronauti, della missione del 2001,in versione lillipuziana, stretti stretti quasi a proteggersi dalla catastrofe incombente. Hal impazzito e in rivolta, con l’intelligenza artificiale ancora di là da venire, avevano creduto di poter trovare riparo, miniaturizzati, in quella bella sfera. Forma perfetta e piena di significati fino dalla notte dei tempi. Ne son state fatte migliaia di copie. Nessuna veramente uguale all’originale che nessuno sa che fine abbia fatto. Ormai le vendono sulle bancarelle di un mercatino nel Mare della Tranquillità. La Luna è abitata da qualche decennio. Bezos e Elon Musk ci hanno piantato le loro bandierine e parecchie delle loro attività, di cui si occupano da anni ormai i loro discendenti. Le vendite non hanno preso gran quota, ma il tecnocapitalismo intanto ha occupato spazi, sapendo che i compratori prima o poi sarebbero arrivati. Una mantiglia rossa fluttua accanto alle bancarelle. Nel vuoto avrebbe dovuto essere impossibile. Ma dei bambini cinesi in una scuola, nel 2024,si erano fatti venir l’idea che la missione Chang’e-7 avrebbe dovuto portare bandiere in grado di sventolare. Da quell’idea al piano di realizzazione il passo era stato breve. Gli astronauti cinesi nel 2026 avevano così potuto piantare bandiere sventolanti. Tessuti speciali che erano serviti anche per altro, non solo a fabbricar bandiere. Ai rampolli dei supermiliardari a stelle e strisce che vendevano sfere di vetro taroccate nelle loro bancarelle, non restava che guardare con grande invidia quel prodotto di altissima tecnologia . Che rabbia vedere quel pezzo di stoffa rossa, della consistenza di una piuma, che si insinua fra una bancarella e l’altra mentre le bandierine fin troppo vicine, sventolano garrule. Ai rampolli fin troppo eccitati, per l’eccesso di sostanze che si fumano, sembrano tanti diti medi puntati verso l’alto. Forse in quella scuola del lontano oriente quei ragazzi cinesi con gli occhi a mandorla e il cervello finissimo, per quello scopo le avevano pensate. Una grassa signora con un cappello da cow girl scesa da una navicella che fa la spola giornaliera Terra/Luna, senza guardare dalla parte delle bandiere, punta dritta verso le bancarelle per agguantare quel pezzo di stoffa rossa che si muove con l’effetto di una piccola aurora boreale in contrasto con il nero che avvolge tutto. Ce la fa prima che la signora tutta in ghingheri scesa dopo di lei possa avere il tempo di vederla. La Cow girl la agita come un trofeo. Che brutta sorte per un pezzo di stoffa pregiata e frutto di studi e di altissima tecnologia, sparire in mezzo a quelle manone abituate a ferrare cavalli e a mungere mucche. Non sa che farsene, non sa cosa sia stata un tempo, o a cosa sia servita. Non sa nemmeno se tornata sulla Terra resterà la stessa o si dissolverà come neve al sole. Quel che conta per lei è il fatto di averla acchiappata per prima. Dopo aver speso 50mila dollari per quel viaggio tornare a mani vuote, nella sua fattoria nel Texas, non sarebbe stato assolutamente da prendere in considerazione. Lì accanto le bandierine rosse sventolano sconsolate. I tempi sono cambiati, loro sempre più sotto scacco, come raccontano quelle ridicole bancarelle, ma non hanno ancora perso il vizio. Sono gli stessi arraffatori di sempre.
Siamo in inverno, il tempo è spesso variabile con molta pioggia, non è facile fare programmi di attività all’aperto.
Da diversi giorni guardo la mia bicicletta con la voglia di fare una bella sgambettata. Chissà se la batteria è ancora buona, col tempo si deteriorano e diminuiscono di potenza. Ho cercato di ricaricarla periodicamente, con l’intenzione di usarla ma per qualche motivo i programmi sono andati a vuoto. Senza queste diavolerie moderne da tempo avrei dovuto rinunciare alla bicicletta, le gambe per fare le salite impegnative non le ho più.
