La lettera a Cecilia di Rossella G.: vado a Livorno

Cara amica ti scrivo…. – di Rossella Gallori

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Vado vicino, per andare lontano

Carissima

…scriverti, originale, l’idea un po’ mi spiazza, ma ce la devo fare, deluderti? No non sarebbe il caso.

Sono su questo treno del cavolo che dondola un po’ troppo per i miei gusti, detesto viaggiare, non ho senso dell’orientamento, mi stanca solo il pensiero e e e…non voglio annoiarti sai già tanto di me, qualcosa ti risparmio!!

Quindi ti dicevo: il treno è affollato, ma era l’ unico modo per raggiungere Livorno, a piedi? non potevo,  troppo lontano, in macchina? non ho patente, a nuoto, ma da dove mi butto dal ponte Vecchio? Dal Girone? In bici?  Sieeeee non ci so andare. Quindi treno sgangherato e via.

Devo ritrovare parenti quasi sconosciuti, ti dirò ho cercato di raccontarlo al signore accanto a me, annuiva, sorrideva, poi ho capito che era sordomuto, la conversazione silenziosa con la sua compagna me lo ha confermato.

Cerco gente che mi somigli, so dove andare, cerco cognomi che non sono il mio, che conosco bene.

Ma ci sarà ancora il ghetto? Il mercato americano, i quattro mori?

Il viaggio è breve Ceci, ma per me è tutto lontano, lontanissimo, poi oggi ho caldo, mi sono vestita troppo, le mie solite seghe mentali: …..e se tira vento? Se il mare è mosso? Se i gabbiani avessero la diarrea? Con il terrore del puzzo di pesce, dove andrò a mangiare? Ricordo però un posto unto anche nell’insegna con la cecìna che sembra la luna, con il proprietario con la faccia a luna, con camerieri con la luna storta, vicino all’ acquario, credo.

UNA voce un po’ metallica annuncia la fermata prima di Livorno, Cast…che ne so. Spero di non avere difficoltà a scendere, mi ci mancherebbe un gradino troppo alto, così invece che “ ai mercatino amerhano” vo a finire all’ ospedale” de ginocchi sfatti”

Ma tu come stai Ceci? Sei contenta che prenda un giorno per me? Magari diventan due, tre,  se trovo un chicchessia che mi ospiti, scrivo ai mi omo: un torno, per ora! Sarebbe carino, a proposito il tuo di omo icchefa?? Mi perdoni la mia fiorentinità vero!

Ora concludo, devo scendere, i deh, i bimbo, mi rimbalzano già in testa, famigliari a tratti. Te l’ho già detto che ho un foglio con dei cognomi e gli indirizzi? Tutto in borsa che pesa di ansie e cose.

Poi quando torno ti farò sapere, forse son tutti già morti e sepolti, prima del mio arrivo  e questo pellegrinaggio è stato inutile, o forse mi riconosceranno, ho ascoltato tanto la loro lingua.

Scendoooo Ceci scendo, vo per leVenezie!!!

Ps: alla stazione  sul treno Livorno/ Firenze dal finestrino  ho visto una nuvola rossa, forse era fuoco, una testa in fiamme!  Anche stavolta la Madonna di Montenero, unnà fatto grazie!!!!

Lettera a Cecilia di Anna: vado a Genova, anzi no a Pisa

IN TRENO VERSO PISA – di Anna Meli

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Cara Cecilia,

ti scrivo per metterti al corrente che oggi, in questa bella giornata di sole, ho deciso di godermela e andare a Pisa: un po’ d’arte, un po’ di mare condite di spensieratezza.

            Avevo proposto a Nadia di accompagnarmi, ma non ho avuto risposta. Forse avrà avuto qualche altro impegno. Ho deciso che la richiamerò una volta salita in treno.

            Sono in stazione e salgo con un po’ di fatica lo scalino della carrozza; c’è abbastanza gente ma, strusciandomi un po’, sono riuscita a sedermi vicino ad un anziano signore dall’aria importante con tanto di baffi e occhiali, assorto nella lettura di un giornale. Mi guarda un po’ di traverso, poiché è costretto a spostarsi per farmi posto vicino al finestrino. Riesco comunque ad accomodarmi.

            Il treno è in partenza, esce lentamente dalla stazione; osservo i binari che si incrociano in basso e cavi elettrici in alto che formano una gigantesca rete nella quale mi sento quasi prigioniera.   Solo pochi momenti e la locomotiva corre veloce vero la meta.

Mi squilla il telefono; rispondo. E’ Nadia che si scusa di non aver risposto al mio invito. Aveva dovuto recarsi a Genova per questioni familiari ed ora stava tornando e viaggiava in senso contrario al mio.

            E’ molto tempo che non ci vediamo e, nell’occasione, dopo lo scambio dei saluti e notizie varie, decidiamo di incontrarsi in una stazione lungo il percorso comune. Propongo Pisa e sento che lei mi sta rispondendo, ma la linea viene e va, Riesco a capire “Genova…poi dopo un breve intervallo…for La Spzi…altro intervallo.’’ La linea è molto disturbata. Ripeto lentamente e nel modo più chiaro possibile “ Pisa, scendi a Pisa!’’ e chiudo.

            Il viaggio continua, attraversa campagne incolte e abbandonate, si nasconde in buie gallerie, poi riemerge e respira alla visione dell’azzurro di qualche tratto di mare.

            Mi sento sospesa, forse dormicchio un po’, riesco solo a vedere al di là del finestrino una striscia azzurro-grigiastra che delimita l’orizzonte. Il treno sta rallentando, passano pochi minuti ed ecco ci siamo. Mi alzo, mi stiracchio, do una sbirciata fuori per vedere se Nadia è arrivata. Forse meglio scendere.

