








Foto di Lucia Bettoni, Rossella Gallori, Cecilia Trinci









Foto di Lucia Bettoni, Rossella Gallori, Cecilia Trinci
Eleganza nel giardino – di Carla Faggi

Siamo a fine Febbraio, fa freddo, ed è piovuto molto.
Il mio giardino spontaneo pur sonnecchiando ancora, è già rigoglioso.
Sembra uno spartito musicale, note alte degli steli del tarassaco, chiamato nella mia infanzia Piscialletto, con le loro piccole margherite gialle che sembrano abbracci, non sono molte, perché bisogna aspettare ancora qualche giorno di sole per vedere il giallo fare da padrone nel prato.
Poi ci sono le note basse, piccole erbe di campo che se sapute riconoscere sono anche ottime insalate. Più alte , più basse, più rotonde, più diffuse, sembrano tanti contralti, baritoni, bassi.
Alcune sono femmina, altre maschio. Perché? Non lo so, è così e basta! Forse dipende dai colori, dalla forma delle loro foglie oppure solo dalla mia immaginazione.
Poi c’è l’erba comune, quella che se fosse sola e per fortuna non lo è, formerebbe il cosiddetto freddo prato all’inglese.
Tanti cespugli di malva ancora senza fiori ma importanti con il loro verde intenso. Baritoni per ora, contralti in fioritura.
Poi c’è il crescione con le loro piccole infiorescenze bianche.
E nel sottofondo Lei, la regina ! La borraccina! Di un verde cangiante, in alcune zone più gialla, in altre quasi bruna è senza ogni dubbio la più affascinante perché sembra dipinta per riempire gli spazi vuoti, per creare la sensazione d’insieme, un insieme che è eleganza. Perché l’eleganza è armonia, è spontaneità, è modestia, perché in tutte le cose vere c’è eleganza.
Ombretta detta Omblì – di Cecilia Trinci

L’eleganza di allora era facile. Bastava il cappello di buona qualità, una veletta che rendeva magico qualsiasi volto, scarpe di buona fattura, con il tacco giusto per ogni età. C’erano regole facili da rispettare: il paltò di lana, anche rivoltato dalla sarta, il soprabito ai primi caldi di primavera, il tailleur a vita stretta, camicette con colli stirati e spalle ampie, magari bianca sotto una giacca grigia. Colori timidi, riservati, a parte certi vestiti come quello di seta viola con fiori rosa che adoravo. Non so se lo adoravo per come lei lo portava, muovendosi ondeggiante ma di fretta, come se scappasse in continuazione da qui a là. Oppure perché le occasioni erano quelle belle, allegre, di festa.
Comunque abbondava il castigato marrone, il leopardato accennato nei bordi del cappotto, sul bavero e sui polsini, o sul cappellino vanesio con le punte in cima. Raramente si usciva di pomeriggio senza cappello, quando esisteva ancora l’inverno. Mia nonna ne aveva una collezione. Adoravo le sue velette, piccoli pezzetti di retina che scendevano sul viso o rimanevano accartocciati sul cappello. La guardavo attraverso quei quadretti e mi sembrava trasformata in una fata misteriosa; i nasi di tutte le donne scomparivano e funzionavano solo come leggero appoggio per quel piccolo e fantastico elemento di eleganza.
Mia mamma non la sopportava. I suoi cappelli erano sempre rimaneggiati da forbici impietose e la veletta se ne volava via per prima. Forse, appena scesa sugli occhi, la faceva sentire imprigionata in una rete da pescatori della sua Liguria.
La sua eleganza era nelle pose da sirena che assumeva al mare, in costume, scalza e libera con il vento nei capelli, seduta sulle barche, con lo sguardo verso l’orizzonte, come un gabbiano in punta di zampe, pronta per spiccare il volo. La polena di un bastimento, la statua sul lungomare di una città marinara, sembrava nata in mare e solo lì si placava il suo spirito drammatico.
I suoi gesti più eleganti erano quando si porgeva ad ascoltare sconosciuti infelici. Sulle panchine dei giardini, quando non era ritenuto conveniente dall’etichetta, lei accoglieva e attirava. Forse per lo sguardo marrone intenso, forse per il suo corpo sempre proteso al mondo, forse per la sua ingenua attitudine positiva, chi era diverso si sedeva accanto a lei e si raccontava e lei ascoltava. Entrava nel racconto pienamente e si dimenticava del tempo che passava. Dava importanza nello stesso modo alla signora ex collega di banca incontrata per caso, al mendicante che non aveva casa, alla ragazza in carrozzina rovinata dalla polio, al matto del paese che tutti prendevano in giro, al ragazzo sfigurato dal forcipe che faceva paura a tutti ma non a lei.
Era elegante quando nuotava in mare, che pur non essendo più il suo gli assomigliava per il sapore delle onde. Pochi giorni ogni anno che la facevano risorgere come una pianta assetata sotto la pioggia. Ma anche quando camminava scalza la notte per via Fabbroni, di ritorno dall’opera con mio nonno cantando Puccini .
Era sempre talmente pronta al volo che nella vita non ha saputo rimanere. E’ volata via ragazza, con ancora lo sguardo marrone intenso, con il corpo da sirena e lo scatto veloce nelle gambe.
Racconti nello zaino – di Rossella Bonechi

