Lamatitaperscrivereilcielo è un progetto di scrittura, legata all'anima delle persone che condividono un percorso di scoperta, di osservazione e di ricordo.
Questo blog intende raccontare quanto non è facilmente visibile che abbia una relazione con l'Umanità nelle sue varie espressioni
Eleganza è quella di chi, pur competente nel proprio lavoro o nella cultura non sfoggiano superiorità verso gli altri.
Eleganza mi porta ad un ricordo di quando avevo quindici anni, lavoravo in un negozio a Firenze, che era una succursale di una tintoria dove il mio compito era ritirare gli indumenti sporchi e di mandarli alla centrale.
Quando riportavano gli abiti puliti alcuni clienti chiedevano di consegnarli al loro domicilio.
Ricordo un ingresso di una di queste abitazioni di persone benestanti , la consolle con il grande specchio sopra, con la cornice dorata, le lampade laterali erano costruite con tante gocciole di cristallo, che quando si accedevano le lampadine mandavano bagliori di luce sulla parete. A quel tempo per me quello era eleganza.
Terzo pensiero, solo pensato: me lo dici, perché lo pensi?
Quarto pensiero che non riesco a dire: di solito nn lo sono?
Quinto e non ultimo: per farmi sentire che esisto?
Ed i miei pensieri volano e da carezza diventano boomerang, di quelli di legno duroduro, che fa male e non torna al mittente.
Non godersi mai un cazzo nulla, nemmeno quelle poche parole dette…..dette…..dette…per cortesia? Per affetto? Per non saper cosa dire, per iniziare un discorso che nn porta a nulla, senza mai sapere come mi sento, come sono, chi sono…
Elegante? Con i pantaloni con troppe x, con i “ golfi dell’ upimme” a saldo, una me con qualcosa di altri o di mio da troppo?????
Elegante era mia madre, con un po’ di tacco, con le calze color miele, lo era sua madre con le gonne longuette e le scarpe su misura…elegante era mio padre con il pigiama di seta bleu…eleganti tutti tranne me!
Elegante? Eleganza!
Elegante è un cuoricino tondo di lana cicciuta.
Elegante è uno sguardo, poco invasivo, in un momento buio.
Eleganza è una voce che rassicura.
Elegante è un ricciarello nella sua culla di carta opaca, innevata di zucchero a velo…..
…è un buongiorno senza facce, una buona notte: cerca di dormire…
…è che abbiamo le stesse mani fredde e cerchiamo di scongelarle, in silenzio senza risate sguaiate…
..è che mi telefoni e mi ascolti….
…è che non mi vuoi cambiare, per una signora vestita di seta beige, con la borsa firmata, con i capelli biondo cenere, una che sorride sempre è comunque, che ricorda ogni cosa che ha letto…..che ha visto!…
Eleganza è un tessuto double face, ha due diritti…..e due rovesci…..
Eleganza e cortesia nel raccontare. Eleganza nel mantenere rispetto sia nel linguaggio che nella aspettativa di chi ascolta, incuriosirsi con piacere e semplicità di un argomento, esposto con dettagli e in assenza di violente parole ma con armonia, dolcemente. Eleganza delle parole vellutate che possono anche incidere nella persona che le riceve, in modo molto pesante, accettando l’essenza comunque e la forma, anche sentendosi completamente in disaccordo. Eleganza di una parola positiva; eleganza del concetto, eleganza del pensiero, uscire di scena con eleganza. Eleganza come terreno dialettico, lavorato per coltivare i rapporti umani.
Eleganti si nasce, o non lo si diventa mai. I requisiti sono una grande anima, un indomito coraggio per essere sempre sé stessi, un sorriso aperto e le mani tese. Ci sono creature che nascono con tutte queste virtù, e sono naturalmente elegantissime. Dotazioni accessorie anche istinto e fantasia. È elegante chi non ha mai detto “Lei non sa chi sono io”, chi non ha mai pensato di aver qualcosa da insegnare a chi non ha chiesto d’imparare, chi sta nel mondo senza seguirne le imposizioni, chi è alternativo ma non strano, chi è onesto in un mondo di ladri, chi non è furbo, né duro, né forte, né informato, né sapiente, ma ce la fa lo stesso, ed è grato alla vita .
Ci sono creature eleganti. Naturalmente. Eleganti nelle movenze sinuose, danzanti, movimenti veloci ma mai azzardati. Eleganti nella corsa, sicura, veloce, ritmica, potente. Eleganti mentre mangiano, non resta mai nulla e non cade mai nulla. Creature che viaggiano la vita sempre a testa alta e cercano il contatto degli occhi con gli occhi che incontrano. Hanno occhi di giada e lampi e lasciano capire di antiche sapienze e mondi sconosciuti, dietro il velo di mistero.
Ho incontrato da poco una di queste creature, e siamo finiti a letto sin dalla prima notte. È birbone e scattante, di quei maschi che fanno innamorare. Nello stesso tempo, è delicato e tenerissimo. La scorsa notte mi è stato addosso tutto il tempo. Ha respirato con il mio stesso ritmo, si è fatto leggero come una piuma, ha popolato i miei sogni, e lungamente mi ha accarezzato. Pianissimo, sul collo e sul mento, con le sue zampine vellutate.
Dignità, orgoglio, rispetto, amor proprio e altrui, sensibilità, affabilità, parole in disuso al giorno d’oggi ma che formano l’eleganza di una persona.
Una errata valutazione dell’eleganza può portare a tragiche conseguenze se chi la usa ha mire truffaldine. Purtroppo questo è l’uso più frequente e , ahimè, genera diffidenza, rabbia, impotenza che demoralizza. Spesso chi ne è colpito cerca vendetta, con conseguenze devastanti e opposte al concetto di eleganza.
Mantenendo calma, concentrazione, sangue freddo si può riuscire a vendicarsi con eleganza e ironia, quando questo succede la soddisfazione è quadrupla ! Ma non è di questo che si nutre l’eleganza.
Oltre che ad una naturale predisposizione è l’educazione al rispetto di tutto ciò che ti circonda, compreso te stesso e gli altri, che fa di te, di qualsiasi ceto sociale tu sia, una persona elegante.
Una volta a scuola si insegnava “educazione civica”, materia considerata insulsa e quindi eliminata, decisione per la quale oggi ne paghiamo le conseguenze.
Eleganza effimera di chi vuole “apparire”, dare sfoggio di bellezza raffinata, preziosa, ricca, sinuosa nei modi e nelle movenze ma arida nell’animo, con l’ossessione del controllo perché non traspaia la sua pochezza interiore.
Le persone “ eleganti” dentro, vere, sono sempre meno, quando le trovi attingi alla linfa vitale per un mondo migliore.
C’ è un piccolo paese posizionato sulla collina sopra al paese di Antella, Balatro chiamato anche Balatro rosso al tempo in cui ero bambina, sembra per le tendenze politiche e la presenza di alcuni anarchici.
A quel tempo nella piccola piazza c’era una bottega di generi alimentari, il proprietario abitava sopra il negozio, all’angolo della piazza un calzolaio, nella stessa parte c’era un negozio dove il sabato e la domenica veniva il barbiere.
Allora era faticoso spostarsi, questo piccolo paese serviva anche ai contadini che abitavano nelle case coloniche nella campana circostante, c’era anche un circolo che quando ero bambina era diventata Casa del Popolo, ma negli anni precedenti era la Casa del Fascio.
In quella piazza abitava anche mia nonna, il suo appartamento era situato all’ultimo piano, per arrivarci c’erano da salire molte scale e percorrere un lungo corridoio, la finestra della cucina dava sul tetto della casa colonica attaccata al paese.
Vicino una grande villa che aveva diversi poderi annessi, noi bambini si andava a giocare nel viale che portava alla villa che chiamavamo Viottolone, curiosamente andavamo al cancello e guardavamo dagli spazzi laterali il giardino. La grande villa ci affascinava.
Due case coloniche erano adiacenti, di queste ricordo l’esterno e le cucine, ci devo essere stata con mia madre.
Raccontavano che al tempo del fascio un componente della famiglia della villa fu tenuto nascosto in una casa di un loro contadino, questa casa era attaccata al paese.
Quando finì la guerra e il regime fascista, per ringraziare la popolazione del paese che non aveva fatto la spia, la fattoria donò olio e vino a ogni famiglia e a chi voleva del terreno intorno alla case per fare l’orto.
Mio babbo ne aveva avuto un bel pezzo, mia madre ci coltivava le verdure, lei era brava essendo di famiglia contadina sapeva come fare.
Il babbo ci fece un grosso capanno con pali, rete e lamiere, era pieno di tante cose, ricordo alcuni pomeriggi in cui ci andavo a giocare da sola, facevo finta che era la mia casa, il sole che passava fra le maglie della rete , i raggi del sole formavano un ricamo sopra una cassetta che avevo adibito a tavolo, ci avevo messo sopra la mia merenda: una bella fetta di pane e olio, un mucchietto di sale e uno spicchio di cipolla rossa, io facevo finta di essere una signora che mangiava pane e olio e ogni boccone un morso di cipolla e sale, con la mia fantasia lo trasformavo in un cosa bella a seconda del gioco che facevo.