            La cerco prima con lo sguardo, poi mi incammino con fare incerto in varie direzioni ma niente, non c’è. Mi informo dell’arrivo del suo treno. Mi dicono che dopo una breve sosta è ripartito.

            Cerco ancora fra la gente, al bar della stazione, ma niente, niente da nessuna parte. Ho capito, forse non ci siamo intese. Dalla borsa prendo il telefonino e le scrivo un messaggio “ Mi dispiace non esserci incontrate, ma se sei qui da qualche parte ti invito a venire in Piazza dei Miracoli, io vado là.’’

Lettera a Cecilia di Nadia: torno da Genova

LETTERA DAL TRENO – di Nadia Peruzzi

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Cara Cecilia,scrivo circondata da ragazzi vocianti che mi stanno rompendo i timpani e non solo quelli. Per cercare di sopravvivere al gran bordello,attorno e dentro la mia testa,ho tirato fuori dalla borsa carta e penna per vedere se scrivendoti riesco ad estraniarmi dal caos. Sto tornando da Genova. Come sai ho ancora dei parenti lì e ogni tanto li vado a trovare. Genova per me è terra di legami indissolubili e di affetti e ricordi che oltrepassano la linea fra l’esserci e il non esserci più. Sento più di un pizzico di nostalgia quando salgo sul treno che mi riporta a casa .I ricordi sono quelli di me bambina ,e di varie fasi della mia vita. È una città che è dentro di me,parte del mio patrimonio genetico,molto più di quella in cui sono nata.Ci sono stata così poco in quella,che vale solo come città in cui tornare da turista. Per questa invece è tutta un’altra storia.Ogni partenza è un pezzo di cuore che resta.Tanto più ora che ci sono solo nuove generazioni.Quelli con cui sono cresciuta ,andati,piano piano,tutti. Pioveva a dirotto,quando sono partita,e la pioggia sta accompagnando il viaggio. I disturbatori maleducati,si stanno tirando addosso di tutto,dal pop corn alle noccioline.Fanno venire gli istinti peggiori.Da “Wilma dammi la clava”,al pensiero di una penna di granito da tirare in testa al capo brigata,per vedere se placato lui si placano anche gli altri. Ci stiamo fermando a La Spezia.La fermata si fa più lunga del solito.Un calo di tensione elettrica,dicono. Potessero spegnersi anche le pile di questo gruppo di imbecilli starei meglio. Nemmeno la minaccia di una multa salata da parte del controllore sembra cosa che li preoccupi. Mi affaccio al finestrino che è tutto appannato .Sull’altro binario un treno che va in direzione opposta alla mia.Anche questo treno è fermo da un po’.Vedo attraverso il finestrino opacizzato dal vapore ,Anna con la sua espressione sempre tranquilla e serena. La saluto con un cenno del capo e un sorriso,mentre penso che nel suo vagone ci deve essere un silenzio che pagherei a peso d’oro. Vabbè, sopporterò ancora.Per fortuna lentamente i due treni si muovono. Che strano penso che Anna non abbia risposto al mio saluto. Forse non mi avrà visto. Nel dubbio ricomincio a scriverti ,perché mentre scrivo mi calmo e mentre penso riesco a distrarmi da quello che mi circonda. Mi sembra di essere entrata in una bolla di sapone,che mi fa da scudo protettivo.I rumori arrivano attutiti,la mente vola lontano. Non mi sono nemmeno accorta di aver passato Pisa. Mi torna in mente all’improvviso che prima di partire con Anna ci eravamo scambiate un messaggio,dandoci appuntamento a Pisa.Era da tanto che avevamo programmato una visita al Campo dei Miracoli,e l’occasione del mio rientro da Genova ci era sembrata provvidenziale. Ripenso alla signora cui ho mandato un saluto .Ecco perché non mi ha risposto.Ho preso una bella cantonata,Cecilia. E ora? Cecilia che faccio? Che figura! Sarà il caso di scusarmi subito con lei per averle dato buca,vero?Le scrivo un messaggio per spiegarle quello che mi è successo a causa della mia totale distrazione,sperando che nel frattempo Anna non si sia fatta prendere troppo dal nervoso.Non me la immagino arrabbiata,è sempre così calma e misurata , e spero che non si sia offesa troppo per questo disguido. Le proporrò ,se non se l’è presa troppo, di andarci in un altro momento. In macchina,questa volta. Saluti.Cecilia,incrocia con me le dita e speriamo che Anna l’abbia presa bene.

Lettera a Cecilia di Lucia: Vado a Parigi

foto di Lucia Bettoni

Cosa sarebbe la vita senza sogni?
Io ho un sogno e te lo voglio raccontare
Quando ero una giovane donna mi ero innamorata di un ragazzo del quale sapevo ben poco
Sapevo che abitava in una grande città e un giorno decisi di andarlo a cercare
Lo cercai e lo trovai
Ti sembra impossibile?
Credi che stia mentendo?
No, amica mia, è successo davvero e questa non sarà l’unica volta in cui un’evento così poco probabile succederà veramente nella mia vita
Tutto dipende da quanto un sogno è grande
Ti sto raccontando questo perché mentre ti sto scrivendo sono in viaggio per Parigi
Un altro viaggio, non più di una adolescente ma un nuovo viaggio di donna molto donna, perché è vero, non ho mai smesso di sognare
Ho sempre un sogno
Ho sempre quella forza che si chiama desiderio
Andrò a Place des Vosges, quella piazza in pieno centro nel quartiere Le Marais, uno dei luoghi che amo di più di questa bella città
Camminerò intorno alla piazza sotto i portici
Guarderò dentro ogni bar, dentro ogni negozio d’arte
Annuserò l’aria
Respirerò ogni profumo
Ascolterò il rumore di ogni passo
Scruterò ogni volto alla ricerca del suo
Mi siederò su una panchina, la piazza ne è piena
Aspetterò l’estate, l’autunno e tutte le stagioni
Aspetterò finché non lo vedrò arrivare
Sì, perché lui arriverà, ne sono sicura
Sentirò lo scricchiolio delle foglie sotto i suoi passi, poi la sua mano si poggerà sulla mia spalla
Mi volterò e riconoscerò i suoi occhi e non ci sarà bisogno di parole
Nessuna parola quando i sogni si avverano
Basta un attimo
Un solo attimo per un sogno
Poi ripartirò
Un treno mi aspetta
La mia vita mi aspetta
Mi fermerò a Torino
Andrò al Parco del Valentino
Andrò lì solo per passeggiare e chissà…
Sicuramente due amiche mi stanno aspettando

