1 – Chi telefonerà tra vent’anni? – di Nadia Peruzzi
Il tempo passa e ci cambia. Il qui e ora si perde in un nanosecondo. Rispetto all’idea di eternità siamo poco più che scintille. Scintille,più che stelle, che faticano fino dall’inizio. La nascita è un trauma, anche per chi nasce, e il crescere è ad ogni step non semplice né facile. La linea corre dritta in avanti, indietro non si torna, né si può tornare. Può farlo il pensiero, velando cuore e mente di nostalgia. Il bello è se nel percorso segnato si riesce a conservare lo stupore che fa stare a bocca aperta anche di fronte a cose apparentemente piccole, la voglia di pensare che buttando dei numeri fra le stelle ,ci sia qualcuno che li possa rimettere in fila per chiamarti. E la cosa più fantastica, dati i tempi ,è pensare, o meglio sognare che fra venti anni il telefono esista ancora ,anche se ormai saremo dominati dall’intelligenza artificiale, e chiamando ,una voce amica o amata sia in grado di rispondere e felice di ascoltarti.
2 – Ti ricordi? – di Rossella Gallori
Una fila lenta
Una fila lenta…ma è sempre stata così…lenta…
Arrivavano tutti con il fiato in gola, chi con il sonno appeso agli occhi, agganciati e sganciati sempre troppo, dentro e fuori.
Te lo ricordi?
Io c’ero, tu c’eri? Tu? Tu? E tu?
Ed oggi chi ha portato da bere oggi? Li stessi di ieri?
Ve li ricordate?
Lei sta con chi?
Con lei?
Da quando?
Te lo ricordi, lo so!
Alza il volume non sento la musica.
Conosci le parole?
Te le ricordi?
Tu, allora ballavi…volavi…
Ma ci sei anche tu? Quanti anni, quante mogli, quanti figli, quante ansie, ci dividono?
Te lo ricordi?
Tu scriverti il mio numero di telefono sulla mano con quella grossa matita rossa e blu :055491402…Forse anche l’indirizzo.
Forse te lo ricordi: ti lavasti le mani, troppo bene, un sapone di Marsiglia magico che cancellava anche l’amore…
Stanno arrivando gli altri, alza il volume, non so ballare, provo…
Scritto sulla pelle un inesistente messaggio: il ricordo è musica, profumo, petali sparsi nascosti in un vecchio elenco del telefono…
Telefonami tra vent’anni. Telefonami anche tra vent’anni, Cecilia. Telefonami, ed ovunque sarò, sentirò la tua chiamata.(Stefania)
Le orecchie puntate verso il cielo – di Stefania Bonanni
Lo feci:. buttai tutti i numeri tra le stelle, e saltai nel duemila. E ti vidi, con la barba bianca e gli occhiali da sole, fermo a guardare girare il mondo. Che girava, eccome, trascinando con sé i nostri sogni di ragazzi, vent’anni fa, ed anche altri vent ‘anni prima. Girava il mondo, mangiava le nostre parole, ci costringeva con le orecchie puntate verso il cielo, per capire di più, per sentire di più.
Adesso, non ho voglia di capirti. Telefonami però, oggi, domani e tra vent’anni, ancora. Saro lì per te, come quando sedevo sullo stesso sellino del tuo motorino, e ti stringevo con braccia imbarazzante la vita, e ti pensavo nel tempo, e sapevo che avremmo risposto allo stesso numero, al telefono. Mi avresti risposto, e avresti avuto il coraggio di scoprirti il cuore.
E poi i salti, bum bum, fino alle porte dell’ universo.
E le stelle, che sono sempre le stesse, nei miei occhi e nei tuoi. E poi marzo, ed un’ altra primavera, e non sarà inquietante, se mi prendi la mano. Telefonami, se hai voglia di capirmi. Io adesso, non ho voglia di capirti. Però abbracciami, se vuoi che la primavera fiorisca.
Il duemila era un sogno per tutti… Da ragazzina sognavo come poteva essere, e facevo il conto di quanti anni avrei avuto. Pensavo che sarei stata vecchia… una vecchina di quarant’anni!
Ma in un salto ci siamo arrivati e, anche se apparentemente era rimasto come il secolo prima, con il passare dei mesi tutto quello che avevo sognato era rimasto nel cassetto.