Invece, con la pedalata assistita, sono potuta scorrazzare per la città, arrivando fino a porta a Prato con livelli di carica accettabili. Certo, a volte mi è toccato fare gli ultimi metri con la pedalata normale perché avevo calcolato male il livello, non mi sono però disarmata, arrivando a casa con il fiatone.
Nella mia vita, ho sempre avuto una bicicletta e così anche i miei familiari, certo quelle dei miei fratelli maschi si riconoscevano subito e difficilmente veniva voglia di usarle.
Quella che la mia mamma ha usato sempre era ben attrezzata e efficiente.
Quanto si arrabbiava però trovandola sgonfia o con la ruota bucata, dopo che i ragazzi l’avevano in malo modo sbatacchiata per le varie evoluzioni con i coetanei. Lei, la usava ogni giorno, raggiungeva anche il mercato di SANT’AMROGIO per la spesa della numerosa famiglia portando tanti chili di frutta e rientrando da una strada molto in salita. Le sue scorte si esaurivano con una velocità incredibile visto l’appetito di noi cinque figli.
La mia prima bicicletta mi è stata regalata in seconda media, così potevo andare a scuola più velocemente visto che era molto lontana. Mi sentivo molto libera sul mio velocipede, andavo dalle amiche e a fare acquisti.
Quando mi sono sposata e sono andata ad abitare a BAGNO A RIPOLI Capoluogo, territorio tutto in pianura e collegato a Firenze con poco tempo di percorrenza, la bicicletta era il mio mezzo di spostamento privilegiato.
Andavo al lavoro, a fare la spesa, a fare i giretti in città.
La bicicletta blu è diventata a tre posti quando sono nati i miei figli, il piccolo davanti nel seggiolino con le gambe penzoloni, la grande dietro su un sedile anatomico dove si divertiva a dondolare le gambe facendomi perdere stabilità.
Non so proprio come sia successo ma, un bel giorno, la bici blù è sparita.
Quando sono andata a vivere in collina non ho più pensato a muovermi con quel mezzo.
Sono arrivate le bici elettriche e ho ripreso coraggio acquistandone una.
La mia, oggi è antiquata, molto pesante e poco potente, ce ne sono adesso alcune che sono un portento ma io mi devo accontentare perché il traffico della città è aumentato creando insicurezza per i ciclisti nonostante le piste apposite.
Aspetto che sia terminata la nuova pista che porta al paese vicino al mio consentendomi di fare un po’ di strada pedalando, per provare quella ebrezza di libertà propria della bicicletta.
I ricordi sono parte della vita e spesso custoditi con cura nella mente e nel cuore perché non vengano mai dimenticati. Così in certi momenti, quando sono sola e magari in un luogo particolarmente suggestivo, mi ritrovo a isolarmi dal resto del mondo e vivere un momento magico, unico, in una realtà leggera, vuota e nello stesso tempo traboccante di mistero.
In certi momenti c’è bisogno di una pausa, c’è bisogno di sgombrare la mente e cedere a un ricordo che arriva così, quando meno te lo aspetti. Mi sono trovata, nel vedere l’icona posta sull’ultimo scalino della Pieve di Romena illuminata da un raggio di sole, ad osservare in quel pulviscolo d’oro, i contorni del tuo giovane viso ed ho ripensato a quanto poteva essere stato bello averti avuto ancora con me, con noi.
Eri così allegra, piena di vita, di sogni, di progetti! Ricordo con quanta forza difendevi le cose in cui credevi, mettendoti a confronto con chi non la pensava come te. Ricordo le tue gonne lunghe e variopinte di foggia zingaresca per le quali discutevi spesso con la tua mamma, cercando in me quella solidarietà che io ti concedevo con affetto cercando di mediare per te.
Eri una fan di Renato Zero che a quei tempi, specialmente le persone un po’ più attempate, non erano pronte a capire e ad accettare per la sua stravaganza, ma tu lo difendevi a spada tratta senza batter ciglio.
