Ritrovarsi

Rivederla aveva rinnovato in me emozioni così forti che mi appoggiai al vecchio eucalipto ancora rigoglioso e rassicurante.
La grande casa mi aveva accolta bambina e nonostante il tempo avesse cancellato l’antica armonia apparve ai miei occhi ancora pregna di sorrisi e affetto, non sentivo le risate dei bambini che rincorrevano le galline e neppure i canti notturni, ora se ne stava solitaria e abbandonata a se stessa ricordando con un po’ di nostalgia un tempo ormai lontano.
In quella pianura avvolta dall’aria salmastra del mare poco distante erano state costruite molti poderi con la riforma fondiaria che assegnava ai contadini più bisognosi qualche ettaro di terra e l’abitazione, erano tutte uguali queste case con grandi spazi atti ad accogliere famiglie numerose.
Tutto sembrava come allora, il pozzo era sempre lì e rivederlo così piccolo e spaventato mi fece sorridere perchè da bambina mi sembrava gigantesco e quando tiravo su l’acqua avevo una gran paura di caderci dentro! L’intonaco scortecciato, le finestre sbarrate e il grande silenzio che l’avvolgeva mi fecero capire che fosse abbandonata da molto tempo, rividi i miei zii indaffarati a tramestare nell’aia e i miei cugini più grandi di me che ci facevano giocare con quello che si trovava in giro, legnetti, pietre, sassolini e facendosi spazio tra i ricordi per un attimo ritornò a vivere.
Il grande arco che portava a una veranda chiusa era intatto, nel mezzo c’era ancora il tavolo, la panca e qualche sedia e appoggiato alla parete c’era il mettitutto avorio profilato di azzurro, mancava solo la stufa a legna dove la zia con poco faceva mangiare tutti.
Ci andavamo d’estate quando la scuola chiudeva, l’attesa dei miei genitori diventava insopportabile e lei materna e accogliente ci riparava dalla tristezza, lì sentivo l’amore di cui ero privata.
Tante case sparse in qua e in là e tante vite abbandonate a se stesse, in balìa di un destino che se ne fotteva dei loro dolori nascosti con pudore e dignità, ma quella gente non si abbatteva, sapevano che le battaglie vanno combattute con coraggio, senza troppi lamenti e ogni giorno sfidavano quel destino cieco e sordo e inventavano momenti di allegria per dare un po’ di tregua ai loro poveri cuori.
Nelle sere d’estate quando la frescura rasserenava gli animi uomini, donne e bambini si trascinavano lungo l’unica strada bianca che collegava le case e spesso si fermavano nell’aia della zia che accoglieva tutti sotto il grande eucalipto mentre lo zio, pronto a raccontare aneddoti divertenti e a intonare canzoni popolari portava allegria e spensieratezza, i più piccoli andavano a giocare sotto il grande fico dove un’altalena li aspettava felice di riprendere il volo.
Attraversai la stalla confinante con la veranda e per un attimo sentii l’odore della paglia mista al letame e lo scalpitio di Stellina, la giovane cavalla tanto temuta, forzai la vecchia porta sgangherata e mi trovai sul retro della casa, il forno trasformato dallo zio in una conigliera era sempre lì e la recinzione del pollaio dove io e mio fratello andavamo a prendere le uova era ancora intatta.
I ricordi si accavallavano e mi rividi con mio fratello mentre portavamo a pascolare i tacchini di cui io avevo grande paura e quando aprivano la coda a raggiera e sentivo quel verso buffo e assordante “gluh gluh gluh” mi stringevo a lui che come un bravo pastore mi proteggeva.
-Se volete mangiare dovete faticare!- Diceva scherzosamente lo zio, ma noi lo prendevamo sul serio e senza fiatare andavamo sotto il sole cocente nei campi appena mietuti cosparsi di chicchi di grano. E poi arrivava il tempo della vendemmia che avveniva prima del nuovo anno scolastico e la pigiatura dell’uva, un rito che si ripeteva ogni anno si trasformava in un vero e proprio momento di gioia, entravano nel grande tino prima i miei cugini e quando l’uva era già schiacciata facevano salire anche noi che cantando le canzoncine imparate a scuola ci divertivamo a saltare e ballare senza preoccuparci troppo di sporcarci assaggiando il dolce succo d’uva che ci imbrattava il viso trasformandolo in una maschera, si comprava così una giornata di divertimento senza spendere nulla.