Nel capanno ci sono state anche gabbie con i conigli a cui pensava la mamma. E’ servito anche a tenere la cuccia del cane da caccia della nostra famiglia.
Mio babbo era muratore e in un angolo dell’orto costruì un focolare dove poter fare l’arrosto girato con gli uccellini, lui diceva che il legno di ulivo rendeva la carne profumata.
Ci aveva piantato alcuni alberi da frutto e delle piante di viti, ora una parte l’orto non esiste più: ci sono delle abitazioni di pregio (il paesino è diventato un zona di residenziale)
Laterale al vecchio caseggiato, che anticamente era un convento, ora c’è l’ingresso di una bella abitazione con piscina, all’esterno sulla destra c’è un piccolo parcheggio, sulla sinistra ci sono ancora le viti che aveva piantato il mio babbo, è rimasta anche la striscia degli orti, fino in fondo all’edificio.
Con disinvolta leggerezza presentarsi come si è, in consonanza con se stessi ed il contesto, senza strappi ma occupando decisamente il proprio spazio sia fisico che mentale.
Non mera affermazione di sé ma una dichiarazione di esistenza in armonia di senso e di sensi.
Non ho molte foto della tua gioventù, ma ti penso sempre ben vestita. Mi sono fatta questa idea perchè mi hai fatto vedere quante belle cose avevi nei casseti, camice da notte, vestaglie, culotte in seta ricamata cucite a mano da te, perchè questo era il tuo lavoro. Ti immagino con vestito o gonna stretta , fatti da qualche avanzo che ti era passato per le mani, con una camicetta di puro cotone o seta dai colori sobri.
Anche quando ti sei sposata, avevi un bel cappotto giallo con due visoni buttati là, un cappello di moda negli anni ’50, scarpe con il tacco alto che ti slanciavano, ed andavi avanti a testa alta con il tuo bel portamento. Quando rivedo quelle foto sembri la mia regina.
La tua grazia e semplicità ti ha sempre contraddistinto nella vita.
Ricordo quando organizzavi qualche pranzo o qualche cena con amici o parenti la casa si trasformava. Niente doveva essere fuori posto ed ora facile che qualcosa non si ritrovasse per diversi giorni. La casa non era grande, dovevi togliere la macchina da cucire e la poltrona dal salotto, pulivi un po’ più a fondo. Tiravi fuori una delle tue tovaglie ricamate a mano, ma spesso preferivi quella rosa di fiandra, ma non poteva essere sempre la stessa, allora prendevi quella bianca con le rose ricamate, ma mai una banale. Mettevi il tuo bel servito di porcellana con i pavoni e il bordino dorato, i tre bicchieri di cristallo con il tovagliolo ripiegato, poi un bel centro tavola un fiasco di vino, una caraffa d’acqua, e la tavola era pronta per gli ospiti. Anche per il mangiare preparavi cibi tradizionali e semplici ma sempre curati e buoni. Per me avere persone in casa mi dava gioia.
L’elegante è un modo di essere che non si lascia mai andare.
Il silenzio è elegante. Chi si sbraccia, si accalora, si colora nelle gote mentre cerca di farsi uscire dal cuore cose che fanno male, non e’ mai elegante. Non lo è il dolore, non lo sono le passioni.
La vita non è elegante. Lo fosse staremmo raccolti in meditazione, non andremmo in bagno che per fare la doccia, non ci si lascerebbe andare ad intimità sudate e pregne di liquidi innominabili..Si mangerebbero le cosce di pollo con i guanti, ci si porterebbe il fazzoletto al naso solo per vezzo, non per bisogno. Non si piangerebbero lacrime che fanno venire il naso rosso, non ci si scambierebbe saliva con baci in bocca, non si urlerebbe nel dolore, non si esploderebbe nella gioia. Per essere davvero eleganti bisognerebbe essere un po’ insensibili, un po’ freddi, un po’ sordi, distanti dalla terra sotto ai piedi, ma piu’ che altro, indifferenti .
È elegante chi guarda in alto, ma se poi inciampa e casca con il culo per terra, allora si può dire che l’ eleganza può fare male. Meglio un sorriso. Un sorriso veste di eleganza, sempre .
Il parrucchiere Carmine aveva cambiato un po’ lo stile a Firenze, veniva da Napoli e aveva grande capacità di relazionarsi con i clienti, aveva portato innovazione nel taglio e aveva introdotto la possibilità di farsi, insieme ai capelli, la manicure. Il negozio era in Chiasso del Buco, accanto alla piazza Salterelli dove il Babbo aveva il negozio di forniture per orologi e che frequentava non tanto assiduamente, ma almeno per farsi fare la sbiancatura dei capelli che tendevano a ingiallire. Questa piccola forma di vanità lo aiutava nella sua naturale eleganza, un’eleganza fatta di sorrisi, fatta di attenzioni, di piccoli atteggiamenti affettuosi nei confronti di tutti, in modo particolare per quella che potremmo definire la popolazione del piccolo mondo antico di piazza Salterelli che pur essendo collocata al centro di Firenze, dietro por Santa Maria e dietro via Vacchereccia, aveva mantenuto rapporti sociali gradevoli e intensi fra i componenti delle varie attività: il trattore Poldo che preparava porzioni abbondanti per gli avventori e che Babbo frequentava soprattutto d’estate quando noi eravamo al mare, la galleria Spinetti, una galleria d’arte specializzata nel commercio e nell’esposizione di quadri di macchiaioli e post macchiaioli, le ragazze commesse del negozio di Perugina in angolo fra via Santa Maria e via Vacchereccia con le quali il Babbo intratteneva rapporti scherzosi e dove andava a comprare sacchetti di menta zuccherosa, quella che si fondeva in bocca, per la sera, davanti alla televisione. E poi il bar La Borsa da anni sotto il loggiato, di fronte appunto alla Borsa Valori, un luogo che aveva mantenuto l’aspetto di un bistrot parigino e dove i bicchieri erano collocati in alto, a testa in giù in verso il bancone per sgocciolare e dove passavano siano turisti stranieri ma anche tutti gli avventori e i commercianti della zona e nella quale si intessevano piccole discussioni sui fatti del giorno, sulla Fiorentina, sulle attività commerciali se andavano più o meno bene e dove il Babbo con il suo sorriso e con la sua naturale, come ho detto, eleganza era ascoltato con grande attenzione. Tutto questo in parte è stato spazzato via dalla nuova forma di commercializzazione anche se i luoghi esistono tuttora. Il parrucchiere Carmine si è trasferito, guarda caso, di fronte a dove il Babbo si trasferì e dove ora abito io. Il Babbo ha continuato a frequentarlo fino a pochi giorni prima della fine. La sua attività commerciale è rimasta attiva, anche se era stata venduta, conservando, per scelta dell’acquirente, il nome “Maurri” proprio perché era un sinonimo di garanzia nei confronti dei clienti , anche se ormai si cominciava a comprare altri tipi di orologi.
Credo si possa ricordare il Babbo per questa caratteristica: la comunicazione, la comunicazione verbale e la comunicazione visiva che favoriva il rapporto e favoriva la conoscenza dei problemi sociali che poi lui, una volta in pensione, ha ripreso e trasmesso attraverso la passione per la fotografia. Era certamente dilettantistica ma con grandi connotazioni professionali che venivano mantenute sempre vive con l’aggiornamento, con le discussioni all’interno del club a cui apparteneva, con la realizzazione di piccoli stage che venivano fatti anche per definire gli aspetti più specifici della fotografia. Questo lo ha veramente salvato dall’invecchiamento perché lui, come un gatto, ha sempre avuto e sempre mantenuto vivo lo sguardo e la capacità di interpretazione delle persone, dei luoghi e dei paesaggi.
Eleganza, per me, è cercare di essere gradevoli per noi (e quindi esserne soddisfatti) e per gli altri (quindi essere graditi).
E questa è l’eleganza della forma, del contenitore, della maniera.
C’è poi, credo, l’elegantitudine cioè l’attitudine a cercare sempre di porgere noi stessi nel miglior modo che possiamo, lo sforzo di pensarci insieme, coltivando quello che siamo ma senza imporci.
Un quadro bianco Completamente bianco Gocce dorate delimitano lo spazio Gocce dorate aprono lo spazio Anima pura Alito di seta bianca copre la tela come un respiro Uccello del Paradiso trasparente e lucente Trasporta sulle sue ali tutte le mie inquietudini restituendo alla mia bocca sorrisi senza fine Sorrisi di vita amara bevuti a sorsi da un bicchiere di cristallo Acqua rosa dal soave profumo Mi inebrio di te Volteggio sulla strada in discesa Uno strascico di luce e scarpe con il tacco Sono le scarpe di Cenerentola o semplicemente le mie scarpe della festa che balla e che suona nelle mie viscere Un sorriso lungo dall’alba al tramonto
Foto di Lucia Bettoni, Rossella Gallori, Cecilia Trinci
Eleganza nello scrivere e nel vivere, gentilezza, accoglienza, rispetto, parole di velluto, sentirsi a pari livello dell’ interlocutore. Garbo, muoversi con sicurezza dolce nel mondo, capacità di indossare, di porgersi, la bellezza di un sorriso, di un gesto…..
