Me ne andavo, bellezza in bicicletta

I miei 25 anni ringraziarono il 1973 con il suo divieto di circolazione imposto alle automobili, tutte le domeniche, per fronteggiare la prima emergenza energetica in Italia.
Fu così che arrivò la bicicletta, dopo diciotto anni dall’ultima che avevo inforcato.
Ero ruzzolata lungo lo scalone della caserma Garibaldi a Varese. Dopodiché venni portata di corsa all’ospedale.
Andavo in una bici senza freni con i pattini ai piedi.
Dopo l’accaduto la bicicletta sparì.
Non venne rimpiazzata.
Persi un’amica: negli anni successivi non mi resi conto di quanto mi mancava.
Per un avvenimento fortuito, legato all’amore, la ritrovai: era verde.
Il mio “biciclettaio personale” si occupava della sua manutenzione: adesso non correvo più rischi.
Poggiavo su spalle forti.
Per lui era un tornare al periodo dell’adolescenza quando percorreva le Murge in bicicletta per andare da Bari a Putignano e viceversa perché il biglietto del treno costava troppo.
Erano quaranta chilometri di dossi con la sola ricarica di una banana. Erano quaranta chilometri di forature, catene saltate, freni da registrare, … che lo avevano reso un meccanico pronto ad ogni imprevisto.
Per lui era un tornare indietro ma con l’entusiasmo della nuova vita. Per me era una piacevole avventura. C’era da scoprire un mondo nuovo di cui acquisire la consapevolezza dei luoghi e delle persone. Era tutto da guardare, mettendo a fuoco ciò che capitava, per sentirsi parte di una città che si concedeva con estrema parsimonia. Gli occhi diventavano esploratori al rallentatore della realtà che ci ospitava da quattro anni.
Era possibile andare a zonzo all’ombra del cupolone con la scusa di fare la spesa. Le soste erano Calderai in via Calimala che sciorinava sul bancone un tripudio di golosità o Pegna in via dello Studio dal quale era possibile scovare tante diverse specialità regionali introvabili altrove come ad esempio l’uvetta passolina, piccola, di colore prugno-nerastra, da usare insieme ai pinoli per cucinare la pasta con le sarde o gli involtini di pesce spada.
In quei giri non mancava mai la sosta sulla panchina all’angolo di via dell’Oche per mangiare il panino con la mortadella acquistato da Pegna.
In bici ci si poteva muovere agevolmente in centro anche di notte per andare alla Pergola o al Comunale ma pure a qualche spettacolo underground spesso rappresentato in spazi non convenzionali dove venivano eseguite performance con linguaggi innovativi. È stato possibile vedere tra gli altri il mimo francese Yves Lebreton che univa espressione corporea e vocale con l’humor clownesco e con il gusto dell’assurdo: ma anche Carmelo Bene e Tadeusz Kantor. Quest’ultimo teneva il pubblico assolutamente ipnotizzato per più di due ore mentre lui e la sua compagnia recitavano in lingua polacca, scandita dal ritmo e dalla musica.
Era forte la sensazione di stordimento provocata da queste esibizioni. Esploravano memoria, trauma, dimensione onirica, potere, ingiustizie, tabù, distruzione … attraverso lo straniamento e colpivano a fondo. Ho ancora negli occhi e nelle orecchie “Lorenzaccio” al Teatrino di Palazzo Pitti dove Carmelo Bene frantumava vetri e fingeva di ingerirli in un rumore allucinatorio.
A fine spettacolo la bicicletta si dimostrava il mezzo ideale perché il pedalare scaricava la tensione accumulata, consentiva di pensare, di riflettere e di riprendere contatto con la realtà.
La prima meta era l’aperitivo.
Non c’è nulla di meglio di un Margarita, di un Martini o di un Gin fizz per riorganizzare le idee dopo che qualcuno ha picchiato giù duro.
Poi toccava al mangiare.
C’era un locale vicino a Ponte Vecchio, all’inizio di Borgo San Jacopo, dove un tipo istrionico, Ghigo, improvvisava piatti stravaganti per i suoi avventori appollaiati su sgabelli vertiginosi. Da lui si mangiava il cous cous più strepitoso di tutta Firenze.
Un altro si trovava in via del Porcellana, “I tredici gobbi”, dove un amico aveva in serbo sempre qualcosa di speciale e comunque si poteva contare sul suo prosciutto di Praga davvero impareggiabile.