Osservavo ogni cosa con meticolosità come se fossi andata lì per vedre se tutto era a posto poi ritornai sotto l’eucalipto e mi sedetti sulla terra dura) più piccoli per terra, dopo la calura del giorno i vicini si erano ritrovati come spesso accadeva dai miei zii e seduti in un grande cerchio raccontavano gli ultimi fatti, gli uomini si accanivano contro la siccità o il governo che pagava poco, le donne parlavano sottovoce degli affanni quotidiani e i bambini giocavano ai “ cinque sassolini “, io ero diventata esperta e nelle gare vincevo quasi sempre, era questione di abilità e di allenamento e quando nell’ultimo passaggio buttavo in aria i cinque sassi riprendendoli tutti in una sola volta ero la bambina più felice del mondo.
Era buio da qualche ora e s’incominciava a sentire il freddo della notte così gli uomini fecero un grande falò nel mezzo del cerchio e qualcuno intonò timidamente una canzone poi se ne unirono altri e altri ancora e nell’aria oltre alle scintille e alle fiamme che si rincorrevano si spandeva un’unica voce che saliva con slancio, quasi con violenza fino all’alto dei cieli come a voler dire”Ascoltate, ci siamo anche noi.”
La luna li guardava in silenzio e, generosa come sempre, li strinse in un abbraccio con i suoi fili di luce, il buio aveva nascosto i pensieri pesanti e tutti si sentivano liberi e più forti. I più piccoli aggrappati al seno della madre e cullati dal suo respiro dormivano e via via che il fuoco si tramutava in cenere le voci diventavano sempre più sussurrate e le persone come lucciole sparivano nel buio della notte.
Le luci del giorno appena nato ridavano vita alla casa, la prima ad alzarsi era sempre zia Lucia che già dalla mattina si dava un gran daffare affinchè tutti vivessero al meglio la giornata, con la sua andatura lenta e pacata camminava senza far rumore intenta a preparare la colazione per tutti, nel suo vestito nero mi sembrava già vecchia la zia, ma il viso tondo e paffuto, gli occhietti buoni e il sorriso gentile le davano un’aria da ragazzina, via via come fantasmi uscivano dalle camere lo zio Nicola e i quattro figli e noi che dormivamo in una brandina messa per l’occasione nella grande sala da pranzo ci alzavamo attratti dal profumo del latte appena bollito e mangiavamo con gusto il pane spalmato con la panna , ultime erano le due nipotine di sei e quattro anni che correndo sulla punta dei piedi come piccoli anatroccoli cercavano le braccia della mamma.
Nel ricordo sentivo ancora le voci che si rincorrevano, litigavano o scherzavano mescolati agli odori che nel tempo non sono scomparsi, ricordo con un po’ di nostalgia il profumo del latte appena munto o quello delle “frittelle povere” che faceva la zia con tanto pane raffermo, le uova e poco formaggio.
Tante immagini e tanti volti scorrevano davanti ai miei occhi , stavo guardando una parte della mia storia che mi sembrava ancora più bella di quella che avevo vissuto tanti anni prima.
Camminavo lungo la rete del pollaio e con la coda dell’occhio vidi in un angolo della rimessa dei motori lo “zanzino” di zi Ncò, era il motorino dello zio chiamato così perchè proprio come una zanzara saltava da una casa all’altra in cerca di qualcuno con cui chiacchierare e fare quattro risate.
Era un tipo da spiaggia zì Ncò, attaccava bottone con tutti e siccome aveva la risata nel sangue tutti lo cercavano e lui passava più tempo davanti a un bicchiere di vino e a un mazzo di carte che nei campi, motivo ricorrente nei litigi con la zia.
Quella mattina eravamo andati nel campo a cavare le barbabietole e mentre gli uomini zappavano per estrarle dalla terra noi ne facevamo grandi mucchi, per noi bambini, inconsapevoli di dare un valido aiuto, era un gioco divertente, ma per la zia che si era alzata più presto del solito per preparare il pranzo non lo era affatto e con la schiena chinata e il fazzoletto legato in testa a riparare dalla polvere i capelli raccolti in un “tuppo” mi sembrava ancora più vecchia. Era la sorella maggiore di mia madre, tra le due c’era un profondo legame che le univa in una vita diversa , ma ugualmente difficile e per me è sempre stata la zia buona e saggia a cui ho voluto tanto bene.
Eravamo quasi a fine del lavoro e quando le forze incominciarono a mancare, come formichine affaticate ci avviammo in fila verso casa, zì Ncò prese lo zanzino e volò via e in un attimo sparì senza dare il tempo alla zia di dirgli “ Ncò u pancott è già pronto, non fare tardi!”