Possiamo trovare ispirazione per il prossimo racconto?
da Manuel Vilas “In tutto c’è stata bellezza” pag. 19
Una vibrazione profonda, continua, aspra e disturbante ha invaso il mio spazio vitale, occupando mente e corpo senza soluzione di continuità.
So perfettamente quale ne è la causa e altrettanto perfettamente so che ho armi debolissime per difendermene.
Un suono che evoca sensazioni simili già sperimentate in tempi in cui la notte iniziava “dopo carosello”.
A volte accadeva che, appena posata la testa sul cuscino, un’onda ruvida e dal rombo sottile paresse salire dal mio ventre, rotolandomi dentro fino ad infrangersi dietro gli occhi serrati dal violento malessere.
E subito dopo un’altra e un’altra ancora….
L’unica difesa possibile era farsi gomitolo, appallottolarmi stretto stretto finché le onde non si placavano o il sonno acquietava i sensi.
Non ho mai saputo perché ciò accadesse o quale ne fosse la causa.
Ecco, oggi le sensazioni sono quasi le stesse, salvo che il raziocinio adulto sa porre in ordine cause ed effetti, senza peraltro avere a disposizione risposte più efficaci.
E così la mia notte “abbraccio vitale” sembra trasformata in una sorta di acufene molesto che combatto con altro suono per neutralizzarne le risonanze.
Buio e silenzio…
Frequentati da sempre con leggerezza e senza paura…
Oddio… da sempre forse è un po’ esagerato…
Notte di Santa Lucia.
Tradizione popolare della mia terra d’origine voleva che ogni notte del 12 dicembre i bambini aspettassero l’arrivo di Santa Lucia che portava loro regali a bordo di un asinello volante, tenendo in una mano gli occhi cavatigli nel supplizio subito. Andava anche sempre lasciato un piatto sul tavolo con del cibo con cui sia lei che l’asinello potessero ristorarsi.
In questa sera i bambini dovevano andare a letto presto per evitare di imbattersi nella Santa che, si diceva, accecava con la cenere quelli che trovava ancora svegli. La mattina dopo, in cambio, Lucia faceva trovare un piatto colmo di dolci e tanti regali.
Per rendere il mito ancor più verosimile i miei pensarono bene di far ciondolare alla finestra della mia cameretta nel cuore della notte una corda con una nappa in fondo che sembrasse la coda dell’asinello volante di passaggio…
Puro terrore, panico urlante di un bimbo che non voleva essere accecato e soprattutto non voleva vedere nessuno con gli occhi in mano…
Non ricordo dolcetti o regali che probabilmente ci saranno stati per consolarmi, ma sono quasi certo che quella sia stata la mia ultima notte di Santa Lucia.
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Tutti vogliamo la pace!
Alla fine delle Elementari, nell’ora della ricreazione, giocando con la mia compagna di banco ci ritrovammo a litigare per qualcosa di cui non ricordo ma che sarà stato per noi sicuramente molto importante. Io cattiva le dissi, sapendo che i suoi genitori votavano democrazia cristiana, che i comunisti come i miei genitori volevano la pace, invece i democristiani come i suoi volevano la guerra. La bimba piangendo lo disse alla maestra, la quale mi spiegò che non era vero,che nessuno voleva la guerra, ma tutti la pace.
Fu così che cominciarono i miei primi dubbi esistenziali.
Perché se tutti vogliono la pace il mondo è pieno di guerre?
Se tutti sono buoni e misericordiosi perchè c’è al mondo tanta povertà e miseria?
Se tutti sono giusti perché c’è tanta ingiustizia?
Mi venne d’aiuto nell’adolescenza, per districarmi meglio nelle mie mille domande il mio incontro con Luigi Pirandello.
Ho letto Pirandello!
“Ho letto Pirandello “! Cominciò cosi una mia lettera d’amore spedita ad un ragazzo che avevo conosciuto al mare.
Abitava a Pescia, paese che immaginavo lontanissimo dal mio alla periferia di Firenze. La percezione che avevamo dello spazio e dei luoghi era molto diversa da quella che hanno gli adolescenti di oggi. Mi parlava del suo pessimismo pirandelliano, della sua sofferenza identitaria, si sentiva uno, nessuno e centomila.
Io a bocca aperto lo ascoltavo entusiasta. Che ragazzo interessante…!…e Pirandello?
Lo lessi appena tornata dalle vacanze. Mi aveva conquistata prima di leggerlo e mi conquistò ancora di più dopo. Le sue plurime verità,le molteplici prospettive, l’essere non uno ma tanti individui diversi a seconda di chi ti guarda e le tante maschere che indossiamo a seconda delle situazioni.
Per una come me che respirava l’aria sessantottina con tutte le certezze e l’intransigenza delle verità, fu una scoperta.
Cercavo di guardare le situazioni da più prospettive e vi cercavo più verità.
Naturalmente con l’assolutismo dei principi dell’epoca.
Sempre in quel periodo ho vissuto i miei fatti eroici.
Pigrizia rivoluzionaria
Inverno 1968. Istituto d’Arte. Occupazione della scuola.
Comizi, discussioni,cartelli, manifestazioni.
All’istituto d’Arte di Sesto Fiorentino vivevamo intensamente l’atmosfera rivoluzionaria del 1968.
Eravamo una piccola scuola, ci conoscevamo tutti e ci contavamo sulle dita di poche mani.
Prendemmo la decisione che anche noi come quasi tutte le scuole avremmo occupato l’Istituto.
Telefono tutta eccitata a mia madre per dirle che non sarei rientrata perché occupavamo la scuola.
Mi aspettavo di risposta mille domande, mille perché, invece mi rispose solo “ si va bene, vuol dire che non butto la pasta!”. Fui orgogliosa di mia madre, aveva capito tutto, forse più di quanto avessi capito io. In tarda serata arrivò il preside, una brava persona, bonacciona, ci conosceva tutti uno per uno. Guardò noi, i nostri sacchi a pelo e ci disse “ragazzi, facciamo così, diciamo che avete occupato la scuola però andate a dormire a casa poi domattina tornate e sarà come se foste stati qui.
Non ce lo facemmo dire due volte, così occupammo la scuola comodamente da casa nostra.
Che dire, ripensandoci?
Che mia madre era sicuramente più rivoluzionaria di me oppure aveva già capito come andava a finire.
Una cosa è certa, i miei compagni ed io ci stavamo già preparando a diventare italiani adulti: opportunisti, millantatori, rivoluzionari all’acqua di rose.
Noi non abbiamo mai fatto la rivoluzione francese e nemmeno quella russa. Siamo colti, artisti, abbiamo fatto il rinascimento, ma di rivoluzioni nemmeno l’ombra! Pigrizia rivoluzionaria!
Eppure volevo salvare il mondo:
Volevo salvare il mondo
Metà degli anni sessanta, frequentavo ancora la scuola media inferiore.
Una sera d’estate sentendo “sbraitare” e “piangere” scesi in strada.
Un ubriacone dava in escandescenza.
“E’ uno che lavora alla Cementizia, uno del nord, la sera si ubriacano sempre!” dicevano gli adulti.
Un mio compagno di scuola ed io ci siamo avvicinati e tentavamo di parlargli, volevamo capire, aiutarlo. “Ci saranno delle cause che lo hanno portato a questo” ci chiedevamo. “va capito, aiutato, bisogna parlarci” concludevamo.
Ma lui non ci rispondeva, voleva solo bere ancora.
Andò a finire che il mio amico ed io eravamo impotenti e nulla potemmo fare.
Forse avevano ragione gli adulti, non c’era nulla da capire.
Ripensandoci oggi, quell’episodio che ricordo ancora con una lucidità impressionante è stato il primo di una serie di consapevolezze future di come sia difficile tentare di cambiare il mondo.
Difficile come tentare di cambiare idea.
Forse non sempre eravamo nel giusto
Sorrido quando penso ad un quesito che nei primi anni settanta ponemmo io e gli altri ad un compagno di scuola molto borghese e tradizionale.
“Se la tua ragazza ti tradisse” gli chiedemmo”cosa faresti?”
“Mi incazzerei e la mollerei!” disse.
“Eh no!”rispondemmo noi da saggi!” Dovresti invece chiederti dove hai sbagliato con lei per portarla al tradimento e chiederle scusa!”
Eravamo convinti fino in fondo di essere nel giusto e che il nostro amico fosse semplicemente un troglodita.
Poi capita che da grande scopri che non avevi sempre ragione e che non eri sempre nel giusto!
Principi di verità quando dici agli altri cosa fare, ma poi questi spesso ci sfuggono nella nostra quotidianità.