Lettera a Cecilia di Luca: Vado a Milano

Lettera dal treno – di Luca Miraglia

foto di Luca Miraglia

Carissima,

si é appena mossa la mia freccia per Milano e ho deciso di scriverti. Seduto al mio posto smart, coi bimbetti che fanno la loro colazione urlante, mi sono già scocciato di questo viaggio obbligato.

Non é la prima volta, e forse non sarà neanche l’ultima, di questo mio pendolare tra casa e Milano, e tu sai il perché.

Mi affatica più che altro il pensiero dello sbattimento urbano che mi attende: treno, metro, bus e una lunga camminata verso quell’ambulatorio di periferia tutt’altro che accogliente.

Le prime volte riuscivo anche a godermi un po’ la scoperta dei luoghi che attraversavo, cercando di intuire il gusto, lo spirito, il senso del vivere in una metropoli come quella. Oggi invece assaggerò solo la convulsa arroganza di un città difficile e spesso respingente.

Certo, il suo centro colto e progressivo, la sua anima propulsiva ed accattivante, ma quanto è scolorito e anonimo tutto il resto.

Non nego di esserne stato affascinato le prime volte che ho approfittato di questi miei viaggi di poco più di mezza giornata per inoltrarmi nelle sue pieghe storiche e nei suoi slanci futuribili, ma oggi, forse per il mio spirito mal disposto, non ho alcuna attrattiva verso di lei.

E intanto i bimbetti hanno cosparso di nutella e briciole il sedile accanto mentre mamma chiacchiera al cellulare… il buongiorno si vede dal mattino…

A presto.

Luca

Il personaggio di Tina: l’avventuroso casalingo

L’avventura – di Tina Conti

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Quanto fermento  nella sua casa, tutti mobilitati, la sorella aveva  contribuito  aggiungendo allo zaino altre  tasche tecniche e  impermeabili.

Al giaccone  a tre strati, avevano aggiunto  cerniere  e tasche , consigliate e realizzate dall’amico calzolaio, un vero talento  per lavori di precisione.

L’autunno con  le sue  giornate corte  ma ancora soleggiate consentiva di testare  i vari materiali   utili alla riuscita di quella impresa che  nel tempo aveva coinvolto e appassionato anche il resto della famiglia gli accessori con tecnologia innovative garantivano un funzionamento in condizioni estreme come la  lampada solare, il fornello ad anidride carbonica il telefono super  potente che   non necessitava di ripetitori satellitari.

Solo la sua mamma  come sempre era in ansia, non si aspettava  che a 55 anni  con moglie e tre figli  avrebbe ancora voluto compiere quella impresa di cui parlava da sempre.

E poi da solo, con quella attrezzatura casalinga di cui andava tanto fiero e che a lei non dava sicurezza.

Per anni, lo vedeva soddisfatto del lavoro, sportivo e allegro amante delle belle nuotate al mare e impegnato a far appassionare i suoi ragazzi alla vita all’aria aperta.

Poi, quel suo capriccio era ritornato fuori, ne parlava sempre, e cercava di coinvolgere i suoi interlocutori,  ma nessuno aveva deciso di seguirlo.

L’amico medico che  lo aveva sempre incoraggiato, si era impegnato a monitorarlo a distanza in ogni situazione, con il  kit di  pronto intervento che gli aveva preparato lo avrebbe fatto sentire al sicuro ovunque, anche lui però  non si era sentito di   affiancarlo.

Da mesi in casa a  rotazione aveva indossato una serie di calzature e indumenti che dovevano risultare comodi caldi e anallergici garantendo giorni sicuri.

Spesso, diceva che avrebbe brevettato   alcuni  degli oggetti da lui creati in quanto molto innovativi a basso impatto ambientale  così da mettere a frutto la sua esperienza.

Per allenarsi nelle giornate di pioggia, aveva sperimentato un    cavalletto dove sistemata la bici poteva pedalare per ore simulando terreni  diversi  di  pianura, di salita e ripide discese.

Il garage di casa sembrava un laboratorio spaziale, i vari materiali sistemati con cura e rodati a giorni alterni con registrazioni e tempi cronometrati apparivano perfetti.

Aveva già fatto  quattro tentativi  di partenza, ma qualcosa era sempre andato storto.

Oltre ad aver dovuto buttare le scorta di cibo per la sopravvivenza, si percepiva   anche una certa stanchezza negli amici fedeli.

Questa volta però, tutto avrebbe funzionato.

Recuperato un po’ di entusiasmo la moglie gli aveva preparto il suo bagno preferito con Sali e aromi del giardino, dopo una cena leggera   con le cose da lui preferite che facevano però storcere sempre il naso ai suoi bambini, si stava rilassando  nella sala adattata a palestra.

Suonò il barbiere, non sarebbe mai partito con la testa in disordine e la barba sfilacciata.