Niente capelli e barba bianca, niente giratine mano nella mano, niente da condividere con una persona importante, perchè, è proprio in quell’anno che il mondo mi è cascato addosso lasciando un segno indelebile.
Da allora non sono più riuscita a trovare la felicità e, quando ho avuto eventi che dovevano essere di grande contentezza e soddisfazione, ho sentito la tua mancanza che nessuno, ancora, è riuscito a sostituire.
La vita non è stata facile, con tante responsabilità, decisioni importanti da prendere senza condivisione, ma a questa età credo di essere consapevole di aver fatto le scelte giuste e di sentirmi tranquilla con me stessa. Questa è la cosa più importante… nella vita bisogna anche accontentarsi…
Ho bisogno di te ma non so il tuo numero a memoria.
Avevo un’agenda, la cerco disperatamente, la trovo in fondo ad un cassetto, polverosa, la sfoglio velocemente ma è tutta cancellata e illeggibile, non si usa ormai più. E non sono passati neppure vent’anni.
Ho bisogno di te ma non so il tuo numero a memoria.
L’ho memorizzato sul cellulare, è facile telefonarti. Cerco, cerco ma non so dove l’ho lasciato, senza cellulare mi sento nuda, mi sento sola, voglio chiamarti ma non so come fare. E sono passati appena vent’anni.
Ho bisogno di te ma non so il tuo numero a memoria.
Ho riempito le tasche con pizzini con il tuo numero di telefono, li cerco, li trovo, poi non li trovo più, faccio confusione, non riesco a rintracciarti, è un incubo!
È un incubo! È il solito sogno che spesso è con me. Poi però mi sveglio. Decido di imparare il numero a memoria e di scriverlo sulla pelle se telefono tra vent’anni.
Ho visto persone che vivono uno spazio e una canzone che li riporta alla condivisione del tempo. Il piacere di ritrovarsi è espresso anche dal corpo che balla, in libertà, e il gioco di rimpallarsi le parole conferma che sono ancora insieme, dopo vent’anni.
“Importante è non arrivarci in fila ma tutti quanti in modo diverso” canta Lucio, e forse la canzone è più immagine del video.
2. Suggestione di Carmela De Pilla
Ripensami tra vent’anni
Ripensami tra vent’anni figlia mia
le gambe non saranno più pronte per andare
le mani saranno intrappolate dal tremolio
ma ripensami.
Il sole continuerà a splendere
le stelle ci guarderanno
e io sorriderò pensando a te.
La memoria avrà cancellato il mio passato e ne avrò nostalgia
rincorrerò i bei momenti e sarò felice.
Ripensami tra vent’anni figlia mia
quando sentirai a malapena il suono dei miei pensieri
Da giorni non si muoveva, spostava quella catasta di materiale dividendolo per genere;
Ferro, legno buono, ottone, mattoni e tegole, elettrodomestici da smontare.
Sarebbero dovuti venire a giorni a recuperarlo. Lui così avrebbe avuto un po’ di disponibilità economica per poter finalmente andare in paese a fare una scorta di cibo e incontrare i soliti amici.
Anselma gli trotterellava fra le gambe, stanca anche lei di mangiare pane secco e qualche crosta di
Formaggio. In quei giorni , aveva anche aggiustato quel vecchio e malandato portone che in modo sommario chiudeva l’accesso a quella stamberga scavata nella roccia.
Era avvezzo ai capricci del vulcano come tutti del resto, c’erano giorni che sembrava di essere sulla luna per quel colore grigio-nero che prendevano tutte le cose, dicevano che sarebbe successo di nuovo e lui non voleva farsi trovare indifeso.
A lui piaceva quella cenere, sentiva camminando i passi silenziosi, le piante sembravano tutte uguali e dello stesso colore. l’indomani sarebbe andato in paese, si coricò con i panni pronti e l’ape carica di tegole per la sorella che restaurava il porcile. .
Sembrava una notte tranquilla senza stelle, con il solito vento intervallato da folate improvvise.
A volte le nuvole si spostavano veloci e si scorgeva un chiarore, era la luna, luna piena. Si intravedeva la radura con quei cespugli alti e pungenti. Gli alberi intorno con tronchi grossi e rami alti e pieni che si muovevano sempre più veloci. Si sentivano rumori strani, e indecifrabili.