Arrivati a casa ognuno si dava da fare, noi piccoli prendevamo le sedie sparse un po’ dappertutto, la zia e le cugine misero il paiolo con la verdura e le patate sul fuoco,) aggiunsero il pane raffermo e versavano il tutto nel grande piatto di creta, di quei piatti tipici pugliesi decorati con i fiorellini blu.
Era pronto, il lavoro e l’aria salmastra del mare ci aveva scatenato una gran fame così seduti intorno al tavolo e con la forchetta in mano aspettavamo il via della zia che invece se ne stava zitta perchè se mancava il “capofamiglia” non si mangiava e il capofamiglia non arrivava e la zia sempre più nervosa camminava nell’aia nella speranza di vederlo arrivare.
-Sempre così! Chissà da chi sarà andato ora! Lui fa il suo comodo e noi qui ad aspettarlo! Vincè prendi Stellina e vai a cercarlo prima che perda del tutto la pazienza!-
Vincenzo era il figlio più piccolo, appena sedicenne cavalcava la giovane amica come un vichingo, il mare si specchiava nei suoi grandi occhi azzurri e i capelli biondo grano diventavano dorati sotto i raggi del sole, io ero affascinata da questo cugino sempre sorridente e bellissimo e ancora oggi mi piace ricordarlo fiero e orgoglioso in groppa alla sua Stellina. Lo trovò da compare Lunard con il bicchiere di vino in mano che se la spassava, appena vide il figlio sbiancò in viso e solo in quel momento si rese conto di quanto tempo fosse passato. Zia Lucia era furibonda e lo accolse con improperi.
-Sei sempre il solito! Ma ti sembra normale presentarti a quest’ora? – Heeee, ma come la fai lunga, sempre la solita esagerata!- Per lui la vita era un grande spettacolo la cui sceneggiatura veniva improvvisata di giorno in giorno.
Via via che continuavo la visita i ricordi mi ritornavano alla mente con una tale chiarezza e lucidità che sentii vivo e profondo l’affetto per i miei zii e provai una gran tenerezza per quella bambina di dieci anni troppo timida e impaurita.
Ritornai fuori per prendere una boccata d’aria e mettere in ordine quelle dolci emozioni che mi avevano portato indietro di sessant’anni, mi ritrovai nella grande aia dove veniva fatta la battitura del grano, mi sembrava di vederlo lo zio che guidava Stellina facendola trottare in cerchio per battere le spighe e le donne, imbacuccate nei grandi fazzoletti per ripararsi dalla polvere urticante, con i forconi lanciavano in aria paglia e spighe per ventilare il tutto e liberare i chicchi che poi venivano raccolti in sacchi di iuta.
Il ricordo più divertente era la cattura degli uccellini, oggi la vivrei come una crudeltà, ma allora era diverso, per noi bambini era un gioco e per gli adulti era una strategia per arricchire la tavola di buon cibo. In un certo periodo dell’estate c’era il passo degli uccelli e lo zio con i miei cugini installavano nell’aia una lunga reta da pescatore fissata a due robusti pali e verso il tramonto decine di uccelli s’imbattevano in essa rimanendovi impigliati con grande festa di tutti.
Il cielo stava indossando i vestiti del tramonto e in lontananza sulla lingua azzurra si riflettevano sfumature di rosso, arancio e rosa e capii che era giunto il tempo di andare. Un ultimo sguardo per fissare le immagini, un altro ricordo si era aggiunto alla lista e un po’ nostalgica mi avviai verso la macchina.
Nel ripercorrere quella strada rividi i poderi appoggiati sul terreno come guardiani di antichi ricordi e sogni e immersa nei miei pensieri inchiodai davanti alla casetta di Marietta, rimasta vedova ancora giovane trascorreva con i due figli gran parte dell’anno in quel luogo di pace e quando lei non c’era ci andavo con mio fratello che saltando dal fico al tetto cercava i nidi degli uccellini nati in primavera che se ne stavano appollaiati in attesa della prima lezione di volo.
Come le mollichine di pane di Pollicino i ricordi ci cullano in un tenero abbraccio e ci fanno ritrovare la strada per ritornare a casa
…quando una casa ” ripara dalla tristezza” sostituendo affetti, provocando effetti, nasce Amore…..
Se poi diventi ” Pollicino” e sei artefice di ricordi così semplicemente belli, il racconto diventa perfetto….
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Che Meraviglia Carmela! Le tue case del cuore vicine una all’altra, collegate da fili di sentimenti che ne fanno un punto di riferimento.
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Tra le tue pagine più belle Carmela !
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bello come descrivi i tuoi ricordi.
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leggendoti mi sono sentita presa per mano e ho vissuto i tuoi ricordi ,gli ho confusi con alcuni dei miei, grazie
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