Dall’aspetto appariva in forma smagliante, felice e coccolato, si sentiva pronto.

Un ronzio strano però ad un certo punto lo infastidiva mentre nel suo studio riordinava le carte doveva lasciare le cose apposto, aveva fatto anche testamento per scaramanzia.

Il ronzio intanto si faceva insistente, si mise a guardare da dove proveniva  non  vide niente.

in poco tempo si accorse che  tutto quello che aveva fatto per una partenza impeccabile si stava rilevando vano, il ronzio era insopportabile.

Cominciò a sbatterei il ginocchio al tavolo, un occhio iniziò a traballare, stava perdendo la calma.

Stava tutto andando a rotoli per un grande favo di vespe che si era stabilito nel cassone dell’avvolgibile e che ora aveva invaso la casa.


 

Il personaggio di Vittorio: Ugo

Si chiamava Ugo – di Vittorio Zappelli

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Aveva aspetto curato………….

Ugo, così si chiamava

Quando si presentò a casa, subito mi stupì.

Magro, non tanto alto, vestito semplicemente ma con un tocco di antica eleganza. Anche l’accento romagnolo lo rendeva a sentirlo un poco strano quando parlava accennando alla sua storia.

Aveva fatto per tanti anni il contadino sotto padroni nella sua terra, poi invecchiando, si era trasferito dalle sorelle nella nostra cittadina.

Chiamato dal babbo ad aiutarlo in giardino e nell’orto dette subito prova della sua abilità e ben presto lui l’insegnante ed il datore di lavoro, l’alunno.

Così acquistò la fiducia di tutta la famiglia. Si portava dietro al lavoro una sacca con gli attrezzi utili per potare, spuntare, sfrondare. Essendo stato contadino e continuando a lavorare anche da noi all’aperto era sempre abbronzato. A tavola mangiava come un uccellino con supremazia del pane sul companatico.

Da qui a venire a stare in casa dei miei il passo fu breve e naturale. Sempre discreto ed educato, quando parlava, sempre a voce bassa, tirava fuori dei concetti di antica saggezza contadina che mi meravigliavano.

Quando avvenne in famiglia la mancanza del babbo si trasformò naturalmente nel sostegno ed aiuto della mamma, sempre pacato e discreto. Suo fu il primo pianto addolorato quando si tornò a casa dopo il funerale.

Così lo rammento con affetto e il  ricordo di lui si accompagna allo stupore che mi fece quando lo conobbi che spesso  mi suscitava durante il tempo passato insieme .

Il personaggio di Luca: Kummé

Nel villaggio – di Luca Miraglia

Tuareg and his horse in Tunisia desert

L’emissario del governatore attraversando tutto il villaggio si affacciava ad ogni porta chiamando con voce stentorea:

  • Kummè! Kummé!! Kummé abita qui?

Ma il silenzio regnava incontrastato nella mezza mattina assolata

Finalmente dal fondo di una spelonca un’anziana dalla pelle dello stesso colore del buio rispose:

  • Vai di là dell’ultima capanna e imbocca il sentiero, lo troverai sicuramente.

L’emissario così fece e dopo diversi minuti di cammino vide farglisi incontro una figura slanciata di uomo dall’aspetto sorprendentemente curato per quei luoghi. Sul volto scavato ma gentile gli occhi acuti risaltavano sul color bronzo della pelle cotta dal sole e dall’età.

  • Sei tu Kummé?
  • Chi lo vuol sapere, amico?
  • Rispondi, sei tu Kummé?
  • Amico, sono io Kummé, amico.
  • Il governatore ti vuole al suo cospetto, il motivo lo ignoro, ma devi venire con me, ora!

Kummé si rovistò nelle tasche della tunica: un pugnello di sale e un quarto di focaccia da una parte, dall’altra una presa di tabacco e l’ampollina di ambra profumata.

  • Bene – pensò tra sé e sé – qui a posto…

La bisaccia poggiata sul fianco gli pareva però un po’ più leggera del solito, già, aveva consumato tutta l’acqua e per questo se ne stava tornando sui suoi passi.

  • Allora! Che aspetti! – lo incalzò l’emissario
  • Devo prima riempire la mia borraccia, il cammino è lungo, mica è una passeggiata quella che ci aspetta, amico.
  • Non ti servirà. Ho io le scorte che servono ad entrambi per il viaggio – fu seccamente apostrofato dall’ometto tronfio – E poi smettila di chiamarmi amico. Io sono l’emissario del governatore e come tale mi devi rispetto ed ubbidienza, non amicizia,
  • Bene, amico – rispose Kummé con un sorriso gentile, accendendo di fulmini lo sguardo del suo protervo interlocutore.

I due si incamminarono verso il villaggio dove l’emissario aveva lasciato il suo cavallo ed un piccolo mulo carico delle scorte indispensabili per il viaggio di un uomo del suo rango: cibo per una settimana, vino per due ed acqua per tre (non sia mai che la missione di un giorno, tra l’andare e il tornare, si trasformi in una maledetta e forzata permanenza in quelle lande tra quei villani)

Il personaggio di Gabriella: Lui

Eterna sinfonia – di Gabriella Crisafulli

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Ormai era diventata brava: non si faceva più sopraffare dallo stupore.

Era successo senza che se ne rendesse conto.

Così, dopo tanti anni che se n’era andato, cominciava, se non proprio a fare pace con la sua assenza, almeno a conviverci.

Lui aveva un aspetto curato, un fisico asciutto e due mele sode che erano la fine del mondo: tanti anni di sport ne avevano scolpito il corpo.