Forse esplosioni, crepitio di legno spezzato, rotolare di oggetti e pietre.
In lontananza si intravedevano dei chiarori e strane forme luminose che si sollevavano nel cielo e precipitavano , la radura era un luccichio continuo. Un odore intenso e nebbioso si levo’ nell’aria, con fumo e fuliggine. Si udivano stridii di animali che come impazziti a balzi si disperdevano. ,
uno stormo di uccelli giganti con larghe ali andava verso la radura, tentava di spiccare il volo , solo dopo una forte esplosione e uno spostamento d’aria ci riuscì, come previsto il vulcano si era risvegliato , accadeva spesso ma sempre con pochi danni.
Lentamente si acquetarono i rumori, il vento cessò , non si vedevano incendi in lontananza, stava sorgendo l’alba. Anselma cominciò a scodinzolare festosa, stava volentieri con Ciro si sentiva protetta. Nata sfortunata perché la sua mamma , randagina, dopo aver partorito cinque cuccioli tre maschi e due femmine era morta. I cuccioli vivevano sotto un ponte dove c’erano drogati, alcolizzati e poveri migranti, occupando di giorno i loro giacigli vuoti ma la sera venivano scacciati a sassate e a volte con secchi d’acqua gelata. Due cuccioli non arrivarono a tre mesi e un giorno non si seppe più niente di loro. Per fortuna durante il giorno qualcuno di buon cuore si avventurava in quel disastro per portare da mangiare a una colonia di gatti e lasciava un po’ di latte per i due cuccioli in vita.
Avevano occhi tristi , gli mancavano coccole , accudimento , pulizia e cibo adatto a una vita decorosa
Anselma era arrivata al bar del paese di Zafferana, non si sa come e riceveva la carità degli avventori. Un giorno si era accucciata sul sedile dell’ape di Ciro trovando cosi un buon padrone
Si erano intesi subito, poche esigenze entrambi, una vita scombinata tutti e due.
Lei lo seguiva negli spostamenti per il lavoro, faceva la guardia alla casa quando lui si assentava. Lo sentiva da lontano e quando lo vedeva arrivare sulla sua APE vecchia e rumorosa ma sempre riconoscibile per quel pezzo di legno colorato attaccato sulla ribalta si attaccava alle sue gambe
Quel pezzo di legno , aveva un grande valore per Ciro, lo ridipingeva spesso perché era la sua eredità
Una parte posteriore del vecchio carro di famiglia decorato con il quale si facevano i lavori in campagna. Anselma lo vedeva scendere veloce per la stradella di casa con quel traballante mezzo.
Era piccolo, magro, ossuto, vestito con una giacchettaccia logora ma non lacerata, la sorella spesso ricuciva gli strappi e aggiustava i bottoni. I pantaloni poggiavano sulle scarpe vecchie di fango a mo di organetto. La sua faccia scavata metteva in evidenza due guancette rosse, una bocca incorniciata da baffi bianco -grigi. Aveva un’espressione sorridente oserei dire sognatrice spesso quando faceva fermate a bere un goccetto di vino. Portava un cappellaccio sbertucciato che riparava la sua testa piccola coprendo anche una parte della fronte non nascondendo però gli occhi vivaci dall’espressione furba e scherzosa.
Era un personaggio unico, viveva giorno per giorno di quello che riusciva a racimolare.
A modo suo era un poeta , improvvisava canti e poesie in rima alle fiere di paese. La cagnetta Anselma era diventata la sua compagna di vita , quando erano in giro per i mercati, riceveva tante attenzioni e buon cibo e al rientro digiunava per diversi giorni.