Per tanti anni ho lavorato in un elegante palazzo storico abbellito da armoniose arcate addolcite da medaglioni di Andrea Della Robbia a dare luce colore e ancora più eleganza. Vivevo come un privilegio potermi affacciare sul portone e trovarmi di fronte la facciata di Santa Maria Novella con il suo equilibrio di forme e colori. L’essenza, per me, dell’eleganza senza tempo. Quella dell’agenzia invece ne aveva risentito e come del passare del tempo ma per me è stata solo un contenitore di incontri e conoscenze. Sono cresciuta lì dentro, ascoltando storie le più disparate, curiosando tra racconti di lontane tradizioni e linguaggi inafferrabili. Oltre ai clienti tradizionali che andavano in vacanza c’era tanto mondo che entrava da quel portone: cinesi arrivati in modo rocambolesco, singalesi che per annuire scuotevano la testa come a dire no, nordafricani caciaroni che pretendevano di portarsi dietro la casa sui traghetti, georgiane con i loro cognomi impronunciabili e poi filippini, pakistani, peruviani, insomma una Babele totale!
Non è vero che chi non parla la stessa lingua non si capisce, a volte basta un’espressione del volto, uno sguardo, una postura per entrare in contatto con qualcuno e ho imparato che se gratto la crosta sotto c’è sempre un umano come me. Era umana come me la ragazzina nigeriana che entrò impaurita e con un occhio nero a chiedere il costo di un biglietto, era umana come me quella bellissima donna che dovette consegnarmi un documento ad occhi bassi con il nome che finiva in O e non in A. Come fai a non imparare a metterti nei panni delle persone quando in lacrime ti supplicano di trovare un posto per andare a verificare se l’onda tremenda che tutto spazza via ha risparmiato o no i propri cari?
Ho tanti ricordi, tante storie nello zaino, una collezione di sorrisi, un assortimento di volti e colori che mi hanno fatto viaggiare fino al mondo e ritorno, che hanno spostato il mio sguardo da dentro a fuori, che mi hanno aperto la testa e le mani; e ora che il turbinío è finito spero di non richiuderli mai più..
Intanto la Loggia e la Chiesa continuano a guardare, dall’alto della loro elegante bellezza che sfida i secoli, tutte quelle formichine che si affannano là sotto.
La signora madre – di Gabriella Crisafulli

Me la ricordo mentre camminavamo lungo via Sparano a Bari.
Era come se si fosse sparsa la voce per tutto il corso. I negozianti si affacciavano per salutarla.
Quando entravamo in un esercizio commerciale il proprietario e i commessi le si avvicinavano ossequiosi. Non sto a dire cosa successe quando ci inoltrammo da Minguzzi che era il tempio del massimo raffinato possibile in città. Scesero persino dai piani alti per venirle incontro: “Buonasera signora L……, benvenuta! Cosa possiamo fare per lei?”
Anche a Firenze una volta che venne a trovarci e andammo dall’ortolano di via della Rondinella, il proprietario nei giorni successivi mi chiese informazioni su quella signora così elegante.
Era bassa, asciutta, il viso magro, le guance scavate, il naso aquilino, i capelli corti, bianchi, naturalmente mossi. Si muoveva con una postura rigida e impettita tenendo la borsetta vicino a sé sul braccio piegato.
Al collo sempre il doppio filo di perle.
La sua presenza unita ad una sicurezza nei gesti, nell’espressione e nel tono di voce imponeva rispetto e trasmetteva determinazione.
Sin da giovane non era stata bella e questa era una caratteristica comune alle donne di famiglia acquisite e non.
Non solo il mio arrivo al seguito del figlio non le fece piacere ma le mise una grande agitazione.
Pur non avendo io una figura sinuosa, lunghi capelli ramati e labbra dipinte, pur non indossando abiti rosso scintillante con spacco alto, scollatura vertiginosa e tacchi a spillo, avevo un’estetica decisamente esagerata rispetto ai canoni della famiglia.
E un’età fuori target.
Questo ha costituito di per sé un elemento di sospetto nei miei confronti che non ci ha consentito di empatizzare.
Ho provato per dieci anni a inserirmi in quel contesto.
Poi mi sono arresa e il mare non fu più Polignano ma la Maremma.
…
Due anni prima di morire la sua eleganza si colorò di sentimento e mi disse che mi ricordava all’arrivo in Puglia con un vestito verde. “Eri una bella ragazza – si lasciò scappare – anche se i piedi, quelli no, erano decisamente brutti.”
Eleganza – di Nadia Peruzzi