Possedeva garbo, raffinatezza e una semplicità innata come quando, tolti i vestiti da lavoro e indossato un grembiule da cucina, si metteva a preparare la verdura per la cottura. Sfilava ogni gambo in maniera metodica, quieta, dividendo le erbe in tre recipienti che corrispondevano alla tre cotture successive.

Lei non aveva messo via quei ricordi però ora non interferivano più, o quasi, con il delicato meccanismo dell’esistenza quotidiana.

Purtroppo però l’isolamento emotivo faceva capolino in continuazione come un tarlo che rodeva senza sosta.

E allora le bizzarrie diventavano un’alternativa radicale alla solitudine.

Era come se intorno a lei ci fosse una grande orchestra inanimata formata da scatole, barattoli, gomitoli, forbici, coltelli, orologi, campanelli, fil di ferro, corde, carta vetrata, chiodi, martelli, sacchetti, lana, cuscini, coperchi, stoffe, colori, pennelli, palle, … in attesa di qualcuno, un direttore, che desse il via ad una sinfonia.

Una sinfonia sgangherata, distrutta, disordinata, una musica per erinni spettinate che danzano senza sosta.

Nessuno le guarda, nessuno le vuole: spaventano ed intimoriscono.

Ma loro, come le faraone, ripetono il loro verso senza sosta.

Il personaggio di Carla: il meticoloso

Chi lo vuole? – di Carla Faggi

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Si recò a passo spedito al negozio di elettrodomestici situato proprio al centro del paese. Comprò per l’ennesima volta una aspirapolvere nuova. La sua mania per l’ordine e la pulizia gli faceva usare l’elettrodomestico in maniera quasi costante. Per lui vivere in un ambiente pulito ed ordinato era essenziale, così come le sue abitudini quotidiane, le stesse azioni, gli stessi movimenti ogni giorno uguali. Da anni ormai.

Il lunedì era giorno di spesa, sempre le stesse cose, lo stesso menù, gli stessi accessori per la casa, gli stessi detergenti che usava in abbondanza. Quindi la spesa, ogni settimana ed ogni lunedì, sempre|

Il martedì faceva il bucato, gli stessi abiti tutti uguali, camice azzurrine, pantaloni e giacca blu. Anche i calzini erano tutti blu e corti. Le scarpe invece erano nere.

Ma le scarpe le puliva il mercoledì. Sempre e tutte anche se non le aveva messe.

Tutti i giovedì invece andava alle 18 in punto a trovare una vecchia zia al paese vicino e insieme ricordavano i momenti della sua infanzia ed adolescenza nella casa dei suoi genitori, sempre così caotica e sporca di cui si ricordava ben poco oltre il forte odore di muffa ed alcool. Ricordi di quel periodo ne aveva pochi e comunque li teneva ben nascosti. La zia cercava di ritrovarli, di tirarli fuori, ma niente da fare, erano ben nascosti!

Il venerdì, tutti i venerdì quando tornava dal lavoro dove si recava sempre rigorosamente a piedi, si fermava in biblioteca a prendere uno o due libri. Così che poteva leggerne uno il sabato e uno la domenica.

Ogni giorno così e da sempre!

Le ragazze del paese lo chiamavano “il bello misterioso” ma nessuna sembrava lo interessasse.

Per questo suscitava in loro un morboso interesse. Fu così che si instaurò una competizione al femminile e non solo, tra chi lo avrebbe conquistato.

Ci fu chi tentò con la seduzione, chi con la buona cucina, chi con la preghiera, chi adulandolo e chi perfino facendolo sentire in colpa.

Ma sarebbe stato troppo faticoso cambiare il proprio quotidiano inserendoci elementi nuovi quindi fino ad ora nessuno c’è riuscito.

Il personaggio di Carmela: Gigi

Gigi – di Carmela De Pilla

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Aveva un aspetto curato e un fisico asciutto, per quella sua passione di camminare era sempre abbronzato.

No, no! Ma che dico? Non era né curato né magro anzi direi piuttosto trasandato e grasso, sempre abbronzato o meglio bruciato dal sole per le lunghe camminate sulla spiaggia e per le tante ore sulla barca, indossava la prima cosa che gli capitava tra le mani, a lui non interessava il bel vestito “La gente ti apprezza per quello che ti scorre dentro le vene” diceva.

Gigi si chiamava e viveva da sempre in una lingua di terra tra il lago e il mare, conosceva bene l’odore e il sapore del mare e quello della terra limacciosa della palude, la sua giornata era scandita da gesti e affanni che ripeteva sempre allo stesso modo come fossero riti augurali per onorare quel Dio che troppe volte si era dimenticato di lui.

Prima che il sole tramontasse del tutto si sedeva sulla mezza sedia con un ammasso di reti da rammendare e con amorevole pazienza e cura le controllava centimetro per centimetro assicurandosi che non ci fossero buchi, mentre il lungo ago danzava tra le maglie della rete flotte di zanzare si avventavano su di lui che continuava imperterrito il suo lavoro, la pelle arsa dal sole e dalla fatica era diventata dura come scorza e gli faceva da scudo.

-Il sole è andato a dormire ed è meglio che ci vada anch’io sennò quest’inverno si sta al freddo!

 Quel terreno lo aveva occupato abusivamente il padre nel tempo in cui in palude si moriva di malaria e lui fin da ragazzino aveva vissuto lì, in un “paghiar” di paglia e argilla che dopo la stagione delle piogge riparava con dedizione come fosse un tesoro da custodire.

Nella bella stagione, alle prime luci del giorno si recava sulla spiaggia con passo lento e stanco trascinando una lunga corda, un sacco di iuta strappato qua e là e una vecchia sacca di pelle dove metteva i legnetti modellati dal vento e dal mare, a volte era un piccolo canguro o una barchetta oppure un cagnolino dormiente.