Come quando teorizzavo la coppia aperta e che il sesso doveva essere universale, ma quando il mio compagno di allora mise in pratica la teoria con la mia amica, mi incazzai di brutto e cominciai a perdermi in tutti quei principi alla moda.
Allora li prendi ad uno ad uno e cerchi di rimetterli a fuoco come a volerli capire meglio.
Il sospetto di averli acquisiti quasi per inerzia e con superficialità fa capolino.
Volerli capire di più ci porta quasi a non capirli, a rivederli, modificarli.
Quelli nuovi ci lasciano storditi, spaesati.
Qualcuno di noi rimane legato ai vecchi stereotipi: il sempre sessantottino ormai un po’ ridicolo e sicuramente fuori luogo.
Altri vanno totalmente oltre e diventano revisionisti e reazionari.
Tutto sempre con una rigidità e intolleranza eccessive, perché nessuno riesce così bene a essere intransigente come un ex sessantottino nella fase della decadenza.
Concludo rivolgendomi a quello che un tempo fu il mio partito:
Il mio partito
Insieme avevamo scoperto la condivisione, la solidarietà, l’aspettarsi per poi ripartire.
Inseguivamo un sogno, un’aspettativa, una speranza.
Eri il mio partito politico, il compagno di una vita.
In quegli anni abbiamo incontrato spesso i nostri limiti e provato a superarli. Non sempre ci siamo riusciti, ma intanto crescevo e non ero sola.
Abbiamo imparato a sentirci popolo e poi cittadini, mai gente.
Volevamo cambiare il mondo, renderlo migliore, e volevamo farlo attraverso la responsabilità e la leggerezza di guardare gli altri alla pari.
Non ci siamo riusciti, ma abbiamo provato, insieme!
Ora però mi sento da sola a guardare il mondo, eri il mio partito e non ti riconosco più.
Sento solo discorsi e alcuni non mi piacciono.
A volte sussurri ed io non sento. Parla più forte! Non capisco. Parla più chiaro!
La guerra? Non mi piace proprio quello che dici, e questo lo sento bene!
Chissà forse non sei più il mio partito, compagno di vita, dovrò cercare altrove?
Un partito amante? Ma non trovo niente di attraente, forse per ora non c’è!
Una curva sinuosa abbraccia il gruppo di casine. Un nastro lucido che incornicia case piccine, vecchie, con piccoli tetti e pareti che scompaiono nel panorama. Il nastro incornicia come quello di raso fa con i regali. Luccica al sole ed anche alla luna, si fa tutt’ uno con la pioggia, notte nella notte.
È la divinità , l’ entità che c’ è sempre stata, c’ è e ci sarà, forse, per sempre. Non c’era discorso che non ne parlasse, né sera a veglia che non lo vedesse protagonista di storie, leggende, magie. Non è mai stato fiume, generico, lettera minuscola. Sempre Arno, presenza viva e possente, lettera maiuscola .
C’ era chi da generazioni viveva con la sua rena, una sabbia meno sofisticata, più scura, di razza contadina. I renaioli conoscevano tutte le buche, tutte le trappole, tutti gli inganni delle correnti. Sapevano dove insegnare a nuotare ai bambini, in sicurezza. Tante volte ho sentito la nonna raccontare di quando Fortuna mise in acqua il mio piccolissimo babbo, nel fondo della Massa. Fortuna ed il fratello Nandino, i renaioli, erano loro stessi personaggi mitologici. Avevano pelle scurissima e quasi a scaglie, simile a quella dei pesci, ed un odore d’ Arno che era profumo di quell’ acqua e solo di quella . Un misto di odore d’ acqua, erba, fango, schiuma di pescaia, che non ho sentito né a Firenze, né a Pontassieve, era solo lì. Era il profumo del mio babbo.
Lui e l’ Arno erano una cosa sola. Fin da piccino era stato con i renaioli. Forse per attitudine, in ogni generazione avevano dei giovani a cui trasmettere il fiume. Uno fu di certo il mio babbo, uno Gigi, che da poco spero stia di nuovo pescando con il babbo. E loro trasmisero a Paolino. Erano sempre lì, piedi nell’ acqua e canna da pesca appoggiata al fianco. Il babbo andava tutti i giorni, dopo pranzo, un paio d’ ore. I pescatori si vedevano da lontano, silenziose sentinelle di acque dolci . I pesci, alla fine, non interessavano a nessuno. Il babbo portava a casa quelli bellissimi, e quelli che i vicini mangiavano volentieri I piu’ belli erano ricoperti di scaglie colorate. D’ oro sulla pancia, grigie, blu e verdi sul dorso . Li portava vivi e si andavano a liberare in processioni di bambini Vederli guizzare e sparire, tra lampi di sole, era un’ emozione grande. Avevano labbra umane, per il resto facevano capire l’ appartenenza ad un mondo altro, di cui erano padroni . Il babbo era rispettoso, li amava davvero. Del resto, lui quell’ acqua c’è l’ aveva nelle vene e lo attraversava, perlomeno fino a quando il posto dell’ acqua l’ ha preso il vino, e da allora in poi niente è piu’ stato lo stesso .
Paolo, fino da ragazzino aveva un sasso su cui sedere, in pescaia. Sempre il solito, un grigio sasso schiacciato sul quale si poteva stare anche in piedi, ed anche in due Ci si poteva scrivere, con i sassi rossi. Ci si trovava lì. Ci penso solo ora, nel mio amore un posto l ha avuto anche il sasso, l’ Arno di sicuro. Fin da bambino Paolo passava le giornate sul fiume e la sua mamma passava le ore sgolandosi a chiamarlo dalla finestra, inutilmente. Tornava solo al tramonto. Allora l’ unico pericolo era cadere in acqua, bastava stare attenti . Anche adesso, per noi le passeggiate finiscono sempre in pescaia, ed il tramonto che si moltiplica sull acqua ci emoziona come sempre.
Da un bel pezzo la zona è tutta recintata per grossi lavori di manutenzione. Quando sono cominciati sono stata malissimo, certa che nulla sarà piu’ come prima . Anche ieri Paolo mi ha detto che non si riconosce piu’ nulla. Il sasso non c’è più. Un gran dolore . Ogni volta che scompare qualcosa che ci vide ragazzi, che vide i miei genitori giovani, posti dove anche loro avevano camminato, riso, amato, mi sembra muoiano un altro po’.
Ho delle foto di loro lì . Non ho foto di loro da “grandi”, come se volesse dire qualcosa
Sono ritratti mentre si bagnano, mentre sono seduti sulla rena all’ ombra del muro, mentre lui mette in mostra tutte le costole spingendo la stanga della barca del renaiolo. Lei fa il bagno e non sapeva nuotare. Si fidava di lui e dell’ Arno . Erano bellissimi e molto felici. Una consolazione.
Forse qualche goccia di quelle che li hanno cullati potrebbe essere rimasta incastrata sotto i sassi, o tra le foglie tremuli di piante acquatiche.
Quelle acque scorrevano quando si sono amati loro, quando ci siamo amati noi, quando sono nata, il giorno che il babbo si voleva buttare. Scappò di corsa quando le mie manine gli sfuggirono ed invece di una capriola, feci una sonora caduta di testa. Lo rincorsero, lo chiamarono, urlarono che non era successo nulla. Da quando me lo raccontarono, ogni volta che mi rimproverava, dicevo che se ero grulla era perché mi aveva fatto picchiare la testa lui. Si rideva, mi accarezzava
Era bellissima anche la passeggiata per arrivarci, in quel punto dell’ Arno. Si attraversava un rigoglioso campo pieno di ogni specie di albero da frutto e poi, quando già si vedeva il fiume, si camminava sulla viottola attraverso un campo di grano che a primavera vibrava di verde e lasciava occhieggiare il rosso di migliaia di tulipani . Fiori di campi, gambi fini e petali fragili, bellezza gratuita che rimane negli occhi
Poi, la spiaggia di rena a ridosso del muro massiccio ad argine dell’ acqua e le acacie che ballavano al ritmo del vento, spargendo profumo e fiori bianchi a grappoli, nella stagione nella quale si vestivano con il bianco vestito buono.
Non c’è più il muro, non c’è piu’ la spiaggetta e nemmeno le acacie . Non ci sono più le vecchie pietre della pescaia. Tutto cemento, temo
C’ e’ l’ acqua. Quella che non è mai la stessa. Quella che porta via .
Poi, in un giorno grigio come la notte e carico di acqua che ha urgenza di atterrare, il pensiero viaggia su un filo esile, e riporta ad un’altra vita, dove le giornate erano lunghe e bianche di strade sterrate, di verde polveroso, di gole riarse e persone che si bagnavano in Arno, scendendo da un’altra pescaia, una più vicina al paese. Il posto dove, senza appuntamenti,si passavano i pomeriggi di vacanza. Non avendo mare, piscine, altro. Del resto, noi eravamo quello, ragazzi di campagna innamorati di quello che avevano, che sembrava poco ed era tutto.