Pensieri e ricordi si susseguono come le pagine di un libro e pian piano il tuo viso illuminato dai tuoi bellissimi occhi di cielo si scolora, scompare…tornerai presto e spesso nei miei pensieri finché avrò vita.
“C’è sempre un momento in cui una storia va raccontata, ho insistito. Altrimenti per tutta la vita si resta prigionieri di un segreto”. (Haruki Murakami)
Il ricordo va a Margherita, con cui ho avuto una breve storia e soprattutto alla madre, per la quale lei aveva un forte risentimento perché l’accusava di aver abbandonato il padre. Tutto aveva avuto origine nel 1943 quando la signora, Franca Caiani, partecipò con un suo amico, membro del GAP (Gruppo di Azione Patriottica) a un attentato al Caffè Paszkowski, frequentato da ufficiali nazisti. Per dirlo con il titolo di un recente libro, Le montagne in città, la resistenza non fu solo in montagna, ma anche in mezzo ai civili.
La bomba era piazzata sotto un tavolino e lei con un altro partigiano avrebbero dovuto farla esplodere. Qualcosa andò storto e furono arrestati, lei rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana.
Per liberarla con altre detenute fu organizzato un Commando, guidato da un giovane liberale che parlava perfettamente il tedesco e che dopo la riuscita del blitz diventò suo marito.
Le sofferenze subite furono, come è facile immaginare, terribili e per un periodo fonte di complicità.
Nel dopoguerra però si manifestano i primi dissapori perché la “Franchina” , che nel frattempo era diventata membro del CC del PCI, non riesce più a dialogare con il marito che decide di allontanarsi e andare a fare il console in Brasile.
Tutto questo l’ho saputo a più riprese. Ho incontrato Franca solo due volte, mi affascinava il suo sorriso silente e gli occhi pieni di malinconia. Viveva in una casa piena di quadri, di autori che le avevano scritto dediche particolari, di lettere di “compagni” autorevoli, come Amendola, Secchia, Ingrao, Napolitano e quelle scritte con inchiostro verde di Palmiro Togliatti. Tutto questo creava un clima che mi affascinava.
“C’è sempre un momento in cui una storia va raccontata, ho insistito. Altrimenti per tutta la vita si resta prigionieri di un segreto”. (Haruki Murakami)
…altrimenti si resta prigionieri per tutta la vita di un segreto….
Ho il mio metro, il mio ago, il mio filo, un vecchio sacco di juta.
Misuro i passi, ma non cammino dritta, è uno zig zag continuo, che allunga ed affatica la strada. Cerco di rassettare, ricucire, rammendare i ricordi, ma non so come si fa , l’ ago non ha punta: fora, non cuce.
Voglio restare prigioniera, la stanza è piccola, le sbarre lucide, quasi nuove, passa aria, la tenda di pizzo rossa, muove e commuove il mio respiro, ho occhi trasparenti di vetro burroso.
Il segreto c’è ed è vuoto di sogni, privo di oscuri disegni…sempre e “ solo mio” .
…e se non volessi, ricordarlo, se fosse diventato pietra, dopo esser stato: acqua, spugna, medusa…cavalluccio marino.
Se rivelandolo, facendolo sapere, se condividendolo diventassi, io, ancora più fragile, più esposta al vento delle parole, al gelo degli sguardi; no, non voglio essere il solito Buratto, sguardo, fisso, braccia di legno, se le lance mi ferissero a morte colpendomi, ed il mio sangue stanco schizzasse, macchiando candidi vestiti. È ora che Arezzo chiuda la sua giostra, voglio e devo scendere.
Ma poi, a chi interessa, dove, quando, “ PERCHÈ” .
Chi sono, chi potevo essere, cosa volevo diventare, cosa non sono riuscita a realizzare.
Mi devono amare ora, per chi sono, per quel poco o tanto che valgo. L’ ufficio postale da cui sono uscita: pacco di me, non esiste più…ed ora…..
…rumore di passi, stropiccìo di stoffa, la tenda rosso fuoco, accarezza le sbarre: si gonfia, si sgonfia.
