
Il nostro fiume.
Una curva sinuosa abbraccia il gruppo di casine. Un nastro lucido che incornicia case piccine, vecchie, con piccoli tetti e pareti che scompaiono nel panorama. Il nastro incornicia come quello di raso fa con i regali. Luccica al sole ed anche alla luna, si fa tutt’ uno con la pioggia, notte nella notte.
È la divinità , l’ entità che c’ è sempre stata, c’ è e ci sarà, forse, per sempre. Non c’era discorso che non ne parlasse, né sera a veglia che non lo vedesse protagonista di storie, leggende, magie. Non è mai stato fiume, generico, lettera minuscola. Sempre Arno, presenza viva e possente, lettera maiuscola .
C’ era chi da generazioni viveva con la sua rena, una sabbia meno sofisticata, più scura, di razza contadina. I renaioli conoscevano tutte le buche, tutte le trappole, tutti gli inganni delle correnti. Sapevano dove insegnare a nuotare ai bambini, in sicurezza. Tante volte ho sentito la nonna raccontare di quando Fortuna mise in acqua il mio piccolissimo babbo, nel fondo della Massa. Fortuna ed il fratello Nandino, i renaioli, erano loro stessi personaggi mitologici. Avevano pelle scurissima e quasi a scaglie, simile a quella dei pesci, ed un odore d’ Arno che era profumo di quell’ acqua e solo di quella . Un misto di odore d’ acqua, erba, fango, schiuma di pescaia, che non ho sentito né a Firenze, né a Pontassieve, era solo lì. Era il profumo del mio babbo.
Lui e l’ Arno erano una cosa sola. Fin da piccino era stato con i renaioli. Forse per attitudine, in ogni generazione avevano dei giovani a cui trasmettere il fiume. Uno fu di certo il mio babbo, uno Gigi, che da poco spero stia di nuovo pescando con il babbo. E loro trasmisero a Paolino. Erano sempre lì, piedi nell’ acqua e canna da pesca appoggiata al fianco. Il babbo andava tutti i giorni, dopo pranzo, un paio d’ ore. I pescatori si vedevano da lontano, silenziose sentinelle di acque dolci . I pesci, alla fine, non interessavano a nessuno. Il babbo portava a casa quelli bellissimi, e quelli che i vicini mangiavano volentieri I piu’ belli erano ricoperti di scaglie colorate. D’ oro sulla pancia, grigie, blu e verdi sul dorso . Li portava vivi e si andavano a liberare in processioni di bambini Vederli guizzare e sparire, tra lampi di sole, era un’ emozione grande. Avevano labbra umane, per il resto facevano capire l’ appartenenza ad un mondo altro, di cui erano padroni . Il babbo era rispettoso, li amava davvero. Del resto, lui quell’ acqua c’è l’ aveva nelle vene e lo attraversava, perlomeno fino a quando il posto dell’ acqua l’ ha preso il vino, e da allora in poi niente è piu’ stato lo stesso .
Paolo, fino da ragazzino aveva un sasso su cui sedere, in pescaia. Sempre il solito, un grigio sasso schiacciato sul quale si poteva stare anche in piedi, ed anche in due Ci si poteva scrivere, con i sassi rossi. Ci si trovava lì. Ci penso solo ora, nel mio amore un posto l ha avuto anche il sasso, l’ Arno di sicuro. Fin da bambino Paolo passava le giornate sul fiume e la sua mamma passava le ore sgolandosi a chiamarlo dalla finestra, inutilmente. Tornava solo al tramonto. Allora l’ unico pericolo era cadere in acqua, bastava stare attenti . Anche adesso, per noi le passeggiate finiscono sempre in pescaia, ed il tramonto che si moltiplica sull acqua ci emoziona come sempre.
Da un bel pezzo la zona è tutta recintata per grossi lavori di manutenzione. Quando sono cominciati sono stata malissimo, certa che nulla sarà piu’ come prima . Anche ieri Paolo mi ha detto che non si riconosce piu’ nulla. Il sasso non c’è più. Un gran dolore . Ogni volta che scompare qualcosa che ci vide ragazzi, che vide i miei genitori giovani, posti dove anche loro avevano camminato, riso, amato, mi sembra muoiano un altro po’.
Ho delle foto di loro lì . Non ho foto di loro da “grandi”, come se volesse dire qualcosa
Sono ritratti mentre si bagnano, mentre sono seduti sulla rena all’ ombra del muro, mentre lui mette in mostra tutte le costole spingendo la stanga della barca del renaiolo. Lei fa il bagno e non sapeva nuotare. Si fidava di lui e dell’ Arno . Erano bellissimi e molto felici. Una consolazione.
Forse qualche goccia di quelle che li hanno cullati potrebbe essere rimasta incastrata sotto i sassi, o tra le foglie tremuli di piante acquatiche.