Poi arrivo’ l’età delle scoperte e rivivo fisicamente quegli sguardi che mi si appiccicavano addosso e che improvvisamente non conoscevo piu’. Ci volle del tempo per capire, per imparare che abbracci e carezze avevano cambiato sentimento. Erano i gesti di sempre, ma gli attori all’improvviso avevano cambiato copione. Fu una specie di straniamento, come voglia di stare a vedere quello che sarebbe successo, dal di fuori. Come fosse possibile. Ci fu un’ estate nella quale cambiò il mondo intorno a me. Il mondo si accorse di me, mentre io aspettavo. Aspettavo di capire, di sentire, di diventare grande. (Aspetto ancora).
Ci fu un’estate nella quale quel solito due pezzi non andava piu’ bene. Scappava la pelle, da sotto la stoffa. Feci finta di nulla, per un po’, poi chiesi un costume piu’ adatto, e fu una specie di segnale, di semaforo. Alt, non potevo piu’ andare da sola. Sempre con mia sorella ed il cane. Si partiva in motorino in due, e la Titti la si infilava nella borsa laterale che aveva il Ciao, con la testa fuori e le orecchie marroni che sventolavano come bandierine. Del resto la distanza dalla pescaia era pochissima, ed il fiume era il panorama più prossimo alla vista dalle finestre di quella casa.
Ricordo anche un periodo nel quale covavo una specie di risentimento ed anche di invidia verso quelle che continuavano a non cambiare. Ero convinta fosse una specie di accento su di me, un accanimento della sorte. Mi sembrava che i soliti amici ora recitassero una parte. C’era chi non veniva piu’ a fare il bagno se c’era lui, chi se ne andava se non c’ero io, chi parlava di cose che avrei detto, fatto, guardato, e che non erano mai vere. Naturalmente pensavo fosse tutta colpa mia, ed attraversai un periodo solitario e pensieroso.
Comunque si faceva il bagno, nello specchio d’ acqua sopra la pescaia, e si nuotava fino al Girone, si attraversava. Siccome il fiume era casa di tantissime bisce, serpi acquaiole, innocue ma delle quali avevo ed ho ancora grande paura, nuotavo con le pinne, convinta che se me ne fosse venuta qualcuna vicina, sarei riuscita a scappare. A nessuno ho detto che comunque tenevo gli occhi chiusi, così non le avrei viste di sicuro
A fine pomeriggio arrivavano in pescaia anche altre persone del paese. Ricordo bene operai in tuta blu. Dopo che tutto il giorno la pescaia era stata abitata dagli scansafatiche, arrivavano gli operai. Uno in particolare arrivava proprio tutte le sere, ed eseguiva un rituale: tirava fuori dalla tasca un pezzo di sapone giallo, se lo passava sulle braccia, sulle gambe e sui capelli, e si buttava in acqua. Nuotava moltissimo, con uno stile perfetto, e ricompariva sempre dopo un’ oretta. Dicevano lo facesse tutti i giorni, anche in inverno. Sempre solo e senza mai parlare.
Mentre noi si bighellonava, ed il tempo passava, e l’acqua scorreva e portava via. Forse solo quello che si dimentica, non torna piu’.
“Volevo essere un duro”, sì , “campione mondiale di sputo” dice Lucio Corsi. Da parte mia invece volevo fare una raccolta di “fondi oro senesi” del 300 perdermi nella maestà di queste tavole, avere dentro di me la loro intensità. Non me lo potevo permettere allora decisi di fare la raccolta di un qualcosa altrettanto bello e mi orientai verso i vetri di Murano, che sono la rappresentazione forse più plastica della capacità artigianale italiana, sono oggetti di una bellezza a volte veramente intensa e soprattutto, come i fondi oro molto spesso pieni di colori preziosi, di forme e di aspetti molto particolari. Non è che avevo una grande esperienza di questi oggetti e a Firenze non è che c’era una grossa possibilità di raccolta. Entrai in un negozio di Archimede Seguso, uno dei dei più grandi maestri che all’epoca era ancora vivo e cominciai a innamorarmi davvero di questo mondo. Il negozio si riforniva di capolavori, posso chiamarli così e anche soprattutto dietro la guida esperta della signora che ci lavorava riuscii a capire quali erano gli aspetti che andavano privilegiati nell’acquisto di un vetro, la loro capacità di comunicare emozioni. Il periodo più bello sia di Archimede Seguso che degli altri maestri vetrai è stato quello dagli anni 30 40 fino agli anni 90 perché erano i momenti in cui era più presente all’interno del mondo italiano la capacità produttiva e artigianale E questo ho cercato di riproporre nella mia personale raccolta di vetri, alcuni anche di discreto valore commerciale. Successivamente ho ampliato il mio interesse verso altri autori sempre di Murano, oppure di altre nazionalità fra cui ho un vetro di Louis Comfort Tiffany acquistata a un’asta di Firenze. Tiffany è quello del negozio del film omonimo e che ha tutta una storia particolare. Tutto questo in qualche maniera mi ha dato piacere anche nel momento in cui poi la vista ha cominciato a calare e non sono riuscito più a scegliere e a vedere altre forme di questa arte. Mi è rimasto tutto impresso negli occhi e questa luce che emanano, questa forza che ti che danno, la vedo e la sento ancora perché la ricordo molto bene. Ma non solo: posso continuare ad andare per i mercatini insieme alla Cecilia e fare acquisti in cui lei ha sostituito veramente il mio sguardo con esiti ancora forse più belli perché anche guidati da una sensibilità femminile che si è unita alla mia.
Un ricordo bello e dolce è l’impatto che hanno avuto i nipoti nella mia vita.
Derek è arrivato dalle Filippine all’età di otto anni.
Ricordo che era tardo pomeriggio, rimasero tutti a cena da noi, eravamo proprio tutti, solo Alberto non c’era già più. Eravamo emozionati, questo piccolo bambino fra quelle persone che eravamo diventate i suoi familiari, non sapeva la lingua e anche gli altri due nipoti, Siria e Mirko, erano in difficoltà, eravamo estranei per lui.
Per cena avevo preparato diverse cose e anche del riso, quando l’ho mangiato era di un sapore orribile, ero davanti a lui, l’ho guardato mentre lo mangiava… la creatura lo mangiò senza dire niente, mi sono chiesta come si sarà sentito.
Un altro ricordo di un altro giorno, eravamo seduti sul divano io ammisi di essere vecchia, lui mi rispose che “essere vecchi” voleva dire essere rispettati, questo mi colpì, il suo era il pensiero della cultura filippina.
Le mie figlie portavano Siria e Mirco a casa mia ogni mattina alle sette, alle otto li accompagnavo al pulmino, il pomeriggio dopo la scuola li avevo tutti e tre fino al rientro dal lavoro delle mie figlie.
Alle otto portavo al pulmino Siria, che era una bambina dolce, lungo il tragitto lei raccontava la nostra vita famigliare alla accompagnatrice.
Un altro ricordo di lei è quando, Alberto per giocare gli diceva che io ero bassa in paragone a lui, lei rimase pensierosa quasi indispettita, però gli rispose decisa: “si, ma lei sa fare tante cose”, questa risposta ci fece piacere e sorridere.
Il secondo a partire per l’asilo era Mirko, in inverno voleva indossare sempre il solito piumino leggero, questo mi metteva in imbarazzo perché sembrava che non ne avesse uno più pesante, quando era tanto freddo mi diceva “nonna scalducciami” e si faceva abbracciare e avvolgere nel mio cappotto.
Già allora io avevo problemi alla schiena e non dovevo sollevare i pesi, spesso però quando rientrava, prima di scendere dal pulmino mi buttava le braccia per venirmi in collo, e io lo accoglievo, un dolce peso.
Tanti, tanti ricordi di merende con loro e i loro amici, giochi, suddivisione di spazi che diventavano case, tavole che erano mercati, giochi sotto i piloti e nel prato, vacanze al campeggio.
Mi hanno riempito la vita e mi hanno fatto superare la morte del loro nonno con più facilità, avevo loro da accudire e pensavo meno al mio dolore.
2008 Mirko
La paura che ho provato un pomeriggio, ero seduta sotto il piloti della mia abitazione per controllare mio nipote.
Per passare il tempo, facevo l’orlo a dei pantaloni , ogni tanto davo un’occhiata al gruppo di bambini che giocavano nel prato, fra questi c’era Mirko, ad un certo punto non lo vedo più , mi alzo e inizio a chiamarlo e a cercarlo nessuno risponde, giro intorno al fabbricato, niente, vado alle cantine ancora niente, la paura mi prende alle gambe, mi fermo, eccolo, fa capolino dal dietro muro, mentre io lo cercavo lui si spostava per non farsi trovare.
La paura era stata tanta, ma anche la felicità nel vederlo, lo brontolai e lo abbracciai con tanta gioia.
In quel periodo era sparita una bambina in Italia
2008 Siria
Stiamo andando al mercato Alberto io e Siria è una giornata luminosa piena di sole.