Eravamo in un cinema, in coda per il biglietto. A due passi da me Paolo Poli.
Avevo appena letto la sua autobiografia e ad una ad una mi tornarono in mente i lavori teatrali in cui lo avevo visto recitare.
Non sono una che fa le corse per avvicinare le persone famose. Quella volta però non ho resistito.
Gli feci i complimenti per tutto, anche per la sua autobiografia.
Mi rispose col sorriso e quegli occhi che trasmettevano la sua vivacità e la sua grande cultura, la capacità di osare, di ergersi contro gli ipocriti e i retori con i paraocchi.
I gesti e il suo porsi mi colpirono. Era elegante e non solo nel vestire.
Aveva una eleganza innata, ed era dentro il suo essere, lo si percepiva.
Un vero gentlemen nel senso più profondo del termine.
Furono poche frasi, un attimo appena, ma intenso e del tutto privo di barriere.
Eleganza – di Tina Conti

Si muoveva con decisione e discrezione, ascoltava e sorrideva.
Aveva un cuore accogliente, se ne accorgevano subito tutti, lei cercava di non farlo notare, ma era impossibile non accorgersene.
Elegante, nei modi e nelle sue azioni, umile nel condividere e raccontare la vita e gli obiettivi, nell’affrontare il dolore, la gioia, le difficoltà.
Non saprei come fare senza il suo amichevole sostegno che arriva sempre anche da lontano, piccoli segni che come farfalle leggere ti ricordano di lei nei momenti della giornata, segui i suoi passi, mostri i tuoi, legati dal filo della vita che avanza.
Sempre elegante nei suoi contatti, leggera anche nelle difficoltà.
Non saprei come fare senza ROSY, la sento vicina, che ascolta, capisce, coccola con i suoi ritrovi e inviti. eleganza innata nel suo sguardo e nei movimenti, nel suo agire.
Riesce ad accogliere senza annullarsi, ricordo il pranzo fra amiche con la sua mamma anziana e con
Alzahimer vicino a noi che giocava serena con delle statuine e sorrideva prima di andare a letto
elegante nel suo aspetto che si è modificato nel tempo, “voglio solo comodità oggi e molto colore
Borsetta bagaglio per i viaggi, contiene tutto in un pugno, un gioiello fatto ad uncinetto rigorosamenta rosso per Natatale, scialletti intrecciati con le mani per le amiche che così si riconoscono da lontano quando si incontrano.
Sportiva con gare vinte in giro per il mondo, quando l’ho conosciuta, con il suo completo pantalone color avorio e i suoi capelli biondi “spaccava “come dicono adesso i miei nipoti per dire che affascinava con la sua presenza elegante.
La ficaia di Maremma – di Gabriella Crisafulli

Il ritorno a Vacchereccia al tramonto, dopo aver trascorso tutta la giornata in spiaggia, era davvero duro. Riuscivano solo a fare metà salita poi dovevano scendere di bicicletta. Ma lì, alla seconda curva, avvolta da insetti ronzanti, c’era la ficaia che emanava un profumo intenso dall’ombra della sua nicchia. Mentre lei si asciugava il sudore che entrava fin dentro agli occhi, lui si inoltrava in quell’oasi e ne veniva fuori sempre con qualche fico. Li mangiavano lì prima di riprendere a camminare. Dopo la doccia, a cena, li aspettava il cestino colmo di frutti che raccoglievano di prima mattina, a Spergolaia, dalla Romilda.
Li accoglieva sempre soave e grata perché lei, i fichi, non li poteva dare nemmeno ai maiali: “Gli vengono gli scioglimenti” diceva. “E poi, quando cadono, fanno tanto sporco!”
Li mangiavano con il pane, alla maniera dei contadini, mentre lui si soffermava a mostrare la differenza fra un frutto ed un altro a lei che non distingueva un fico da un fiorone!
La narrazione non aveva mai fine e, come in ogni storia che si rispetti, veniva ripetuta sempre uguale, sempre diversa.
C’era il profumo che veniva fuori dalla fornacetta mentre cuocevano gli involtini di foglie di fico che colmavano il trullo di aromi.
C’era la nonnina Anna alle prese con i graticci per l’essiccazione dei frutti, con la capatura delle mandorle per il ripieno, con l’estrazione del succo, con le spase per l’ultima asciugatura in paese, nel forno a legna.
E poi c’erano i fichi per ogni ora del giorno e per ogni occasione: venivano declinati in marmellate, gelatine, vin cotto, mustaccioli, cartellate, rose, sasanelli, panzerotti, przzid, …
Creavano un sottofondo che sapeva di affetti, di legami, di tradizioni: evocano le radici profonde di un mondo perduto.
Elegante naturalezza – di Anna Meli