Il secondino, dal passo lento si è annunciato porgendomi la chiave per aprire la mia “volutaprigione” .
Ho rifiutato, voglio e devo restare dove sono, ho accettato l’acqua, quel biscotto buono, quel suo sorriso negli occhi da guardia clemente. Non conosco il suo nome, è qualcuno che ho conosciuto in un’altra vita, è me, loro, voi. Cerca il dialogo, mi sfiora una mano, il mio oggi glielo regalo, il mio ieri è solo mio.
Mi allontano con il pensiero, quasi sogno: remo controcorrente, la tinozza di legno ha un’ aria solida, riesco per magia a non bagnarmi, acqua salata di fiume, la mia, tassello di un puzzle mai completato …
Non voglio chiedere aiuto al mio buon carceriere, perché galleggio da sola con il mio segreto, con una pesante palla di vetro accanto e dentro di me, sugli occhi un’ombra di tulle rosso che sa di silenzio, non mi impedisce di vedere…Vivo
Attraverso le mani passa il mondo di una persona, scorre la sua vita.
Proprio stamani pensavo al ricordo di carezze, sostegno, abbracci che passano con loro.
Mentre mi passavo le mani bagnate sul viso addormentato e ancora tiepido del calore delle lenzuola mi è tornato in mente quel giorno in cui la mia cugina più grande mi lavava il viso e ricordo come mi abbandonavo a quel contatto, abituata a gesti energici, veloci per le occupazioni e la cultura che non si poteva soffermare su tante smancerie. Quelle mani delicate e quel gesto mi è rimasto nel cuore tutta la vita.
Il ricordo mi ha fatto spesso riflettere sulla necessità di trovare qualche pausa nell’essere pratica e decisa come ho imparato in famiglia e cercare intimità e contatto.
Così ho trovato bello e fonte di gioia, fare carezze, usare più calma, far sentire disponibilità.
Ho riflettuto su quanto anche i piccoli amano il contatto, il tempo rilassato dedicato a loro, cosa che da nonna mi posso permettere
Mi aiutava molto con il mio primo nipote , molto attivo e super stimolato, trovare un tempo silenzioso, per aiutarlo a rilassarsi con un leggero massaggio sulla schiena.
Lui sentiva piacere e trovava tregua al movimento così non voleva mai che si finissi .
ANCOA,ANCOA ripeteva e poi rimaneva ad ascoltare o faceva un pisolino.
Il racconto che ho letto, mi ha stimolato a questa riflessione, i si parla di mani che abbracciano, giocano, sostengono, chi narra osserva le mani degli uomini della famiglia, non sono tutte uguali, ma alcune si somigliano.
Le mani di Paolo del racconto mi fanno riflettere su quelle del mio Paolo, belle, curate, lisce. Non grandi ma forti, disponibili, calde.
Se le confronto con le mie, mi sento morire, una ha un dito nero per una martellata recente, un dito ha la prima falange piegata per aver preso una pallina da tennis che calava dall’alto tanti anni fa e è rimasto piegato, le unghie sono irregolari e i graffi sul dorso sono sempre presenti visto che mi occupo delle rose senza precauzioni.
Nonostante questo, sono come quelle di mio marito, pronte a sostenere, abbracciare, aiutare, fare.
Certo, mi piacerebbe avere mani curate, bianche, con unghie lunghe arrotondate, non colorate ma, da poter esibire tranquillamente con anelli.
Poiché non resisto a metterle sempre nella terra per cogliere fiori, strappare rametti secchi, piantare semi e talee, pasticciare con colori e lavorare con acqua gelata e insaponata ignorando l’uso di guanti, mi accontenterò di tenerle in tasca, nelle situazioni più imbarazzanti oppure indosserò guanti belli e intonati al vestiario.
Sarò però contenta lo stesso perché non potrei essere diversa, sono riconoscente di poterle usare per fare tante cose che mi piacciono e che riempiono la mia vita, sono l’operaio di casa come dice sempre mio marito.