Talvolta tra un andare in su e in giù capitavano dei siparietti inaspettati come trovarsi in un gruppo che ballava danze popolari in Piazza del Duomo o anche piroettare in Piazza della Repubblica con uno sconosciuto albanese decisamente allegro che voleva godersi la musica proveniente da Paszkowski.
D’inverno qualche bicchiere di vino in corpo proteggeva dal freddo durante il percorso di rientro a casa. Pedalata dopo pedalata era bello tornare al proprio mondo dopo essersene allontanati. Era bello svuotare la mente per far entrare la pace e il silenzio della notte che aveva continuamente in serbo qualcosa di magico: le luci dei lampioni sui lungarni riflesse nel fiume, la luna sempre bella nelle sue diverse facce e posizioni, il cielo nelle varie forme, il mosaico di San Miniato che veniva fuori dal buio, scintillante d’oro, dominando la piana ai suoi piedi. Via via entrava anche lo stupore di tutto come se ad ogni angolo ci si trovasse davanti a un miracolo.
D’estate in città di solito imperversava un caldo spietato ma dal tramonto in poi la situazione gradatamente migliorava. Era bello vagare lungo i viali deserti magari alla ricerca di qualche arena dove vedere un film. Era eccitante sentirsi così padroni del mondo da attraversare gli incroci anche con il rosso, se non c’era nessuno in vista. Ma una volta i vigili mi hanno seguita, fermata e fatto una bella ramanzina mentre mio marito li sollecitava a fare la contravvenzione. “Fatele la multa – diceva – così se la smette di fare la spiritosa!”
Capitava che l’automobile era dal meccanico, allora la bicicletta serviva anche per andare al lavoro. Nel periodo in cui si poteva usufruire della chiatta che univa le due sponde dell’Arno in corrispondenza della Nave a Rovezzano il tragitto casa scuola risultava più breve. Era divertente condividere il viaggio con ortolani, artigiani, muratori che parlavano fra loro in vernacolo: volavano battute in libertà che spalancavano mondi diversi da quelli che conoscevo.
Intorno al 1978 iniziò il periodo delle vacanze in Maremma in un furgone trasformato a camper parcheggiato sopra un poggio in un podere in prossimità del mare.
La bicicletta era il mezzo per arrivare in spiaggia. In quegli anni erano davvero in pochi a farne uso. Addirittura capitò che qualcuno sorpassando gridasse dall’automobile “A fanatici!”
Pedalavo e sapevo solo che mi aspettava il mare, il suo odore, il suo rumore, la pineta, le dune.
Era tutto mio.
Non pesava lo zaino né il traino con sdraio e ombrellone; non bruciava il sole a picco.
Sfilavano al mio fianco scenari in continuo movimento: piante, animali, vecchi macchinari, capanne, recinti.
A poco a poco avevo imparato a mettere a fuoco tutto ciò che capitava sott’occhio o a tiro d’orecchio.
A poco a poco avevo imparato a riconoscere gli animali che si mimetizzavano nel terreno o fra gli alberi, a poco a poco distinguevo i differenti versi che facevano.
L’arrivo in spiaggia era il meritato premio: dopo aver creato zone d’ombra con teli e ombrelloni mi abbandonavo a quello che ho sempre considerato il mio paradiso.
A quel tempo la famiglia era al completo. Le bambine non stavano ferme un attimo. Tra un bagno e un altro c’erano le incursioni in pineta dove fare provviste di rami, bacche, pigne che arredavano le capanne improvvisate oppure riempivano i coccini che portavano nella grotta di Collelungo.
Tornati al camper, le bambine rimanevano volentieri sull’aia di Vacchereccia per giocare con gli altri bambini e per stare dietro ad Elena, Emilia e Gemma che avevano sempre un gran da fare nei recinti degli animali fra galline, pulcini, conigli, faraone, oche, tacchini. Quello era il momento di partire per scorribande fra i poderi alla ricerca delle pere più succose, del pecorino più saporito, dei gelsi più golosi, di qualche pezzo di cinghiale.