Eleganza è saper accogliere, saper capire, comprendere la diversità. E’ dare coraggio a chi si sente inutile e saper vedere oltre.
Eleganza è una dote naturale: è nuda e non lo sa, è a suo agio in ogni situazione.
Eleganza non è invadente e non mette distanze; è discreta; chi la possiede non lo sa.
Eleganza è pacata naturalezza.
Eleganza non sempre vera – di Gabriella Crisafulli

Me la ricordo la mia mamma davanti allo specchio della sarta che accomodava su di lei gli abiti in via di realizzazione. Avevo quattro anni. Ho amato moltissimo quelle ore passate a guardare, toccare, annusare tessuti, colori, bottoni, rifiniture.
Eravamo appena arrivati a Como e il nuovo mondo aveva dei rituali in cui era necessario presentarsi vestiti adeguatamente.
Fecero così la comparsa l’abito da cocktail in seta double face color carta da zucchero con i bottoni neri che luccicavano e il coprispalla adornato da un fiocco, il tailleur in shantung di seta tortora con i bottoni di madreperla, strato su strato, con gradazioni diverse, che componevano un fiore. E ancora la sottana godet di velluto di seta viola e il vestito da primo pomeriggio verde prato con lo scollo a vu e la sciarpa sfrangiata.
La mia mamma era bellissima in questa versione di lusso.
Nel quotidiano, in famiglia, era diversa: sfoderava un profondo dolore, un dolore inestinguibile per la morte del padre avvenuta in tempo di guerra quando era appena adolescente. All’inizio eravamo lei ed io nella grande solitudine della casa di fronte alla Napoleona: via via, anche negli anni a venire, la sua voce rimaneva un mantra dolente, ripetuto all’infinito, sempre nello stesso modo.
Pochi anni fa, guardando la foto di lei insieme a una cugina, compagna d’infanzia, che era andata a trovare in Sicilia, ho scoperto con grande stupore che sapeva ridere.
Me lo ricordo il mio papà elegantissimo con indosso la divisa d’ordinanza color kachi. Veramente non vedeva l’ora di vestirsi in borghese ma ai suoi tempi c’erano degli obblighi di servizio molto restrittivi per cui non aveva la libertà di fare quel che voleva. Così quando era in uniforme, per esempio, lui che era golosissimo, non poteva mangiare il cono gelato passeggiando per strada. Non poteva nemmeno tenermi per mano.
Faceva tante ore di servizio, turni estenuanti, esercitazioni continue, permanenze notturne in polveriera. Non aveva orario. Non esisteva un orario: era a discrezione del Comandante.
Rientrava molto stanco.
Era indubbiamente sempre molto elegante il mio papà ma in qualche modo, anche quando vestiva in borghese, era condizionato dalla rigidità imposta dalle regole di servizio.
All’accademia militare di Modena aveva acquisito uno stile che in parte rientrava nel suo idealismo assoluto e senza condizioni.
Era amato: nel tempo i subalterni che lo incontravano gli hanno sempre fatto grandi feste.
Quando tornava a casa molto spesso la mamma gli diceva che mi ero comportata male. Allora mi prendeva in braccio e mi colpiva sul sedere con forza. Mi faceva male.
Non ho mai capito come mai non mi ha mai chiesto il motivo del mio comportamento, come mai non mi parlasse ed eseguisse solo la punizione.
Figlio di un minatore divenuto cieco per un’esplosione nelle cave di zolfo in Sicilia, aveva completamente cancellato ogni parola del dialetto agirino che era la sua madre lingua. Aveva cancellato quello e anche molto altro. Aveva adottato il linguaggio fiorentino e si compiaceva di dire parole tipo “notaro” in modo ricercato.
Fuori casa era sempre molto complimentoso con tutte le persone.
Lui e la mamma ci tenevano a fare bella figura e a passare bene.
La bella figura era qualcosa che indossavano quando si trovavano in pubblico e dismettevano quando erano in privato.
Solo una decina di anni fa ho colto l’attimo in cui in mia madre c’è stata la trasformazione. E finalmente ho capito tante cose.
Me la ricordo la villa sul lago di Como dove eravamo stati invitati. L’ambiente era molto raffinato. I padroni di casa erano elegantissimi: vestivano tutti di blu. Per anni ho pensato al blu come ad un colore scic. Quel giorno veniva offerto un buffet con tutto il ben di Dio possibile e immaginabile. Fu lì che scoprii i cannoli di pasta sfoglia ripieni di crema e ne feci una scorpacciata. Fuori c’era un grande giardino con un laghetto. Quando mi affacciai dallo scalone che dava all’esterno vidi un cane che inseguiva mia sorella impaurita che gridava e io scesi giù per aiutarla. Così intorno alla vasca eravamo in tre a correre uno dietro l’altro: Silvana, il cane ed io.
Non ho memoria di dove fossero papà e mamma.
Nel tempo ho potuto sperimentare che il dolore non è elegante perché genera caos in chi lo vive e disorienta chi lo guarda e ascolta.
Ho avuto modo di capire che il dolore suscita sorpresa e incredulità: talvolta genera addirittura sospetto e diffidenza. È come se fosse qualcosa di stravagante che ha un vago sentore di bizzarro, sospetto o misterioso: qualcosa che non torna.
Spesso è imbarazzante.
Con gli anni mi sono resa conto che il dolore ha bisogno di schiettezza e semplicità.
Negli anni 70 ho conosciuto Pina originaria di Santa Brigida. Faceva le faccende in casa. Veniva da Pontassieve ogni mattina e grazie a lei scoprii un altro tipo di eleganza attraverso il garbo e la pacatezza con i quali si porgeva. Veloce ma non frettolosa, partecipe alla vita della casa ma riservata, mostrava grande finezza nei confronti miei alle prese con la prima figlia. Fra noi non c’erano convenevoli. Con lei ho scoperto un’amabilità discreta verso tutto. Mi è stata di grande aiuto. Mi ha donato serenità. Mi ha insegnato molte cose fra le quali una forma di stile genuino.
Per me che venivo da forme di comunicazione artefatta, frutto della necessità di piacere e compiacere, è stata una lezione di vita. Con lei ho potuto essere me stessa senza vergognarmene.
Come Pina ce ne sono state altre: Gigliola, Romilda, Rabia, Gemma, Sabrina … donne non di potere con un approccio sano alla vita delle piccole grandi cose.
Donne di grande eleganza.
Eleganza – di Patrizia Fusi