Una vita sempre uguale, di intese silenziose , si vedeva che fra loro regnava l’armonia
Era un giardino incantato. Di quelli che un tempo impreziosivano ville e castelli della nobiltà europea e non solo di quella. Era curatissimo, rigoglioso e ricco di statue . Figure fra il mitologico e il mostruoso, piante di un po’ tutte le provenienze . Felci e cactus si tenevano quasi per mano. Le liane si intrecciavano alla vite americana in amplessi quasi umani. Cipressi, aceri, salici piangenti, baobab e sequoie stavano lì dentro in bella mostra senza gareggiare in alcun modo fra loro. Chi ci entrava respirava un’aria particolare . Era come trovare tutto il mondo in un giardino . Non aveva recinzioni, questo era il bello. Ma era veramente prezioso per altro. Non si sa come e per effetto di quale magia, lo popolavano senza infastidirsi o cercare di prendere il sopravvento una sull’altra, specie diversissime che di solito si trovavano sparse per il globo. Anche i muschi e i licheni che popolavano il grande Nord vi avevano trovato casa, così pure le piante che, quando fiorivano tutte insieme, davano un tocco di vita alla valle della Morte. Nessuno sapeva, come tutto questo fosse diventato una realtà, anche perché era sconosciuto ai più. Chi ci si inoltrava, ne usciva cambiato profondamente. Tornava a casa convinto che nulla era impossibile, e che la natura a volte matrigna sapeva organizzarsi e dare lezioni di convivenza agli esseri umani. Era un giardino incantato . Forse era un sogno. Oppure una utopia tradotta in realtà! Pensarci rasserenava e rendeva meno tristi. Peccato che ad un certo punto la villa fosse stata abbandonata e sempre meno persone erano riuscite a trovare quel giardino e ad entrarvi dentro. Anche Lea, che era nata e cresciuta in quel luogo non ricordava più quando tutto era iniziato. Era ancora bella Lea, nonostante i suoi 83 anni, sempre sorridente e pronta ad ascoltare la vita di chi si affidava a lei per un consiglio o semplicemente per un’ora insieme e se era in vena prendeva il suo tamburello e suonava. Se l’era trovato tra le mani fin da piccola e, senza sapere come, aveva imparato a suonarlo. Lo sentiva nelle vene quel ritmo e a volte se ne andava in giro a cercare luoghi ricchi di mistero e si immergeva nella natura, unica sua vera amica. Una mattina, per inseguire pace e tranquillità, si ritrovò senza volere nel giardino della villa. All’inizio un po’ titubante, poi attratta da quella vegetazione selvaggia si era seduta su un muretto, si era guardata attorno e aveva cominciato a suonare. Le dita danzavano sulla pelle ben tesa del tamburello e come avvolta da un’aura che rifletteva la sua anima, continuò a suonare e danzare volando tra le piante, mentre il giardino fu avvolto da un ritmo antico che evocava immagini di pace. A poco a poco Lea cominciò ad accorgersi che le piante stavano apprezzando la melodia che, con leggerezza di tocco, Lea riusciva a trarre dal suo tamburello. Il giardino aveva trovato la sua voce.
La biblioteca strapiena sembrava scoppiare, gli archivi fine 800 di un legno che sapeva di noce, sembravano non sopportarne più il peso, scaffali, scaffali, scale, scalette, scalini, libri, libri, tanti, troppi libri stravecchi, non c’ era la temperatura ideale…soffrivano questi locali, talvolta l’ umidità, talvolta il caldo…il freddo, la perdita della copertura era stata letale…
Un grande e fantastico labirinto che solo lei conosceva, tutto senza un criterio: collezioni, riviste, collane, edizioni preziose, senza un ombra apparente di logica…dicevamo tutto, tutto o quasi…tranne…
Così vestita, così svestita, tragicamente coperta da ciò che aveva e credeva ancor buono: una garza lisa a tratti sporca, di un giallastro avorio, avvolgeva il suo corpo, un corpo massiccio, opulento: Alma, fantasma libroso, sguardo perso, quasi fragile, schermato da ciglia sfilacciate, le guance ingiallite come vecchie pagine di un libro abbandonato….i capelli scomposti e ricomposti più volte, sembravano girini bagnati d’acqua di pioggia.
Spesso trascinava un sacco di “grassa” plastica grigia, peso di volumi non letti, chiuso da un nastro dalla parvenza preziosa, di un colore indefinito tra il bleu Savoia ed il sudicio delle scale….un tutto comunque da gettare!
…Sdrucita, ciantellava quasi allegra, strappando piccole foglie morte, alle piante invasate nei grandi orci datati degli immensi corridoi della biblioteca all’apparenza deserta di gente.
Sembrava volesse affogare nei libri i suoi passi, passi pesanti, accompagnando la sua mente in fuga ad un mantra vecchio di anni, forse una ninna nanna, letta chissà dove e chissà quando: coscine di pollo…
Era un viaggio lungo e tortuoso, che lei seguì.