Camminiamo fra le persone, Siria è per mano di Alberto, sta parlando con lui ad un certo punto strambotta una parola: nonno voglio la pela! Non capiamo quello che dice, cerchiamo di indovinare, le proponiamo alcune cose, lei dice sempre no, si ferma e un po’ arrabbiata perché noi non capiamo, in maniera decisa ci dice: Pela, come quella rossa di Biancaneve, indicando delle belle mele rosse in mostra sul banco dell’ortolano.
Mirko /2009
Sono al campeggio con Mirko e Siria.
Io le mie figlie abbiamo deciso di rispettare la volontà di Alberto, aveva prenotato lui la vacanza, ma non ce l’ha fatta a godersela, la malattia se l’è portato via prima.
Io e Mirko e Siria siamo fissi al campeggio, Sonia e Stefania con i mariti vengono il fine settimana. Vicino alla nostra piazzola c’è la famiglia di mia cognata questo mi ha aiutata.
E’ domenica stiamo pranzando tutti sotto il gazebo, si parla di tante cose anche se siamo un po’ sfasati, ci manca Alberto.
Ad un tratto si sente la vocina di Mirko che dice, mi fa freddo alle dambine (gambine)
Siria – Derek – Mirko 2010
Sono in bicicletta sto facendo il percorso che porta al mare, la pineta mi avvolge con il suo profumo, Stefania con i bambini e già in spiaggia .
Lascio la bici, l’allucchetto alla recinzione.
Passata l’ultima duna, davanti ai miei occhi si stende un mare placido con dei colori stupendi dal celeste chiaro al blu intenso, i raggi del sole sulla superficie dell’acqua brillano.
Vado alla mia sinistra, vedo già i bambini, stanno giocando.
Quando arrivo da loro, Derek ha fatto una buca abbastanza profonda e c’è dentro, inizia a farmi delle smorfie con la bocca e a strabuzzare gli occhi , io mi prendo paura, lui ride soddisfatto.
Mirko e Siria prendono l’acqua con i secchielli per riempire la buca, mi metto a giocare con loro. Propongo di fare una macchinina a quattro posti, tutti e tre acconsentono, iniziamo il lavoro, è riuscita una bella macchinina, ci hanno giocato un bel po’ di tempo.
La macchinina l’abbiamo fatta altre volte, visto il successo dell’idea.
2012 Derek
E’ domenica pomeriggio , l’aria è tiepida, sto andando al campo sportivo c’è il torneo di calcio dei ragazzini del paese, Derek gioca nella prima partita, Mirko nella seconda.
Sono nella tribuna, inizia la partita, i miei occhi non si staccano da Derek, sta giocando bene, è veloce sul campo, ha dei contrasti con altri giocatori, se la cava sempre bene, più che seguo la partita più dentro mi sento crescere la tensione, per la competizione fra le due squadre, contribuisce a questo mio malessere, la rabbia di alcune persone che assistono alla partita e incitano i loro giocatori, con frasi denigranti nei confronti dei ragazzi dell’altra squadra, e frasi violente e cattive come rompigli le gambe. Non ce la faccio più ha sentire questo tifo sguaiato, la tensione la sento forte dentro lo stomaco, decido di andare via, non vedo la fine della partita di Derek , né la partita che aveva da giocare Mirko, appena mi allontano dal campo di gioco mi sento subito meglio.
Stanno crescendo velocemente. Vorrei fermare il tempo, almeno per un po’.
Rivederla aveva rinnovato in me emozioni così forti che mi appoggiai al vecchio eucalipto ancora rigoglioso e rassicurante.
La grande casa mi aveva accolta bambina e nonostante il tempo avesse cancellato l’antica armonia apparve ai miei occhi ancora pregna di sorrisi e affetto, non sentivo le risate dei bambini che rincorrevano le galline e neppure i canti notturni, ora se ne stava solitaria e abbandonata a se stessa ricordando con un po’ di nostalgia un tempo ormai lontano.
In quella pianura avvolta dall’aria salmastra del mare poco distante erano state costruite molti poderi con la riforma fondiaria che assegnava ai contadini più bisognosi qualche ettaro di terra e l’abitazione, erano tutte uguali queste case con grandi spazi atti ad accogliere famiglie numerose.
Tutto sembrava come allora, il pozzo era sempre lì e rivederlo così piccolo e spaventato mi fece sorridere perchè da bambina mi sembrava gigantesco e quando tiravo su l’acqua avevo una gran paura di caderci dentro! L’intonaco scortecciato, le finestre sbarrate e il grande silenzio che l’avvolgeva mi fecero capire che fosse abbandonata da molto tempo, rividi i miei zii indaffarati a tramestare nell’aia e i miei cugini più grandi di me che ci facevano giocare con quello che si trovava in giro, legnetti, pietre, sassolini e facendosi spazio tra i ricordi per un attimo ritornò a vivere.
Il grande arco che portava a una veranda chiusa era intatto, nel mezzo c’era ancora il tavolo, la panca e qualche sedia e appoggiato alla parete c’era il mettitutto avorio profilato di azzurro, mancava solo la stufa a legna dove la zia con poco faceva mangiare tutti.
Ci andavamo d’estate quando la scuola chiudeva, l’attesa dei miei genitori diventava insopportabile e lei materna e accogliente ci riparava dalla tristezza, lì sentivo l’amore di cui ero privata.
Tante case sparse in qua e in là e tante vite abbandonate a se stesse, in balìa di un destino che se ne fotteva dei loro dolori nascosti con pudore e dignità, ma quella gente non si abbatteva, sapevano che le battaglie vanno combattute con coraggio, senza troppi lamenti e ogni giorno sfidavano quel destino cieco e sordo e inventavano momenti di allegria per dare un po’ di tregua ai loro poveri cuori.
Nelle sere d’estate quando la frescura rasserenava gli animi uomini, donne e bambini si trascinavano lungo l’unica strada bianca che collegava le case e spesso si fermavano nell’aia della zia che accoglieva tutti sotto il grande eucalipto mentre lo zio, pronto a raccontare aneddoti divertenti e a intonare canzoni popolari portava allegria e spensieratezza, i più piccoli andavano a giocare sotto il grande fico dove un’altalena li aspettava felice di riprendere il volo.
Attraversai la stalla confinante con la veranda e per un attimo sentii l’odore della paglia mista al letame e lo scalpitio di Stellina, la giovane cavalla tanto temuta, forzai la vecchia porta sgangherata e mi trovai sul retro della casa, il forno trasformato dallo zio in una conigliera era sempre lì e la recinzione del pollaio dove io e mio fratello andavamo a prendere le uova era ancora intatta.
I ricordi si accavallavano e mi rividi con mio fratello mentre portavamo a pascolare i tacchini di cui io avevo grande paura e quando aprivano la coda a raggiera e sentivo quel verso buffo e assordante “gluh gluh gluh” mi stringevo a lui che come un bravo pastore mi proteggeva.
-Se volete mangiare dovete faticare!- Diceva scherzosamente lo zio, ma noi lo prendevamo sul serio e senza fiatare andavamo sotto il sole cocente nei campi appena mietuti cosparsi di chicchi di grano. E poi arrivava il tempo della vendemmia che avveniva prima del nuovo anno scolastico e la pigiatura dell’uva, un rito che si ripeteva ogni anno si trasformava in un vero e proprio momento di gioia, entravano nel grande tino prima i miei cugini e quando l’uva era già schiacciata facevano salire anche noi che cantando le canzoncine imparate a scuola ci divertivamo a saltare e ballare senza preoccuparci troppo di sporcarci assaggiando il dolce succo d’uva che ci imbrattava il viso trasformandolo in una maschera, si comprava così una giornata di divertimento senza spendere nulla.
Osservavo ogni cosa con meticolosità come se fossi andata lì per vedre se tutto era a posto poi ritornai sotto l’eucalipto e mi sedetti sulla terra dura) più piccoli per terra, dopo la calura del giorno i vicini si erano ritrovati come spesso accadeva dai miei zii e seduti in un grande cerchio raccontavano gli ultimi fatti, gli uomini si accanivano contro la siccità o il governo che pagava poco, le donne parlavano sottovoce degli affanni quotidiani e i bambini giocavano ai “ cinque sassolini “, io ero diventata esperta e nelle gare vincevo quasi sempre, era questione di abilità e di allenamento e quando nell’ultimo passaggio buttavo in aria i cinque sassi riprendendoli tutti in una sola volta ero la bambina più felice del mondo.
Era buio da qualche ora e s’incominciava a sentire il freddo della notte così gli uomini fecero un grande falò nel mezzo del cerchio e qualcuno intonò timidamente una canzone poi se ne unirono altri e altri ancora e nell’aria oltre alle scintille e alle fiamme che si rincorrevano si spandeva un’unica voce che saliva con slancio, quasi con violenza fino all’alto dei cieli come a voler dire”Ascoltate, ci siamo anche noi.”