Eleganza è quella di chi, pur competente nel proprio lavoro o nella cultura non sfoggiano superiorità verso gli altri.
Eleganza mi porta ad un ricordo di quando avevo quindici anni, lavoravo in un negozio a Firenze, che era una succursale di una tintoria dove il mio compito era ritirare gli indumenti sporchi e di mandarli alla centrale.
Quando riportavano gli abiti puliti alcuni clienti chiedevano di consegnarli al loro domicilio.
Ricordo un ingresso di una di queste abitazioni di persone benestanti , la consolle con il grande specchio sopra, con la cornice dorata, le lampade laterali erano costruite con tante gocciole di cristallo, che quando si accedevano le lampadine mandavano bagliori di luce sulla parete. A quel tempo per me quello era eleganza.
Elegante io??? – di Rossella Gallori

Eleganza? Eleganza!
Distruggo tutto in un attimo!
Come sei elegante!
Primo pensiero detto: grazie!
Secondo pensiero, quasi detto: perché?
Terzo pensiero, solo pensato: me lo dici, perché lo pensi?
Quarto pensiero che non riesco a dire: di solito nn lo sono?
Quinto e non ultimo: per farmi sentire che esisto?
Ed i miei pensieri volano e da carezza diventano boomerang, di quelli di legno duroduro, che fa male e non torna al mittente.
Non godersi mai un cazzo nulla, nemmeno quelle poche parole dette…..dette…..dette…per cortesia? Per affetto? Per non saper cosa dire, per iniziare un discorso che nn porta a nulla, senza mai sapere come mi sento, come sono, chi sono…
Elegante? Con i pantaloni con troppe x, con i “ golfi dell’ upimme” a saldo, una me con qualcosa di altri o di mio da troppo?????
Elegante era mia madre, con un po’ di tacco, con le calze color miele, lo era sua madre con le gonne longuette e le scarpe su misura…elegante era mio padre con il pigiama di seta bleu…eleganti tutti tranne me!
Elegante? Eleganza!
Elegante è un cuoricino tondo di lana cicciuta.
Elegante è uno sguardo, poco invasivo, in un momento buio.
Eleganza è una voce che rassicura.
Elegante è un ricciarello nella sua culla di carta opaca, innevata di zucchero a velo…..
…è un buongiorno senza facce, una buona notte: cerca di dormire…
…è che abbiamo le stesse mani fredde e cerchiamo di scongelarle, in silenzio senza risate sguaiate…
..è che mi telefoni e mi ascolti….
…è che non mi vuoi cambiare, per una signora vestita di seta beige, con la borsa firmata, con i capelli biondo cenere, una che sorride sempre è comunque, che ricorda ogni cosa che ha letto…..che ha visto!…
Eleganza è un tessuto double face, ha due diritti…..e due rovesci…..
L’eleganza di parole vellutate – di Daniele Violi