Si dondolava su se stesso come se seguisse il ritornello di una canzone e camminava silenzioso, non pensieroso, ma silenzioso, attento ad ascoltare il lento canto del mare che lo aveva accompagnato per una vita intera.

-No, quello è troppo pesante, non ce la faccio, verrò a prenderlo domani con Annina – e sceglieva con minuziosa attenzione ogni legno portato dal mare nei lunghi mesi invernali.

Quelli più piccoli li pigiava il più possibile nel sacco e quelli più grossi li legava con la corda e quando ne aveva presi abbastanza guardava il mare, lo ringraziava con un sorriso e si avviava verso casa barcollando sui piedi fermi e solidi abbastanza per sorreggerlo ancora.

Il personaggio di Stefania: la Camminatrice

Camminare e non pensare – di Stefania Bonanni

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Fisico asciutto, asciuttissimo, magrissima. Cammina sempre. Difficile fare due parole, non si ferma. Cammina ad ogni ora e con qualunque condizione meteorologica. Ha un aspetto curato, veste abiti sportivi che non si capisce se siano da uomo o da donna. La stessa cosa si pensa guardandole i cortissimi capelli bianchi. Da lontano sembra un ragazzino, non se ne capisce il sesso. L’ impressione è quella di una persona con pochi bisogni, anche perché ha sempre con sé un unico accessorio: una sacca di pelle rossa che porta a tracolla. Incuriosita, chiesi cosa contenesse e l’ aprì: una bottiglietta d’acqua, il telefono e i fazzoletti.

Mi ha sempre colpito il suo essere solitaria ma di corsa, vestita con abiti sportivi ma nuovi, essere sorridente ma non fermarsi mai con nessuno.

Parte dalla piazza di Bagno a Ripoli e la si può trovare in piazza Gavinana, alla Nave a Rovezzano,  al Piazzale, al Ponte Vecchio. Sempre sola, sempre di corsa, sempre più magra, sempre più abbronzata, sempre più veloce, sempre più pensierosa.Cammina, cammina, ricorda, ripensa, rivive. Pensieri ne ha tanti, lo so, so che non sono né belli, né buoni.

Continua a camminare, sola e concentratissima. Rivive strade, angoli, momenti. Rivive i pensieri dei momenti in cui aveva davanti a sé una mappa di possibilità.Si stupisce di come sia facile ingannare il tempo, nei pensieri. E come scalda ancora ripensare a quando era tutto possibile, tutto davanti. E sembrava pianura, la strada. Tutta pianura, come da Bagno a Ripoli fino al centro di Firenze. Pensava, sapeva, di dover camminare, ma sembrava sarebbe stato in leggerezza. Invece poi, di leggero, ha avuto solo una borsa di pelle ed un fisico asciutto.

Il personaggio di Sandra: il bello del paese

Uomini belli – di Sandra Conticini

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 La mattina si alzava presto ed usciva sempre vestito sportivo, ma ben curato.

Per le donne del vicinato era bellissimo e la mattina facevano a gara per spiarlo e cercare di capire cosa faceva, dove andava… insomma era diventato ”il bello del paese”.

Era arrivato all’improvviso a Casina, un borghetto, dove erano rimasti solo i vecchi. Tutti ormai abbandonavano la montagna, con il suo fresco estivo e i bei colori dell’autunno. Non si capacitavano come un signore così bello , per la sua età, avesse deciso di andare a vivere proprio lì! si perché a guardarlo qualche magagna ce l’aveva! Sicuramente gli occhiali da sole nascondevano quel  tic che aveva, il naso era un po’ troppo pronunciato e, a volte, quando camminava, sembrava che zoppicasse un po’.

Comunque con quell’abbronzatura, poteva permettersi di tutto.

Così la sera, quando le vecchiette erano a veglia davanti al camino, ripensavano alla bellezza dei loro uomini che  potevano fare a gara con “il bello”. Quando nei giorni di festa si rivestivano facevano la loro figura, alti, muscolosi, abbronzati, ma non erano curati come lui. La colpa era che lavoravano troppo e duravano troppa fatica.

Il personaggio di Patrizia: la danzatrice di passi

Camminare – di Patrizia Fusi

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Michela aveva la passione di camminare, il movimento le favoriva il ragionamento.

Le piaceva camminare nelle  strade di campagna, a seconda delle stagioni  riconosceva i profumi della vegetazione e il canto degli uccelli, tutto questo la rilassava.

Michela era iscritta alla facoltà di ingegnerie ambientale.

Nelle sue lunghe comminate riusciva a studiare e a leggere libri vari.

Il tanto movimento le manteneva un bel fisico asciutto, sul viso abbronzato i morbidi capelli biondi, quando  camminava si spostavano con delicatezza, come una danza senza musica.

Nel paese dove abitava trovavano questo comportamento molto insolito  e strano, pensavano che non si sarebbe mai laureata, ma quando seppero che aveva ottenuto la laurea con centodieci e lode le fecero i complimenti e la lodarono.

Il personaggio di Rossella B.: la Zia

I ricordi vanno messi via – di Rossella Bonechi

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Il personaggio si incrocia con la frase: “I ricordi vanno messi via e custoditi senza che interferiscano nel delicato meccanismo dello stupirsi”

Le dita correvano veloci sulla tastiera virtuale del telefono per avvisare che no, proprio non poteva esserci, stava andando a casa della zia per un’incombenza familiare che da tempo rimandava. Peccato, due risate tra amiche erano certo meglio della zia; non era male, era anche simpatica a volte ma tirava sempre fuori i soliti discorsi da vecchietta e questa volta c’era tutto il pomeriggio per sorbirseli … C’era bisogno di fare spazio nella stanza di sotto e sinceramente da sola la zia non ce l’avrebbe fatta. Via, forza, immoliamoci! 

