Il Racconto di Rossella Gallori

Nessuno tornerà mai da dove è venuto

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Un gennaio qualunque, un po’ pioveva, un po’ no, ventate gelide cercavano di infilarsi tra vetro e legno, infissi sconnessi, in quella casa….ero nata lì, vivevo lì, da un innumerevole tempo di giorni.

Il riscaldamento, spento o quasi, freddo sì avevo freddo, nascondevo le mani nella manica sbrendolate di un golf informe, la tazza di caffelatte sul tavolo mi confortava, pur non risolvendo. Dopo il mio “ piccolo incidente” il medico mi aveva dato solo tre giorni di malattia, vigliacco lui, stupida io.

La vecchia poltrona Frau, mi proteggeva  accogliendomi, eravamo simili, lei ed io, sbucciate, graffiate! Leggevo, un qualcosa che non ricordo… troppo ieri per la mia mente di oggi, la radio gracchiava canzoni, ripensandoci meglio, vedo l’immagine di una me che poco ricordo, o non voglio ricordare so per certo che non sempre mi piacevo, altalenante come ero, tra esserci e sparire mi sentivo poco intelligente, poco intraprendente….poco di poco,  vivevo nel passato/babbo, mal sopportando un presente/mamma.

Lui così “me” da farmi credere morta con lui…lei così: sempre forte, sempre sorridente, sempre tragicamente da un’ altra parte, gareggiavamo a farcela, guerra dura, mai vinto una battaglia… io…lei era piena di medaglie al valore. ..

Generale sopra la collina….

Nessuno suonò, ma nel silenzio avvertii un graffiare, la porta di casa sembrava preda,  vecchio portone,  di  carezze forti,  piccoli colpi, struscìo di mani…forse solo il vento, oppure il nulla. Immaginazione, allucinazione?

Tutto questo vi sembrerà uno strano cappello, forse un basco pesante, è, invece, un colbacco , per proteggermi dal  freddo  dalla lunga descrizione del nulla o quasi, ma come non “ fotografare” il luogo, lo stato d’ animo di un attimo lungo, di un sogno, di una realtà apparente, di una verità ingigantita dall’ amore per chi tragicamente mi ha lasciata, un giorno, senza un perché…..spiegarmi allora che certe malattie sono inesorabili, era stato impossibile.

Più mi avvicinavo, più il rumore si faceva insistente,  accompagnato da un leggero ansimare, un respirare forte.

Diffidente, spiai, dalla finestrella del ripostiglio che dava sulle scale: guardare senza esser visti, già…

 Quanti strani nascondigli aveva quella casa, quanti metri di corridoio dividevano la solitudine, dallo stare insieme, il fischio del treno, dal silenzio del giardino….

Cercai di aggiustarmi fuori, dentro avevo il cuore al posto dello stomaco, i polmoni non avevano più ragione di essere tali… dopo l’ospedale era arrivato il premio.!!! Sapendolo ci avrei provato prima.

Il babbo, il mio babbo, era tornato da un posto sconosciuto  che forse non  c’ è , era tornato da me, solo per me.

Aprii:

era alto, era bello, forse un po’ più magro, meno abbronzato, il sole aveva ceduto il passo alla luna, era stato, credo troppo al buio, i capelli cenere più bianchi sulle tempie lo identificavano come una me di oggi.

Ci prendemmo per mano…riconoscendoci dall’odore, dal sapore dello sguardo, dai profumi conosciuti per sempre in anni migliori, diversi, unici irripetibili

Smise di piovere e  forse non aveva mai piovuto…e lo avevo dimenticato, un sole bianco ci accompagnò lungo l’ andito…eravamo magicamente insieme.

La poltrona ci accolse stretti: sentivo forte l’ odore di Turmac, mescolato al suo profumo di sempre, mi scoprii così felice, ubriaca di un amore, che così non l’ho vissuto mai.

 Facemmo il gioco delle parole, mi sentivo bimba ..ed io, bimba non lo ero più da un pezzo. Continuammo un gioco interrotto anni prima, era bastato uno sguardo per iniziare la nostra buffa cantilena, la morte non ci aveva separati, anzi uniti ancora di più, fusi… per sempre…e…

Rosso

Sole

Luna

Cammino con la testa in su

Cadi!