Eleganza e cortesia nel raccontare. Eleganza nel mantenere rispetto sia nel linguaggio che nella aspettativa di chi ascolta, incuriosirsi con piacere e semplicità di un argomento, esposto con dettagli e in assenza di violente parole ma con armonia, dolcemente. Eleganza delle parole vellutate che possono anche incidere nella persona che le riceve, in modo molto pesante, accettando l’essenza comunque e la forma, anche sentendosi completamente in disaccordo. Eleganza di una parola positiva; eleganza del concetto, eleganza del pensiero, uscire di scena con eleganza. Eleganza come terreno dialettico, lavorato per coltivare i rapporti umani.
Eleganti si nasce – di Stefania Bonanni

Eleganti si nasce, o non lo si diventa mai. I requisiti sono una grande anima, un indomito coraggio per essere sempre sé stessi, un sorriso aperto e le mani tese. Ci sono creature che nascono con tutte queste virtù, e sono naturalmente elegantissime. Dotazioni accessorie anche istinto e fantasia. È elegante chi non ha mai detto “Lei non sa chi sono io”, chi non ha mai pensato di aver qualcosa da insegnare a chi non ha chiesto d’imparare, chi sta nel mondo senza seguirne le imposizioni, chi è alternativo ma non strano, chi è onesto in un mondo di ladri, chi non è furbo, né duro, né forte, né informato, né sapiente, ma ce la fa lo stesso, ed è grato alla vita .
Ci sono creature eleganti. Naturalmente. Eleganti nelle movenze sinuose, danzanti, movimenti veloci ma mai azzardati. Eleganti nella corsa, sicura, veloce, ritmica, potente. Eleganti mentre mangiano, non resta mai nulla e non cade mai nulla. Creature che viaggiano la vita sempre a testa alta e cercano il contatto degli occhi con gli occhi che incontrano. Hanno occhi di giada e lampi e lasciano capire di antiche sapienze e mondi sconosciuti, dietro il velo di mistero.
Ho incontrato da poco una di queste creature, e siamo finiti a letto sin dalla prima notte. È birbone e scattante, di quei maschi che fanno innamorare. Nello stesso tempo, è delicato e tenerissimo. La scorsa notte mi è stato addosso tutto il tempo. Ha respirato con il mio stesso ritmo, si è fatto leggero come una piuma, ha popolato i miei sogni, e lungamente mi ha accarezzato. Pianissimo, sul collo e sul mento, con le sue zampine vellutate.
L’eleganza del gatto.
ELEGANZA – di Simone Bellini

Dignità, orgoglio, rispetto, amor proprio e altrui, sensibilità, affabilità, parole in disuso al giorno d’oggi ma che formano l’eleganza di una persona.
Una errata valutazione dell’eleganza può portare a tragiche conseguenze se chi la usa ha mire truffaldine. Purtroppo questo è l’uso più frequente e , ahimè, genera diffidenza, rabbia, impotenza che demoralizza. Spesso chi ne è colpito cerca vendetta, con conseguenze devastanti e opposte al concetto di eleganza.
Mantenendo calma, concentrazione, sangue freddo si può riuscire a vendicarsi con eleganza e ironia, quando questo succede la soddisfazione è quadrupla ! Ma non è di questo che si nutre l’eleganza.
Oltre che ad una naturale predisposizione è l’educazione al rispetto di tutto ciò che ti circonda, compreso te stesso e gli altri, che fa di te, di qualsiasi ceto sociale tu sia, una persona elegante.
Una volta a scuola si insegnava “educazione civica”, materia considerata insulsa e quindi eliminata, decisione per la quale oggi ne paghiamo le conseguenze.
Eleganza effimera di chi vuole “apparire”, dare sfoggio di bellezza raffinata, preziosa, ricca, sinuosa nei modi e nelle movenze ma arida nell’animo, con l’ossessione del controllo perché non traspaia la sua pochezza interiore.
Le persone “ eleganti” dentro, vere, sono sempre meno, quando le trovi attingi alla linfa vitale per un mondo migliore.
Ascolti e ricordi – di Patrizia Fusi