E fu così che si ritrovò in mezzo a vestiti che nessuno metteva più, fotografie stampate (molte in  bianco e nero), biglietti vari di cinema e concerti e tante tante lettere scritte a mano. Roba da non credere: la zia era stata giovane, aveva ascoltato musica e le foto rimandavano un’immagine scapigliata che niente aveva a che fare con l’aspetto curato di ora. 

“Zia, ma davvero camminavi su queste zeppe di sughero??? Me le regali? E questi jeans a zampa di elefante??? Me li regali?”. Era uno stupore continuo, come essere al mercatino delle pulci in cerca di tesori. La zia la guardava sorridendo, incerta se darle una risposta-paternale o farle uno “spiegone” su cos’erano stati gli anni ’70 e ’80. Ma no, meglio lasciare che lei si stupisse e si meravigliasse, magari l’avrebbe vista con altri occhi e tanto bastava. Il pomeriggio volò, un po’ più inconcludente di quanto sperasse ma alla fine avevano un borsone ciascuna: uno pieno di cose che forse avrebbero avuto una seconda vita e uno pieno di cose di una prima vita di cui disfarsi impietosamente.   

Il personaggio di Nadia: il narcisista

Libera dal controllo – di Nadia Peruzzi

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Sentí sbattere la porta con un colpo secco.  Dalla finestra riuscì, per un attimo,  a vederlo di spalle. Quel suo fisico asciutto e ben curato lo aveva amato.  Non si mosse da dove era nemmeno per controllare cosa avesse portato con sé. Non le importava nulla di nulla. Quella sua sacca di pelle dove riponeva ogni giorno, con gesti lenti e accurati, come in un rito, le cose che considerava necessarie, era arrivata ad odiarla dalla profondità del suo essere! Storia finita, punto . L’ossessività di lui l’aveva frantumata in mille pezzi di un puzzle non ricomponibile in nessun modo.  Erano bastati pochi mesi per rendersi conto che la sua attenzione per il controllo, la sua precisione eccessiva, era qualcosa che stava man mano degenerando e stava passando dalla messa in ordine delle sue cose, ad una forma preoccupante di controllo su di lei, su ogni cosa che faceva o aveva voglia di fare.  La limitava in ogni suo movimento e rapporto con gli altri. L’aveva pian piano allontanata dagli amici e dalle amiche di una vita, per mettersi al centro del suo mondo.  Che era un narcisista pericoloso se ne rese conto pian piano.   Cercò di liberarsi, ma ad ogni tentativo lui riusciva a fermarla, stringendola quasi in una prigione col suo condizionamento asfissiante.  Le discussioni cominciarono ad occupare quasi tutto il tempo che passavano insieme. Lei aveva cominciato anche a provare timore che ad un certo punto potessero precipitare in qualcosa di peggio.  Si fece coraggio una sera quando lui, durante una discussione più accesa del solito, accennò ad alzare una mano per colpirla. Urlava in modo sguaiato, senza freni, come una furia.  Lei trovò la forza di urlare più forte di lui .  Un BASTA BASTA BASTA, che lo gelò. Non si aspettava da lei una ribellione che fino a quel momento non era mai riuscita a manifestare.  Colpito nel suo amor proprio di vincente e sopraffattore sempre e comunque, se ne andò, senza girarsi indietro e senza dire nemmeno una parola.  Lei rimase immobile e stranita.  Era in cucina, vicina alla toppa di legno dove teneva i coltelli più grandi. Quelli del non si sa mai! Le ci vollero giorni per superare quel suo stato d’animo. Domande senza risposta le si affastellavano nella mente. Come poteva essere accaduto? Come poteva esserci cascata? Era stata troppo ingenua? Doveva accorgersi prima che si trattava di un amore malato? Non le fu facile nemmeno ricominciare la vita di prima. Aveva timore del giudizio degli amici che aveva allontanato per colpa di lui, e le mancava del tutto il coraggio di aprirsi per cercare nuove amicizie . Fidarsi di qualcuno era diventato per lei più difficile di un tempo.  Accadde per caso.  Un dépliant di un viaggio in Patagonia per soli single.  Lo lesse in un bar. Lo prese in mano ma più per buttarlo via che per altro.  Lo accartocciò, ma rimasero in bella vista il nome del tour operator e il numero telefonico da chiamare per avere informazioni.  Dieci giorni dopo era su una jeep nella pampa fra cavalli, mandrie di mucche, paesaggi e pianure senza fine, ghiacciai dalla salute precaria.  Si sentiva leggera come una piuma. Poteva osservare quell’angolo di paradiso con animo tornato finalmente fanciullo, spensierato, pronto a stupirsi di tutto.  Si sentiva libera, ed era una sensazione bellissima.

Il personaggio di Rossella G.: la borsa di cuoio

Io sono “ borsa di cuoio” – di Rossella Gallori

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Finalmente libera e vuota, finalmente leggera, pulita dentro e fuori, esonerata da ruoli pesanti, lucida di cera naturale: né coltelli né denaro, residui di cibo non più, anche quell’ odore forte di grappa era svanito, insieme alla fiaschetta metallica con le iniziali intrecciate a mo’ di abbraccio ubriaco.

Era stata importante quella “sacca di cuoio”  anche troppo, era stata un regalo utile per un uomo inutile.

Viveva ora tranquilla sulla mensola intagliata di un legno semplice e robusto, posta sopra un camino acceso, della sua vita passata e recente ricordava il profumo dei petali di rosa, sparsi sul pavimento di una casa non sua ricca di troppo, rivide l’ immenso cuscino a cuore,  pretenzioso  ultimo addio di una vecchia fiamma, fiamma tiepida distratta e rifatta, che aveva sperato di farsi sposare…di ereditare…invece!….