La luna li guardava in silenzio e, generosa come sempre, li strinse in un abbraccio con i suoi fili di luce, il buio aveva nascosto i pensieri pesanti e tutti si sentivano liberi e più forti. I più piccoli aggrappati al seno della madre e cullati dal suo respiro dormivano e via via che il fuoco si tramutava in cenere le voci diventavano sempre più sussurrate e le persone come lucciole sparivano nel buio della notte.
Le luci del giorno appena nato ridavano vita alla casa, la prima ad alzarsi era sempre zia Lucia che già dalla mattina si dava un gran daffare affinchè tutti vivessero al meglio la giornata, con la sua andatura lenta e pacata camminava senza far rumore intenta a preparare la colazione per tutti, nel suo vestito nero mi sembrava già vecchia la zia, ma il viso tondo e paffuto, gli occhietti buoni e il sorriso gentile le davano un’aria da ragazzina, via via come fantasmi uscivano dalle camere lo zio Nicola e i quattro figli e noi che dormivamo in una brandina messa per l’occasione nella grande sala da pranzo ci alzavamo attratti dal profumo del latte appena bollito e mangiavamo con gusto il pane spalmato con la panna , ultime erano le due nipotine di sei e quattro anni che correndo sulla punta dei piedi come piccoli anatroccoli cercavano le braccia della mamma.
Nel ricordo sentivo ancora le voci che si rincorrevano, litigavano o scherzavano mescolati agli odori che nel tempo non sono scomparsi, ricordo con un po’ di nostalgia il profumo del latte appena munto o quello delle “frittelle povere” che faceva la zia con tanto pane raffermo, le uova e poco formaggio.
Tante immagini e tanti volti scorrevano davanti ai miei occhi , stavo guardando una parte della mia storia che mi sembrava ancora più bella di quella che avevo vissuto tanti anni prima.
Camminavo lungo la rete del pollaio e con la coda dell’occhio vidi in un angolo della rimessa dei motori lo “zanzino” di zi Ncò, era il motorino dello zio chiamato così perchè proprio come una zanzara saltava da una casa all’altra in cerca di qualcuno con cui chiacchierare e fare quattro risate.
Era un tipo da spiaggia zì Ncò, attaccava bottone con tutti e siccome aveva la risata nel sangue tutti lo cercavano e lui passava più tempo davanti a un bicchiere di vino e a un mazzo di carte che nei campi, motivo ricorrente nei litigi con la zia.
Quella mattina eravamo andati nel campo a cavare le barbabietole e mentre gli uomini zappavano per estrarle dalla terra noi ne facevamo grandi mucchi, per noi bambini, inconsapevoli di dare un valido aiuto, era un gioco divertente, ma per la zia che si era alzata più presto del solito per preparare il pranzo non lo era affatto e con la schiena chinata e il fazzoletto legato in testa a riparare dalla polvere i capelli raccolti in un “tuppo” mi sembrava ancora più vecchia. Era la sorella maggiore di mia madre, tra le due c’era un profondo legame che le univa in una vita diversa , ma ugualmente difficile e per me è sempre stata la zia buona e saggia a cui ho voluto tanto bene.
Eravamo quasi a fine del lavoro e quando le forze incominciarono a mancare, come formichine affaticate ci avviammo in fila verso casa, zì Ncò prese lo zanzino e volò via e in un attimo sparì senza dare il tempo alla zia di dirgli “ Ncò u pancott è già pronto, non fare tardi!”
Arrivati a casa ognuno si dava da fare, noi piccoli prendevamo le sedie sparse un po’ dappertutto, la zia e le cugine misero il paiolo con la verdura e le patate sul fuoco,) aggiunsero il pane raffermo e versavano il tutto nel grande piatto di creta, di quei piatti tipici pugliesi decorati con i fiorellini blu.
Era pronto, il lavoro e l’aria salmastra del mare ci aveva scatenato una gran fame così seduti intorno al tavolo e con la forchetta in mano aspettavamo il via della zia che invece se ne stava zitta perchè se mancava il “capofamiglia” non si mangiava e il capofamiglia non arrivava e la zia sempre più nervosa camminava nell’aia nella speranza di vederlo arrivare.
-Sempre così! Chissà da chi sarà andato ora! Lui fa il suo comodo e noi qui ad aspettarlo! Vincè prendi Stellina e vai a cercarlo prima che perda del tutto la pazienza!-
Vincenzo era il figlio più piccolo, appena sedicenne cavalcava la giovane amica come un vichingo, il mare si specchiava nei suoi grandi occhi azzurri e i capelli biondo grano diventavano dorati sotto i raggi del sole, io ero affascinata da questo cugino sempre sorridente e bellissimo e ancora oggi mi piace ricordarlo fiero e orgoglioso in groppa alla sua Stellina. Lo trovò da compare Lunard con il bicchiere di vino in mano che se la spassava, appena vide il figlio sbiancò in viso e solo in quel momento si rese conto di quanto tempo fosse passato. Zia Lucia era furibonda e lo accolse con improperi.
-Sei sempre il solito! Ma ti sembra normale presentarti a quest’ora? – Heeee, ma come la fai lunga, sempre la solita esagerata!- Per lui la vita era un grande spettacolo la cui sceneggiatura veniva improvvisata di giorno in giorno.
Via via che continuavo la visita i ricordi mi ritornavano alla mente con una tale chiarezza e lucidità che sentii vivo e profondo l’affetto per i miei zii e provai una gran tenerezza per quella bambina di dieci anni troppo timida e impaurita.
Ritornai fuori per prendere una boccata d’aria e mettere in ordine quelle dolci emozioni che mi avevano portato indietro di sessant’anni, mi ritrovai nella grande aia dove veniva fatta la battitura del grano, mi sembrava di vederlo lo zio che guidava Stellina facendola trottare in cerchio per battere le spighe e le donne, imbacuccate nei grandi fazzoletti per ripararsi dalla polvere urticante, con i forconi lanciavano in aria paglia e spighe per ventilare il tutto e liberare i chicchi che poi venivano raccolti in sacchi di iuta.
Il ricordo più divertente era la cattura degli uccellini, oggi la vivrei come una crudeltà, ma allora era diverso, per noi bambini era un gioco e per gli adulti era una strategia per arricchire la tavola di buon cibo. In un certo periodo dell’estate c’era il passo degli uccelli e lo zio con i miei cugini installavano nell’aia una lunga reta da pescatore fissata a due robusti pali e verso il tramonto decine di uccelli s’imbattevano in essa rimanendovi impigliati con grande festa di tutti.
Il cielo stava indossando i vestiti del tramonto e in lontananza sulla lingua azzurra si riflettevano sfumature di rosso, arancio e rosa e capii che era giunto il tempo di andare. Un ultimo sguardo per fissare le immagini, un altro ricordo si era aggiunto alla lista e un po’ nostalgica mi avviai verso la macchina.
Nel ripercorrere quella strada rividi i poderi appoggiati sul terreno come guardiani di antichi ricordi e sogni e immersa nei miei pensieri inchiodai davanti alla casetta di Marietta, rimasta vedova ancora giovane trascorreva con i due figli gran parte dell’anno in quel luogo di pace e quando lei non c’era ci andavo con mio fratello che saltando dal fico al tetto cercava i nidi degli uccellini nati in primavera che se ne stavano appollaiati in attesa della prima lezione di volo.
Come le mollichine di pane di Pollicino i ricordi ci cullano in un tenero abbraccio e ci fanno ritrovare la strada per ritornare a casa
Ricordo una strada in salita, delimitata da un alto muro che la separava dal giardino di un’antica villa. Biforcandosi dava origine ad una scalinata sconnessa, dove erbe spontanee e minuscoli fiorellini azzurri (i non ti scordar di me) nascevano in libertà. In cima c’era la chiesa del paese abbracciata da scale proprie e da un ampio spazio; a destra la canonica e vecchie costruzioni fra cui la scuola.
Sulla sinistra ci si poteva affacciare al muro che sorreggeva questa altura e osservare al di sotto poche case, alcune attaccate insieme a formare una insolita costruzione irregolare e la strada che continuava per Vallina da una parte e per Villamagna dall’altra.
Si poteva notare un Bar che faceva anche da forno ed alimentari, luogo d’incontro per la popolazione e altri che, passando si potevano fermare per un caffè o un goloso panino, magari consumato sulla grande terrazza accanto, dalla quale si ammirava uno splendido panorama della città di Firenze.
Dalla parte opposta quasi scavata nella roccia della rupe ecco l’Ufficio Postale: due stanze non troppo grandi e un corridoio. Nella stanza d’ingresso pochi mobili: una bilancia pesa-pacchi, uno scrivi-in piedi, una panca per l’attesa. Alla seconda stanza si accedeva da una porticina a due ante che funzionava tipo saloon del far-west e in quella si notava una scrivania abbastanza grande con accanto un tavolino per la ricevente, alcune sedie e, vicino al muro, uno schedario con tante cassettine.
Le due stanze consecutive erano divise da una parete per quasi la metà a vetro, per i servizi al pubblico. Non era proprio quello che sognavo come primo impiego, ma tutto sommato ero vicina a casa, avevo la macchina ed era solo l’inizio.