C’ è un piccolo paese posizionato sulla collina sopra al paese di Antella, Balatro chiamato anche Balatro rosso al tempo in cui ero bambina, sembra per le tendenze politiche e la presenza di alcuni anarchici.
A quel tempo nella piccola piazza c’era una bottega di generi alimentari, il proprietario abitava sopra il negozio, all’angolo della piazza un calzolaio, nella stessa parte c’era un negozio dove il sabato e la domenica veniva il barbiere.
Allora era faticoso spostarsi, questo piccolo paese serviva anche ai contadini che abitavano nelle case coloniche nella campana circostante, c’era anche un circolo che quando ero bambina era diventata Casa del Popolo, ma negli anni precedenti era la Casa del Fascio.
In quella piazza abitava anche mia nonna, il suo appartamento era situato all’ultimo piano, per arrivarci c’erano da salire molte scale e percorrere un lungo corridoio, la finestra della cucina dava sul tetto della casa colonica attaccata al paese.
Vicino una grande villa che aveva diversi poderi annessi, noi bambini si andava a giocare nel viale che portava alla villa che chiamavamo Viottolone, curiosamente andavamo al cancello e guardavamo dagli spazzi laterali il giardino. La grande villa ci affascinava.
Due case coloniche erano adiacenti, di queste ricordo l’esterno e le cucine, ci devo essere stata con mia madre.
Raccontavano che al tempo del fascio un componente della famiglia della villa fu tenuto nascosto in una casa di un loro contadino, questa casa era attaccata al paese.
Quando finì la guerra e il regime fascista, per ringraziare la popolazione del paese che non aveva fatto la spia, la fattoria donò olio e vino a ogni famiglia e a chi voleva del terreno intorno alla case per fare l’orto.
Mio babbo ne aveva avuto un bel pezzo, mia madre ci coltivava le verdure, lei era brava essendo di famiglia contadina sapeva come fare.
Il babbo ci fece un grosso capanno con pali, rete e lamiere, era pieno di tante cose, ricordo alcuni pomeriggi in cui ci andavo a giocare da sola, facevo finta che era la mia casa, il sole che passava fra le maglie della rete , i raggi del sole formavano un ricamo sopra una cassetta che avevo adibito a tavolo, ci avevo messo sopra la mia merenda: una bella fetta di pane e olio, un mucchietto di sale e uno spicchio di cipolla rossa, io facevo finta di essere una signora che mangiava pane e olio e ogni boccone un morso di cipolla e sale, con la mia fantasia lo trasformavo in un cosa bella a seconda del gioco che facevo.
Nel capanno ci sono state anche gabbie con i conigli a cui pensava la mamma. E’ servito anche a tenere la cuccia del cane da caccia della nostra famiglia.
Mio babbo era muratore e in un angolo dell’orto costruì un focolare dove poter fare l’arrosto girato con gli uccellini, lui diceva che il legno di ulivo rendeva la carne profumata.
Ci aveva piantato alcuni alberi da frutto e delle piante di viti, ora una parte l’orto non esiste più: ci sono delle abitazioni di pregio (il paesino è diventato un zona di residenziale)
Laterale al vecchio caseggiato, che anticamente era un convento, ora c’è l’ingresso di una bella abitazione con piscina, all’esterno sulla destra c’è un piccolo parcheggio, sulla sinistra ci sono ancora le viti che aveva piantato il mio babbo, è rimasta anche la striscia degli orti, fino in fondo all’edificio.
Equilibrio – di Luca Miraglia

Equilibrio tra essere ed apparire.
Con disinvolta leggerezza presentarsi come si è, in consonanza con se stessi ed il contesto, senza strappi ma occupando decisamente il proprio spazio sia fisico che mentale.
Non mera affermazione di sé ma una dichiarazione di esistenza in armonia di senso e di sensi.
Tovaglie ricamate – di Sandra Conticini

Non ho molte foto della tua gioventù, ma ti penso sempre ben vestita. Mi sono fatta questa idea perchè mi hai fatto vedere quante belle cose avevi nei casseti, camice da notte, vestaglie, culotte in seta ricamata cucite a mano da te, perchè questo era il tuo lavoro. Ti immagino con vestito o gonna stretta , fatti da qualche avanzo che ti era passato per le mani, con una camicetta di puro cotone o seta dai colori sobri.
Anche quando ti sei sposata, avevi un bel cappotto giallo con due visoni buttati là, un cappello di moda negli anni ’50, scarpe con il tacco alto che ti slanciavano, ed andavi avanti a testa alta con il tuo bel portamento. Quando rivedo quelle foto sembri la mia regina.
La tua grazia e semplicità ti ha sempre contraddistinto nella vita.
Ricordo quando organizzavi qualche pranzo o qualche cena con amici o parenti la casa si trasformava. Niente doveva essere fuori posto ed ora facile che qualcosa non si ritrovasse per diversi giorni. La casa non era grande, dovevi togliere la macchina da cucire e la poltrona dal salotto, pulivi un po’ più a fondo. Tiravi fuori una delle tue tovaglie ricamate a mano, ma spesso preferivi quella rosa di fiandra, ma non poteva essere sempre la stessa, allora prendevi quella bianca con le rose ricamate, ma mai una banale. Mettevi il tuo bel servito di porcellana con i pavoni e il bordino dorato, i tre bicchieri di cristallo con il tovagliolo ripiegato, poi un bel centro tavola un fiasco di vino, una caraffa d’acqua, e la tavola era pronta per gli ospiti. Anche per il mangiare preparavi cibi tradizionali e semplici ma sempre curati e buoni. Per me avere persone in casa mi dava gioia.
L’elegante è un modo di essere che non si lascia mai andare.
Eleganti si nasce ed è difficile diventarlo.
Un sorriso è sempre elegante – di Stefania Bonanni