Quelle acque scorrevano quando si sono amati loro, quando ci siamo amati noi, quando sono nata, il giorno che il babbo si voleva buttare. Scappò di corsa quando le mie manine gli sfuggirono ed invece di una capriola, feci una sonora caduta di testa. Lo rincorsero, lo chiamarono, urlarono che non era successo nulla. Da quando me lo raccontarono, ogni volta che mi rimproverava, dicevo che se ero grulla era perché mi aveva fatto picchiare la testa lui. Si rideva, mi accarezzava
Era bellissima anche la passeggiata per arrivarci, in quel punto dell’ Arno. Si attraversava un rigoglioso campo pieno di ogni specie di albero da frutto e poi, quando già si vedeva il fiume, si camminava sulla viottola attraverso un campo di grano che a primavera vibrava di verde e lasciava occhieggiare il rosso di migliaia di tulipani . Fiori di campi, gambi fini e petali fragili, bellezza gratuita che rimane negli occhi
Poi, la spiaggia di rena a ridosso del muro massiccio ad argine dell’ acqua e le acacie che ballavano al ritmo del vento, spargendo profumo e fiori bianchi a grappoli, nella stagione nella quale si vestivano con il bianco vestito buono.
Non c’è più il muro, non c’è piu’ la spiaggetta e nemmeno le acacie . Non ci sono più le vecchie pietre della pescaia. Tutto cemento, temo
C’ e’ l’ acqua. Quella che non è mai la stessa. Quella che porta via .
Poi, in un giorno grigio come la notte e carico di acqua che ha urgenza di atterrare, il pensiero viaggia su un filo esile, e riporta ad un’altra vita, dove le giornate erano lunghe e bianche di strade sterrate, di verde polveroso, di gole riarse e persone che si bagnavano in Arno, scendendo da un’altra pescaia, una più vicina al paese. Il posto dove, senza appuntamenti,si passavano i pomeriggi di vacanza. Non avendo mare, piscine, altro. Del resto, noi eravamo quello, ragazzi di campagna innamorati di quello che avevano, che sembrava poco ed era tutto.
Poi arrivo’ l’età delle scoperte e rivivo fisicamente quegli sguardi che mi si appiccicavano addosso e che improvvisamente non conoscevo piu’. Ci volle del tempo per capire, per imparare che abbracci e carezze avevano cambiato sentimento. Erano i gesti di sempre, ma gli attori all’improvviso avevano cambiato copione. Fu una specie di straniamento, come voglia di stare a vedere quello che sarebbe successo, dal di fuori. Come fosse possibile. Ci fu un’ estate nella quale cambiò il mondo intorno a me. Il mondo si accorse di me, mentre io aspettavo. Aspettavo di capire, di sentire, di diventare grande. (Aspetto ancora).
Ci fu un’estate nella quale quel solito due pezzi non andava piu’ bene. Scappava la pelle, da sotto la stoffa. Feci finta di nulla, per un po’, poi chiesi un costume piu’ adatto, e fu una specie di segnale, di semaforo. Alt, non potevo piu’ andare da sola. Sempre con mia sorella ed il cane. Si partiva in motorino in due, e la Titti la si infilava nella borsa laterale che aveva il Ciao, con la testa fuori e le orecchie marroni che sventolavano come bandierine. Del resto la distanza dalla pescaia era pochissima, ed il fiume era il panorama più prossimo alla vista dalle finestre di quella casa.
Ricordo anche un periodo nel quale covavo una specie di risentimento ed anche di invidia verso quelle che continuavano a non cambiare. Ero convinta fosse una specie di accento su di me, un accanimento della sorte. Mi sembrava che i soliti amici ora recitassero una parte. C’era chi non veniva piu’ a fare il bagno se c’era lui, chi se ne andava se non c’ero io, chi parlava di cose che avrei detto, fatto, guardato, e che non erano mai vere. Naturalmente pensavo fosse tutta colpa mia, ed attraversai un periodo solitario e pensieroso.
Comunque si faceva il bagno, nello specchio d’ acqua sopra la pescaia, e si nuotava fino al Girone, si attraversava. Siccome il fiume era casa di tantissime bisce, serpi acquaiole, innocue ma delle quali avevo ed ho ancora grande paura, nuotavo con le pinne, convinta che se me ne fosse venuta qualcuna vicina, sarei riuscita a scappare. A nessuno ho detto che comunque tenevo gli occhi chiusi, così non le avrei viste di sicuro
A fine pomeriggio arrivavano in pescaia anche altre persone del paese. Ricordo bene operai in tuta blu. Dopo che tutto il giorno la pescaia era stata abitata dagli scansafatiche, arrivavano gli operai. Uno in particolare arrivava proprio tutte le sere, ed eseguiva un rituale: tirava fuori dalla tasca un pezzo di sapone giallo, se lo passava sulle braccia, sulle gambe e sui capelli, e si buttava in acqua. Nuotava moltissimo, con uno stile perfetto, e ricompariva sempre dopo un’ oretta. Dicevano lo facesse tutti i giorni, anche in inverno. Sempre solo e senza mai parlare.
Mentre noi si bighellonava, ed il tempo passava, e l’acqua scorreva e portava via. Forse solo quello che si dimentica, non torna piu’.