Mi riprendi?

Acqua

Pesce piccolo

Balena blu

Nuvole…cerise

Non ci stancavamo mai del nostro strano dialogo, lo facevamo in macchina, tu guidavi cantando, io una voce così non l’ ho sentita più, era la tua voce per me, sapeva di : io ci sono.

Anche adesso che son molto grande, direi vecchia, nei momenti di rabbia, cerco una voce maschile, senza strappi come la tua, per lenire una ferita mai guarita, metto cerotti che al primo urto, si staccano, il sangue esce, sempre meno rosso, sempre più copioso.

Non ebbi il coraggio di chiederti da dove eri venuto, perché tu fossi riapparso , ero così felice, sicura che non fossi morto, la mamma aveva mentito, donna bugìosa,   lui era magicamente con me! Quindi??

Volevo mettere alla prova la nostra memoria, corsi in cucina afferrai la grassa fetta di pane, avresti ricordato? Erano passati, 8…9 anni?

Sorrise, non rideva molto lui, sorridevamo insieme e solo di noi, di cose che gli altri non capivano parlavamo un’altra lingua. La nostra.

Prese  il pane, separò la mollica dalla crosta e fu “incanto” come sempre: l’ isola morbida per me, la parte più dura per lui. Crosta e mollica: noi

Era tutto come sempre, le pesche gialle nel vino….le ricordammo ancora una volta. Detestavo il vino ma amavo te.

Strano non parlasti, tanto quel giorno, mi accarezzavi il capo, lentamente, quasi a voler fermare il tempo tra le dita, cercavi una treccia, che non c’era più…eppure io non l ‘ho tagliata mai.

Ma quante volte mi hai pettinata?  Trecce fatte bene, le tue, mica quelle della mamma…

È quando   mi accompagnasti  a scuola e quella bamberucola scema mi domandò se eri il mio nonno…

L’ ho odiata, l’ odio ancora, ma forse è morta…e da tempo.

Preparai il caffè, una tazzina sola in due, macchiato freddo, vero babbo? Senza zucchero, sempre. Bevevo dove tu avevi bevuto, bocche poco pronunciate le nostre, il labbro superiore, poco evidente, uguali.

“Mi spiace non ho i nostri biscotti, quei wafer rotti che compravi a peso, con un sacchettino piccolo solo per me, da non dividere con  gli altri”

 Ma c’ erano gli altri, babbo?

Pensò ripenso, ho vissuto 10 anni solo con te,  ti ho perso ed ora ritrovato,  sei qui.

Sentivo il tempo che volava, un tempo  breve, lo capivo, quel salotto chippendale mi avrebbe ritrovata sola…ferma il tempo, babbo,  fermalo, fa qualcosa. Ti prego

Ma ti ricordi quando facevo finta di leggere, di scrivere? Tu ascoltavi decifrando i miei punti, le linee storte, che per me erano lettere. Sapevi leggere quello che non avevo scritto poi leggevo io ed anche quando ho imparato a farlo,  l’ ho fatto male ma poco importava. Il mio con te era tempo bello, il tuo per me tempo poco.

A scuola, io, poco, conoscevo colori, piccoli bar, canzoni belle,  chilometri  di strada, campionari tavolozza

Quante ore in quel lettone magico, in quella stanza immensa, piena di non ordine, quel comodino pesante di medicine, quell’ odore perenne di tabacco buono, di schiuma da barba, di caffè, di te e di me, forse noi vivevamo li?

Il tuo stare male era intervallato dal nostro girovagare:  Toscana un po’ nascosta di artigiani attenti, gente che cuciva, maestri di ago e filo, forbici d’oro.

 Bemberg si bemberg …ridevo a quella parola, ridevano insieme, fodera seduttiva al tatto, mi abbagliava. BEMBERG , lo adoravo, ero affascinata dal bleu cangiante.

Per riportare tutto ad oggi, ripenso al silenzio, in quel freddo giorno di gennaio, nonostante il mio fiume in piena, di cose, parole, ricordi semplici,  mai lacrime, solo quello stringersi di mani, che a tratti erano marmo,  forti, a volte schiuma, più spesso miele….dolce da annusare.

Eri babbo, il mio.

 Marito bello per lei!

 Figlio premuroso per una donna cattiva

Padre sportivo per i miei fratelli!