Tutto doveva cambiare essere trasferito, trovare una nuova dimora, una nuova dimensione, ogni libro aveva bisogno di amore, di supporto e conforto: pubblicazioni importanti, lettere autografate, manuali antichi, testi blasfemi, bibbie vecchie di secoli, Poesie d’ amore, manuali di giardinaggio, Alma fece tutto con attenzione e preoccupazione, con follia e fantasia: il Pozzo Librario, stava nascendo, nuovo, computerizzato…scaffali scorrevoli, luci fredde quasi ospedaliere, situazioni inaspettate dove ogni locale si affaccia su altri, una magnifica raggiera, un vortice, un labirinto circolare dalla temperatura non calda, quasi “Mattino di primavera fredda” come il titolo di quel libro che si ritrovava tra le mani…
Nemmeno se ne era accorta, aveva aperto la porta amica verde di vecchia vernice, senza chiave ed era uscita per un appuntamento con le pagine e si era trovata nel “Pozzo Nuovo”
La cantilena riaffiorò, le mani violaceo, i seni pesanti, umidi di pazzia, le gambe segnate dai lividi, stronzi spigoli pensò, indossando un cappello di carta di libro grande, per proteggere i suoi girini che rischiavano di diventar rane ad ogni passo.
Noooooo la cultura in cella frigo, gridò! Per conservare le parole, per consultare un libro, avrò bisogno di piume calde, calde di giubbotto, di capo nuovo….
Nooooo….Alma tremava, leggeva, pregava, cantava: fate la nanna…sparendo ansimante, nella prefazione di un nuovo libro dalle pagine bianche tutte da scrivere!
È situato su una collina in mezzo a rovi vicino ad una via francigena che attraversa la zona.
Sembra di essere in un altro mondo, il silenzio, il cielo, i vecchi muri e tante fantasie come a costruire una fiaba.
Nel prato attorno uno scultore del posto ha lavorato pietre e sassi trasformandoli in personaggi, donne, uomini, animali.
Quindi la fiaba può continuare a comporsi.
Ma poi arriva la strega cattiva, una vecchia pedana abbandonata da anni, forse il tentativo di farci qualche spettacolo, ma ormai lasciata alle intemperie, alla ruggine e al legno disfatto.
Attorno comunque regna una energia creativa ricca di storie.
Vale la pena incunearsi in viottoli sconnessi, impigliarsi in rovi pungenti, perdere la strada, scambiare viottolo per arrivare in questo posto magico situato nel cuore del Monte di Firenze.
La flora è particolare, ci troviamo pure lo scardiccio, cespuglio che nasce solo nei posti marini, ma che qui ha dimora perché c’è la magia di un vento che viene dal mare.
Merlino, gattino abbandonato, trovato, accolto e amato era curioso, avventuroso e creativo.
Aveva il brutto vizio di salire sulle mensole e sui mobili e fu proprio lì che trovò un paio di stivali magici.
Curioso com’era volle entrarci e appena indossati, preso da un brivido particolare si sentì leggero, iniziò a fare grandi salti, talmente grandi da trovarsi in quel luogo speciale che era il Palazzaccio.
Merlino aveva sentito parlare Patrizia, la sua padroncina che in quel posto fatato c’era un tesoro nascosto in una grotta.
Puntò i suoi stivali al centro delle mura e questi autonomamente virarono verso un anfratto preciso nascosto dalla vegetazione.
Magicamente la grotta apparve e all’interno cosa c’era? Un tesoro immenso fatto di emozioni, luce, calore, colori e amore, un amore grandissimo che a Merlino ricordò le carezze e le coccole che gli faceva Patrizia.
Allora corse, volò e torno là dove tutto era iniziato, tra le braccia della sua padroncina.
Aveva gambe lunghe, sottili e leggere come quelle di un fenicottero.
Vestiva di piume rosa come quelle di un fenicottero.
Era alta e girovagava sognante con la sua borsetta rosa in tinta con le piume.
Si trovò di fronte ad un portone anonimo, di quelli in alluminio e vetro anni ’70: si apriva su pochi scalini senza guida che salivano verso un pianerottolo illuminato da una finestrella polverosa e alta.
Pensavi che fosse un uccello? No, lei era una donna e in fondo non era nemmeno così leggera: semplicemente aveva bisogno di luce.