Era la fine di giugno ed ero dovuta rientrare dalle vacanze al mare per quella improvvisa chiamata. Alle 8,00 del mattino, lasciata la macchina prima del paese, mi ero arrampicata per quella salita respirando l’aria fresca piena di profumi della campagna e di pane appena sfornato, guardandomi intorno alla ricerca dell’ufficio postale, del quale non avevo mai saputo l’esistenza e lo trovai abbastanza facilmente.
Entrando nella stanza d’ingresso abbastanza impacciata, vidi al di là del vetro, un signore non tanto giovane, con gli occhiali sul naso che mi guardava incuriosito.
“Desidera signorina?”
Tirai fuori la voce e…”Buon giorno, sarei la nuova impiegata, mi hanno comunicato di venire qui e…” Quest’uomo, che poi era il direttore, balzò sulla sedia e si precipitò ad accogliermi con grande gioia. Gentilmente, mi introdusse nella sua stanza. Entrando notai lateralmente uno stanzino senza finestra dove, alla luce fioca di una lampadina polverosa, due vecchietti, così mi sembrarono a prima vista, toglievano dai sacchi la corrispondenza che poi dividevano inserendola in un casellario. Anche loro mi guardarono al di sopra degli occhiali e mi sorrisero in segno di benvenuto. Il direttore poi mi spiegò poi che nessuno aveva voluto rimanere in quell’ufficio oltre il tempo obbligato perché troppo lontano dalla città e privo di mezzi. Lui era molto felice del mio arrivo, e visto che avevo il mezzo, ed ero di Bagno a Ripoli si augurava che rimanessi.” Vedrà che si troverà bene” mi disse” l’ufficio non è granchè ma cercheremo insieme di migliorarlo, e poi siamo fra brava gente!”. Fu così che vi rimasi per 17 anni. Ed aveva ragione perché conoscendo le persone mi sentii come in famiglia.
I primi giorni furono abbastanza impegnativi, data la totale ignoranza della materia, ma poi col passare del tempo tutto divenne più facile. In un paese così piccolo, nel quale si conoscevano tutti, divenni la novità di cui parlare e, a turno, per qualsiasi sciocchezza entravano spesso solo per curiosare. Soltanto per determinate scadenze l’ufficio si riempiva, negli altri giorni chi veniva si intratteneva volentieri a parlare del più e del meno. E fu così che feci la conoscenza non proprio di tutti, ma di molti.
Volti, fatti, ricordi si susseguono a non finire; alcuni più presenti di altri. C’era un anziano signore che ogni mese veniva a pagare dei bollettini per beneficenza ed entrando mi salutava così” Buongiorno e quattr’ova!”. Non ho mai saputo a cosa si riferisse, ma non potevo trattenermi dal ridere e lui rideva insieme a me. Aveva occhi chiari, calmi e dolci e se ne andava dicendo” A poi”.
Spesso, il rumore scoppiettante di un’ape annunciava l’arrivo del “canterino”, un personaggio alquanto strano e particolare: era piccolo e ossuto vestito con abiti logori, ma abbastanza puliti per il lavoro che faceva (raccoglieva ferri vecchi nelle discariche), aveva occhi vispi e canzonatori e due guancette rosse che sembravano dipinte. Non disdegnava qualche bicchiere, ma non l’ho mai visto alticcio. Era bravo a improvvisare rime. Sul dietro dell’Ape scritto – Se vuoi campar cent’anni e un pochinino rispetta l’acqua e bevi sempre vino! – Quella mattina, come di solito, aveva fatto capolino alla porta dell’ufficio e, dopo un breve saluto, aveva tirato fuori dalla tasca alcuni fogli e me li aveva dati dicendo ”Questa eh la scrissi dopo l’alluvione, gliela regalo, mi faccia sapere se la gli piace”. E se ne era andato ricomparendo la mattina seguente con una serie di monete trovate chi sa dove che mi regalò. Il minimo era offrirgli la colazione che gradì molto. Mi ero fatta un amico.
Venivano anche a riscuotere lo stipendio alcune insegnanti fra le quali in particolar modo ricordo Tina sempre sorridente, dolce e gentile e, dentro di me pensavo alla fortuna che avevano avuto i bambini ai quali accudiva. Veniva anche una suora, timida e dimessa alla quale consegnavo una busta con l’importo esatto che doveva consegnare a Madre Superiore.
Anche la nobiltà passava spesso a ritirare la posta dalla propria casella: un conte elegante, sostenuto ed altero, un pediatra famoso, un giudice e anche uno scrittore che mi regalò un suo libro con tanto di dedica.
Nei periodi di minor lavoro mi annoiavo un po’, ma aprendo la finestra, nella bella stagione potevo sempre godere alla vista di quella terrazza prospiciente al bar sulla quale si ritrovavano spesso vecchi, giovani e ragazzi. Fra questi rivedo Stefania, Paolo così giovani ed altri loro compagni: alcuni fra i più vecchi improvvisavano su strumenti propri vecchie canzoni; ed era tutto un ciarlare, un ridere, uno star bene in compagnia che mi coinvolgeva anche se non ero lì con loro.
Nel frattempo il vecchio direttore era andato in pensione lasciando il posto ad uno più giovane simpatico e sempre pronto a far battute e raccontar barzellette intrattenendosi a volte con gli utenti che gradivano quel fare scherzoso e fuori del comune.
L’ufficio non era più lo stesso, il lavoro era cresciuto molto e erano arrivate altre due impiegate; lo spazio era veramente minimo. Intanto a Bagno a Ripoli era in costruzione un nuovo ufficio più moderno e funzionale, Candeli era destinato alla chiusura e il nuovo direttore pensò bene di andare in pensione. Io mi trasferii a Bagno a Ripoli e incominciai un’altra storia.
DA CANDELI A BAGNO A RIPOLI
Ricordo che l’ultimo giorno a Candeli fu molto triste. I colleghi quasi mi ignorarono non capendo perché avevo chiesto il trasferimento sei mesi prima della chiusura definitiva di quell’ufficio. Avevo le mie buone ragioni, la più importante delle quali era mia madre che, dopo una serie di malanni, richiedeva una presenza continua. A Bagno a Ripoli potevo usufruire del doppio turno così da potermi organizzare mattina o sera. Anche la gente di Candeli non la prese molto bene e all’inizio sembrò loro quasi un tradimento.
Il giorno in cui mi presentai nel nuovo ufficio fu tranquillo; conoscevo già tutti sia impiegati sia portalettere e fui accolta con calorosi abbracci. Mi sedetti nella postazione dei servizi vari e incominciai il mio nuovo giorno di lavoro: pagamenti e riscossioni.
Non ero abituata a lunghe code e cercai di andare avanti a capo basso finché qualcuno, mi riconobbe e mi salutò chiamandomi per nome, felice che fossi lì. Altri, avendo seguito la scena, si incuriosirono e, fra chi mi conosceva fin da bambina e chi era lì di passaggio venendo da Candeli, mi trovai a lavorare in modo abbastanza piacevole. Scoprii più tardi che le cose non erano sempre così e la maggior parte ti considerava con estrema freddezza. Fortuna che ogni tanto qualcuno interrompeva la serie e si mostrava gentile!
Intanto proseguiva speditamente la costruzione del nuovo ufficio. Quando insieme ai colleghi andammo a visitarlo, pochi giorni prima dell’apertura, ci sembrò molto bello e funzionale: grandi spazi, pavimenti lucidi a specchio, banconi azzurri dotati di moderni computer, grandi vetrate che si affacciavano sul cantiere della nuova Coop, anch’essa in costruzione. Niente a che vedere con quello dal quale provenivo e dove avevo lasciato un pezzetto del mio cuore.
Di lì a pochi giorni si tenne l’inaugurazione alla quale, oltre al personale al completo, presero parte il Sindaco del Comune e altri responsabili delle Poste. Ricordo che mentre ero là ascoltando lodi e discorsi vari, sentii qualcuno avvicinarsi quasi di corsa, che mi si infilò sotto braccio abbracciandomi: era Lorenzino, un ragazzo che era stato compagno di classe di mia figlia ed ora lavorava in Comune. Col viso rosso e un po’ vergognoso mi sorrise e io fui felice che mi avesse riconosciuto. Mi ero fatta un amico che da allora in poi giornalmente mi consegnò la borsa con la posta del Comune.
Ricordo anche che alcune mattine, quando era il mio turno di apertura della porta dell’ufficio, insieme alla gente che aspettava di entrare, c’erano diverse persone anziane per lo più uomini che venivano a vedere dal balcone come andavano avanti i lavori della Coop e con loro scherzavo “L’avete fatto il biglietto? Per domani c’è qualcuno che si incarica per la vendita?” Ridevano e facevano e qualche battuta allegra. Era un modo piacevole per iniziare la giornata.
Tanti sono i ricordi e molto è il tempo che è trascorso. Sembra ieri, eppure sono 20 anni che sono pensionata, incontro ancora qualcuno di allora che mi saluta e mi abbraccia e di questo sono felice.