Il silenzio è elegante. Chi si sbraccia, si accalora, si colora nelle gote mentre cerca di farsi uscire dal cuore cose che fanno male, non e’ mai elegante. Non lo è il dolore, non lo sono le passioni.
La vita non è elegante. Lo fosse staremmo raccolti in meditazione, non andremmo in bagno che per fare la doccia, non ci si lascerebbe andare ad intimità sudate e pregne di liquidi innominabili..Si mangerebbero le cosce di pollo con i guanti, ci si porterebbe il fazzoletto al naso solo per vezzo, non per bisogno. Non si piangerebbero lacrime che fanno venire il naso rosso, non ci si scambierebbe saliva con baci in bocca, non si urlerebbe nel dolore, non si esploderebbe nella gioia. Per essere davvero eleganti bisognerebbe essere un po’ insensibili, un po’ freddi, un po’ sordi, distanti dalla terra sotto ai piedi, ma piu’ che altro, indifferenti .
È elegante chi guarda in alto, ma se poi inciampa e casca con il culo per terra, allora si può dire che l’ eleganza può fare male. Meglio un sorriso. Un sorriso veste di eleganza, sempre .
L’elegante Ubaldo – di Stefano Maurri

Il parrucchiere Carmine aveva cambiato un po’ lo stile a Firenze, veniva da Napoli e aveva grande capacità di relazionarsi con i clienti, aveva portato innovazione nel taglio e aveva introdotto la possibilità di farsi, insieme ai capelli, la manicure. Il negozio era in Chiasso del Buco, accanto alla piazza Salterelli dove il Babbo aveva il negozio di forniture per orologi e che frequentava non tanto assiduamente, ma almeno per farsi fare la sbiancatura dei capelli che tendevano a ingiallire. Questa piccola forma di vanità lo aiutava nella sua naturale eleganza, un’eleganza fatta di sorrisi, fatta di attenzioni, di piccoli atteggiamenti affettuosi nei confronti di tutti, in modo particolare per quella che potremmo definire la popolazione del piccolo mondo antico di piazza Salterelli che pur essendo collocata al centro di Firenze, dietro por Santa Maria e dietro via Vacchereccia, aveva mantenuto rapporti sociali gradevoli e intensi fra i componenti delle varie attività: il trattore Poldo che preparava porzioni abbondanti per gli avventori e che Babbo frequentava soprattutto d’estate quando noi eravamo al mare, la galleria Spinetti, una galleria d’arte specializzata nel commercio e nell’esposizione di quadri di macchiaioli e post macchiaioli, le ragazze commesse del negozio di Perugina in angolo fra via Santa Maria e via Vacchereccia con le quali il Babbo intratteneva rapporti scherzosi e dove andava a comprare sacchetti di menta zuccherosa, quella che si fondeva in bocca, per la sera, davanti alla televisione. E poi il bar La Borsa da anni sotto il loggiato, di fronte appunto alla Borsa Valori, un luogo che aveva mantenuto l’aspetto di un bistrot parigino e dove i bicchieri erano collocati in alto, a testa in giù in verso il bancone per sgocciolare e dove passavano siano turisti stranieri ma anche tutti gli avventori e i commercianti della zona e nella quale si intessevano piccole discussioni sui fatti del giorno, sulla Fiorentina, sulle attività commerciali se andavano più o meno bene e dove il Babbo con il suo sorriso e con la sua naturale, come ho detto, eleganza era ascoltato con grande attenzione. Tutto questo in parte è stato spazzato via dalla nuova forma di commercializzazione anche se i luoghi esistono tuttora. Il parrucchiere Carmine si è trasferito, guarda caso, di fronte a dove il Babbo si trasferì e dove ora abito io. Il Babbo ha continuato a frequentarlo fino a pochi giorni prima della fine. La sua attività commerciale è rimasta attiva, anche se era stata venduta, conservando, per scelta dell’acquirente, il nome “Maurri” proprio perché era un sinonimo di garanzia nei confronti dei clienti , anche se ormai si cominciava a comprare altri tipi di orologi.
Credo si possa ricordare il Babbo per questa caratteristica: la comunicazione, la comunicazione verbale e la comunicazione visiva che favoriva il rapporto e favoriva la conoscenza dei problemi sociali che poi lui, una volta in pensione, ha ripreso e trasmesso attraverso la passione per la fotografia. Era certamente dilettantistica ma con grandi connotazioni professionali che venivano mantenute sempre vive con l’aggiornamento, con le discussioni all’interno del club a cui apparteneva, con la realizzazione di piccoli stage che venivano fatti anche per definire gli aspetti più specifici della fotografia. Questo lo ha veramente salvato dall’invecchiamento perché lui, come un gatto, ha sempre avuto e sempre mantenuto vivo lo sguardo e la capacità di interpretazione delle persone, dei luoghi e dei paesaggi.