A Spergolaia Romilda, tipica donna veneta, snella, con gli occhi azzurri e l’accento dolce che coronava il suo garbo nel porgersi, metteva a disposizione uova, frutta e verdura. C’era da ringraziare i suoi maiali per quel che faceva trovare in abbondanza perché alcuni prodotti come fichi e susine Scosciamonache non glieli poteva dare sennò avrebbero avuto “gli scioglimenti”.
Elia, altro veneto magro, biondo e con gli occhi azzurri, aveva una stalla di cento bovini dietro ai quali lui e suo fratello erano davvero sempre indaffarati. Vendeva dell’ottimo vino bianco che faceva gustare in cantina in dosi generose.
È anche capitato qualcuno che ha rifilato il bidone tipo un pollo che non riusciva a cuocersi in nessun modo ma in genere le persone erano corrette.
Ogni mattina a Vacchereccia un gran suonare di clacson fin dai piedi del poggio annunciava l’arrivo dei prodotti da forno: era il panaio, un gran bel ragazzo veneto, biondo e con gli occhi azzurri che, giunto sull’aia, apriva gli sportelli del furgoncino e cominciava la vendita. Le massaie si affollavano intorno a lui e fra una battuta e una chiacchiera venivano distribuiti pagnotte, panini, schiacce, focacce, pizze, bomboloni mentre i bambini facevano le loro richieste ad alta voce e i cani giravano intorno. Il più pestifero di tutti era Briciolo un bastardino con i tratti prevalenti di un pinscher che abbaiava senza sosta con voce strozzata facendo la pipì in qua e in là per l’agitazione.
Il latte arrivava dal Nocchi che aveva il podere ai piedi del poggio: ogni giorno riempiva il grande recipiente d’alluminio con il latte appena munto.
Il panaio non era il solo ambulante che saliva: c’era anche il merciaio, il mesticatore, il dolciaio. Tutta la mercanzia veniva esposta in furgoni che al loro arrivo si aprivano, si allungavano, si abbassavano per mettere in mostra tutti gli articoli e le massaie si radunavano intorno a guardare, toccare, contrattare mentre venivano scambiate tutte le informazioni del contado lì intorno.
Dopo qualche anno, con le nuove regole del Parco dell’Uccellina non fu più possibile parcheggiare il camper a Vacchereccia e cominciò il periodo di soggiorno in paese.
Il rituale però rimaneva il solito. Dopo colazione, preparati i panini, c’era la partenza per la spiaggia percorrendo la pista ciclabile: solo qualche chilometro in più rispetto a prima.
Sembrava che quella consuetudine bicicletta-spiaggia-bicicletta non sarebbe finita mai.
Invece sono successe tante cose.
La mia vita ha smarrito le ruote.
Ero sola e mi sono persa tra dolore, mistero, trasformazione, passato, presente…
La magia di quella routine che si ripeteva anno dopo anno si è interrotta e dopo una brutta caduta con tutte le conseguenze del caso la bicicletta finisce in garage.
Incomincia la trafila degli appuntamenti per la riabilitazione.
Prendo il vizio di stare in casa.
Mi rincoglionisco davanti alla televisione.
Non cammino più: le gambe non funzionano.
A lungo andare la spina dorsale è tutta sconnessa.
La mattina mi alzo come una bestia: sono un animale in gabbia sempre più avvilita.
Il torpore mi pervade.
Ma le parole di Tina resuscitano la voglia di vivere.
“Perché no?” mi domando.
Penso: “No, non mi lascio andare”.
Dentro mi sento la stessa anche se il fuori invecchia inesorabile.
La vita scivola come un destino rotto: ma il sole sorge ancora e il tempo batte per me.
Ritorno ai sogni che conosco.
Rotolano nella testa.
Li acchiappo prima che se ne vadano.
pur riconoscendo un gran valore al racconto, ricco, ricchissimo di particolari, mi sono innamorata dell’ultima parte, da: sembrava che quella bicicletta….per continuare: la mia vita ha smarrito le ruote….
una poesia, che è realtà: ritorno ai sogni che conosco….
…follemente e delicatamente Gabriella!
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andare in bicicletta o a piedi ti permette di entrare dentro le cose, gli occhi mettono a fuoco la bellezza che ci circonda e tu ne hai parlato in maniera egregia…brava…
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bello come descrivi ,i sentimenti ,le incertezze, il vivere quotidiano (sembrava che quella consuetudine Bicicletta-spiaggia-non sarebbe mai finita)
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