Da quel pianerottolo a destra una scala, a sinistra un’altra, davanti e dietro altre due rampe. Nessuna indicazione sull’eventuale giusta direzione da prendere.
La prima rampa di ciascuna di quelle quattro scale si affacciava su un altro pianerottolo da cui ripartivano otto scale che portavano al successivo da cui si irraggiavano sedici rampe… e così via in una successione apparentemente senza fine. Una ragnatela di gradini e rampe di cui era difficile comprendere la direzione: su, giù, destra e sinistra divengono relativi
Seguirle era difficile perciò lei aveva gambe lunghe.
Aveva bisogno di vento, per questo vestiva di piume.
Aveva bisogno di acqua per lavare la polvere delle strade sassose,
Dall’alto sono un ammasso di rovine colore sabbia con qua e là sfumature di grigi e ocra. Occorre scendere verso la voragine per cominciare a distinguere: un campanile addossato alla chiesina non si sa se a sorreggersi o a sostenerla, le casupole con ancora qualche gradino e persiane ciondolanti. Avvicinandosi di più ci si può accorgere di uno spiazzo con una specie di vasca rettangolare: una fonte? Un abbeveratoio? Chissà, solo vecchie foto ben nascoste in un archivio possono rivelare che quella specie di presepe disabitato e desolato una volta era un paese brulicante di persone e animali, il campanile e la sua campana, la fontana e le cannelle zampillanti acqua fresca. A quelle finestre ormai orbe c’erano fiori e panni, canti e richiami, e da alcune file di pietre smangiucchiate si capisce che muri e muretti accoglievano rampicanti, chiacchiere, soste ombrose. Ma un giorno, chissà come e perché, si decise che una valanga d’acqua sarebbe stata importantissima per la valle e il circondario, così tutto fu abbandonato in fretta e furia e dopo un tempo concordato ecco pronto l’invaso per la diga, che ogni tanto viene svuotato per la manutenzione e rivela le tracce di quello che non serve più: un ex paese che però non molla, pietre testarde e decise a fare memoria di una vita magari semplice e più dura che ha dovuto piegarsi al progresso ma non ha voglia di scomparire. Era stato un ragazzino pestifero. Di quelli che non danno retta a nessuno, sputano e fanno i dispetti a tutti. Con il senno di poi non sarebbe stato difficile andare a vedere in quella casa, cercare di capire, ma allora non si usava. Così ebbe presto la fama di carognetta, da scansare. Peggio fu alle scuole medie, quando i professori lo mandarono nel banco in fondo, subito. E lui chiuse i libri, per sempre. Gli dicevano ignorante e fannullone, e forse facevano finta di non sapere che lavorava già. Faceva il garzone del macellaio, che a fine settimana lo pagava con un fagotto di bracioline che a casa aspettavano a gloria. Era biondissimo, e già era una fatto raro, e con degli occhi così celesti che era difficile distogliere lo sguardo. Era bellissimo. Chissà se oggi lo sarà ancora, sono passati tantissimi anni. Ed ecco, si materializza. Sempre biondo o, a meglio guardare, bianco….ma era alto, cioè basso, così? No, impossibile, forse è rimpicciolito. Parla bene, è vestito da Signore di campagna molto signorile. Sicuramente ha fatto buona vita, si mantiene bene. Sembra abbia anche studiato. Poi racconta: ha sposato una con i soldi, poi è stato facile metterli a frutto. Sa quattro lingue, ha girato il mondo. È gentile e simpatico. Ha avuto una nuova bella vita. La vita di prima è scomparsa anche fisicamente quando la costruzione della diga ha richiesto l’abbandono del paese che è stato affogato dall’invaso. In quel paese era nato e vissuto, in una vita povera e serena. Tutto questo fa sì che il ricordo rimanga, tutto il resto sembra un sogno che ogni tanto riaffiora quando, svuotando la diga, per magia, il paese riemerge. Ma il solo ricordo e la vista di povere rovine è troppo doloroso. Così sa di poter ben utilizzare i suoi soldi per rendere giustizia alle vite di chi è passato da quel paese. Costruisce un museo dove trasferisce e restaura tutto quello che rappresenta il paese che il mondo voleva cancellare, e riesce a fare sì che ne resti traccia per sempre