Traduttore utile in una guerra lunga e cattiva, che  non ho conosciuto, ma vissuta anche troppo.

Tornavo sempre più indietro con la memoria,  in quel pomeriggio uggioso:

 ed i sandalini pieni di sabbia? E la giardinetta un po’ marroncina? prima della 1100 grigia, in  una Sorrento lontana , dimenticata forse, ma risento il rumore del mare, rivedo il secchiello,  la paletta, le formine, tu con il costume nero, io rosso…di lana come gli anni 50 imponevano.

Se ti dovessi dare un colore, sarebbe il blu, dalle mille sfumature, dall’azzurro pallido, al cobalto, al manganese….blu le tue cravatte, azzurre le tue camicie, oro e bleu i tuoi gemelli, bleu notte le tue giacche di panno, bleu Prussia quella estiva, che in macchina toglievi perché si ciancicava, un’ altra delle parole che ci faceva ridere….cercavamo sinonimi…attenti piú alle risate, che alla parola.

..e quel segno dell’ orologio al polso sinistro, quando lo toglievi, mimavo io l’ora, con le braccia, tu capivi ed eri l’ unico…unico..

Ed ora? Ora ti vedo alzare lentamente dalla poltrona/cuccia rifugio, di un gennaio quasi inutile.!

Con una voce morbida e calda mi dici che devi, che devi rientrare, stupidamente mi domando dove…rendendoti la caramella di menta ciucciata, perché tu possa finirla, la chiamavamo la  “mementa” succhiandola fino alla fine, un po’ io un po’ te, ci piaceva farlo davanti agli altri, per cercare di far capire  che noi non eravamo due ma uno….

Ti allontani, non ti tolgo gli occhi di dosso, cerco di afferrarti, ma non ti raggiungo, in quel corridoio troppo largo troppo lungo! la porta è chiusa eppure sento passi scendere gradini, quei gradini di pietra serena grigio cenere che facevamo, due a due, in un’altra vita, corro alla finestra, nessuno per strada…

Forse ho sognato, forse ho sperato, forse sei tornato solo per poco,  per farmi coraggio, con un’ ultima carezza che ti hanno impedito di darmi. Grazie per essere tornato a portarmela.

 Ed anche oggi che è un febbraio qualunque…che fa un po’ freddo ed un po’ no, un po’ piove un po’ si, io ti aspetto, ti riconoscerò…..mi riconoscerai, tu  sei me…. io te.

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Autore: lamatitaperscrivereilcielo

Lamatitaperscrivereilcielo è un progetto di scrittura, legata all'anima delle persone che condividono un percorso di scoperta, di osservazione e di ricordo. Questo blog intende raccontare quanto non è facilmente visibile che abbia una relazione con l'Umanità nelle sue varie espressioni

5 pensieri riguardo “Il Racconto di Rossella Gallori”

  1. Parole dense che scorrono leggere. Trasportano emozioni e si rannicchiano in una poltrona avvolta dal fumo di una sigaretta.

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  2. Una vecchia poltrona Frau accoglie il ricordo struggente di un padre. Parole come pennellate d’artista descrivono colori e profumi di un amore che non teme rivali. Un racconto amaro,dolce e infinitamente blu ti lascia con un gioco nel cuore: acqua, pesce piccolo, balena blu …

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  3. Descrivi il rapporto con il tuo babbo, con delle parole che sono poesie, leggere e diventato magiche.

    (crosta e mollica)

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  4. Difficile trovar parole per commentare la descrizione di un amore filiale che oltrepassa la linea del tempo e quella di vita e morte.Tuo padre è con te,col suo vestito blu,accanto a te sulla poltrona Frau,in macchina a far giochi di parole,e in ogni luogo tu lo richiami e lo veda.Parole bellissime e un testo veramente bello

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  5. Bellissimo.Dopo parole come le tue difficile inserire le nostre.Superi la linea del tempo e quella fra vita e morte.Lui è vivo e accanto a te e noi vista la tua grande capacità di raccontare e scrivere ce lo fai vedere..nel suo colore il blu dalle mille sfumature,i giochi che facevate le scorribande in macchina .È un rincorrersi di passioni ed emozioni che solo un grande amore filiale può far arrivare fino a noi che leggiamo.Brava

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