 Sacca di cuoio ricordava con astio il suo padrone: alto, più del dovuto, curato nell’ aspetto, firmato sopra e sotto…girava i suoi” trekking dell’autostima” cosciente di esser notato, felice di essere invidiato.

Poi, quella brutta caduta, della quale forse “ borsa artigianale” si sentiva un po’  responsabile ma non più di tanto.

Si la ricordava bene  quell’ ultima passeggiata, lui: scarponcini giusti, giacca North Face, cappello in tinta, occhiali Rob…qualcosa di simile..

Lei “ cuoio fiorentino” stanca ed appesantita era scivolata dalla spalla atletica, lui per riprenderla, aveva fatto un movimento sbagliato, insolito….ed era ruzzolato giù nel burrone sassoso  e ripido, lasciandola sull’ erba ai margini del  pericolo.

 Non pianse “ sacca di pelle” quando fu raccolta da mani gentili, trovarono “ lei” non i documenti del dandy giramondo, non la sua spocchia, non il suo corpo che sarebbe diventato ben presto cibo per cinghiali affamati  incuranti di firme e borie.

Si era stupita del posto la “ zaina  ritrovata” della semplicità del non apparire, del garbo di quel piccolo rifugio montano, del silenzio burroso invaso a tratti dal profumo della cannella, dei ricordi preziosi messi sulla mensola per farle compagnia, stupori semplici, né gettati, né accumulati, gestiti senza ansie da: gonna di flanella e golf un po’ infeltrito.

Girava, quasi volteggiava   la tracolla di pelle impunturata, guardava dai suoi piccoli occhi bruniti, il passare lento della tranquillità, ricordando senza rimpianti le camminate fatte per esser raccontate alle cene del Rotary, agli aperitivi in Costa Smeralda…

Lei, ora era cuoio bello da annusare, lui fumo da scansare….

Il personaggio di Anna: il camminatore solitario

Camminare – di Anna Meli

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Il camminare era stata sempre la sua passione fin da piccolo. Incuriosiva quel suo passo sicuro e cadenzato e correndo sembrava sfiorare il terreno come un passo di danza. Non era mai stanco.

            Crescendo aveva mantenuto questa sua passione e, stando quasi sempre all’aperto, era abbronzato e sprizzava salute e forza da ogni poro della sua pelle. Non aveva mai posseduto una macchina si era adattato solo alla bicicletta che a volte usava per recarsi al lavoro, ma erano più le volte che la spingeva a mano, quasi fosse un’amica.

            Si era fatto molti amici che all’inizio lo seguivano, ma ben presto si erano stancati e lui si era ritrovato solo con se stesso; non che questo gli dispiacesse più di tanto, perché questo tipo di solitudine gli permetteva di pensare, di osservare, di riflettere e ricordare.

            Era una vita che camminava e, ormai anziano, rimasto senza la sua fedele compagna, quella sua passione lo aveva aiutato ad andare avanti. Nelle sue passeggiate amava soprattutto immergersi nella natura alla scoperta di percorsi dimenticati. Tutto lo incuriosiva e in tutto riscopriva qualcosa di nuovo.

            Nelle giornate invernali, quando il freddo si faceva sentire, ben coperto dalla sua pesante giacca, con sulle spalle il suo zainetto di logora pelle e armato del suo fedele bastone con tanto di punta di ferro, si inerpicava su per la collina, nei boschi dove non esisteva sentiero. A volte si doveva fermare per orientarsi e, così facendo, si abbandonava all’ascolto del vento che inventava rumori: scricchiolii, fruscio di foglie secche, il pigolio di qualche piccolo uccellino.

            Respirava sentendosi soddisfatto e realizzato in così poco che per lui era tanto. Poi riprendeva a camminare…

Il personaggio di Stefano: il Falco Pellegrino

Il Signor Falco Pellegrino – di Stefano Maurri

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Nel paese delle piccole case bianche distribuite sulla scogliera a picco sul mare la notizia dell’arrivo del nuovo maestro elementare si diffuse con rapidità. Non si parlava d’altro al mercato, in comune, sul sagrato della Chiesa, nel circolo dei notabili come nella farmacia. Nessuno conosceva il suo aspetto: si sapeva soltanto che sarebbe arrivato per l’inizio del nuovo anno scolastico, si sapeva soltanto il suo nome: Falco Pellegrino, proprio come il rapace che passava sopra il paese nelle sue migrazioni. Tutti gli stranieri che si aggiravano per il paese venivano scrutati, ma erano o turisti o funzionari dei vari ministeri che sovrintendevano alle opere pubbliche della zona. Con l’avvicinarsi del giorno dell’’inizio dell’anno scolastico il direttore didattico cominciava a preoccuparsi: si informava nei vari B B della zona se ci fossero state prenotazioni fino a quando non gli fu confermato che era stata prenotata una camera in un B B nelle vicinanze, ma che il cliente sarebbe arrivato il giorno di inizio della scuola. Il giorno fatidico arrivò rapidamente e in piazza era schierato tutto il paese:  sindaco, assessori, prete medico, farmacista, comari e bambini. Dall’autobus alle 07:30 di una mattina assolata, come l’ottobre sa dare, scese un’avvenente signora capelli rossi, abito leggero, fisico asciutto e abbronzato, borsa da viaggio a tracolla che scese l’ultimo gradino con un piccolo salto, aiutata dal maresciallo dei carabinieri. Tutti si guardarono stupiti che non vi fosse altro passeggero. La signora, davanti a tutti si presentò:

  • Piacere, Falco Pellegrino!