La frase “Rammenta e rammenda” per Daniele

La lunga vita del canovaccio – di Daniele Violi

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Quel canovaccio di Canapa che da tempo vedo abbandonato sul tavolo di marmo in terrazza, deve avere un compito ancora da svolgere. Troppo facile finire la sua vita come un cencio qualunque.

Bucherellato in alcune parti, sfibrato ai bordi, la fibra della trama, così forte ha comunque per decenni assorbito e rimosso tutte le possibili sostanze che in cucina passeggiano nei piatti e sui lavelli dove la vita nostra è scandita dal cibo dei piatti fumanti e dalle tovaglie sui tavoli che ci donano gioia di assaporare gusti profumi e calore che l’amore di chi cucina ci regala. Tutte le volte che il canovaccio ha potuto rendersi utile, appeso poi ad un gancio, ha potuto osservare lui, proprio lui, quanto era stata importante l’opera che a lui veniva richiesta. Si sentiva soddisfatto, ora di aver accarezzato tutti i piatti, i bicchieri o aver sentito il contatto con il marmo del tavolo e magari di aver sopportato il sonno di padelle abbandonate a capo in giù  con le gocce da smaltire. É questa la vita del canovaccio. Ora in pensione e con i bordi sfilacciati e pertugi tra la trama, ora ci penso io a dargli una vita migliore. Voglio che viva ancora e ci e mi rammenti lui come é nato, chi ha voluto crearlo e quindi mi dedicherò a lui, e con un buon rammendo tramite le sue stesse fibre passerò a rammentarmi la bellezza della Vita e della Persona che era mia Nonna Angela, che lo ha tessuto. Dopo voglio vederlo; lo metterò sul tavolo. 

Una frase allegra ci fa sorridere con Sandra: “Ciaccole fasulle senza senso”

CIACCOLE FASULLE SENZA SENSO di Sandra Conticini

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Ohhh lei bel giovine icchè l’ha da dire che siamo qui a ciaccolare da stamani!!!Che gli sembra senza senso essere in apprensione perchè il gattino della poera Liliana l’è scappato e un si ritrova più?!

Nel testamento aveva scritto espressamente che lo lasciava a noi tre e quando l’ultima di noi la morirà, se Milo c’è ancora, lo porterà in quella pensione che lei conosceva e che li trattano da re. Icchè la crede e la gli ha lasciato anche l’eredità e bisogna governallo bene, croccantini di prima qualità, medicine per la tiroide e controlli dal suo veterinario di fiducia. Bisogna fare perbenino perchè quando l’ eredità l’è finita e si deve pagare noi… che ha capito?

A lei queste cose gli sembrano senza senso?

-O dove sarà infilato l’è da ieri che un si vede!

-Via per farmi perdonare vi darò una mano a cercarlo!

Dopo essersi consultate le tre amiche decidono di accettare l’aiuto.

Si sente un urlo: Trovato! Trovato!

Oh dove l’era?

Sotto la macchina del postino con una gattina tutta bianca dal pelo bianco a godersi la vita!

Mica grullo!!! La Liliana la non la faceva mai uscire di casa per paura che un tornasse!!!! La un voleva rimanere sola!!!

La frase per Anna: “Rammenta e rammenda”

RAMMENTA E RAMMENDA – di Anna Meli

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            Rammenta e rammenda, nonna Maria, seduta sul muretto vicino alla porta di casa sua. Sospira e rammenda calzini bucati, mette toppe sui pantaloni, rifà orli sdruciti. 

Cinque sono i nipoti,quattro maschi e una femminuccia e il lavoro è tanto e noioso, ma lei lo fa con amore. La guardo e mi meraviglio per la velocità delle sue dita che, a dire il vero non sono una bellezza, storte dall’artrite e soprattutto dal lavoro di una vita intera. Le manca anche metà del dito pollice della mano destra, ma ce la fa lo stesso arrangiandosi per rendere ancora servibili quegli indumenti; certo non fa proprio capolavori, ma meglio non le  riesce.

            Dalla finestra della camera del piano di sopra la nuora, che non gode di ottima salute, perennemente in vestaglia ogni tanto si affaccia e interviene facendo critiche al quel modo di rammendare. La nonna sospira si stringe nelle spalle  e continua il suo lavoro.

            Mi siedo vicino a lei, in basso e osservo i suoi occhi  di vecchia, sono stanchi e lacrimosi ma tanto dolci. Conosco già la storia del mezzo dito, ma non mi dispiace ascoltarla per l’ennesima volta e a lei piace raccontare quindi le chiedo:

“ nonna mi racconti del dito?” e lei:

“rammento che ero una bella ragazza dritta e in carne non come mi vedi ora. Eravamo contadini e il grano veniva mietuto a mano, con la falce, non come ora. Era bello veder ondeggiare quella messe bionda e matura  che cadeva sotto la falce, quasi mi dispiaceva tagliarla anche se sapevo che sarebbe diventata pane. Faceva caldo, ma eravamo giovani e non si sentiva più di quel tanto; ogni tanto mi alzavo per asciugarmi la fronte con l’avambraccio per poi riprendere il mio lavoro e…lui mi guardava e… anche io lo guardavo dal sotto insù e fu così che la falce mi scivolò e si mangiò mezzo del mio dito. Me lo fasciarono così alla belle e meglio e via dal medico. Del pronto soccorso non se ne parlò nemmeno. Il medico condotto mi mise i punti necessari e come vedi mi ritrovo questo mezzo moncone rinfrinzellito proprio come i rammendi che riesco a fare. Mia nuora brontola, ma sono cinque, cinque nipoti e non si può comprare sempre roba nuova se si vuole arrivare in fondo al mese. Ti annoio cara bambina mia eh!”

            Non era così, a me piaceva ascoltare e sentivo dentro di me una gran voglia di abbracciarla. Non avevo una nonna e mi mancava. Lei sarebbe stata l’ideale. Le volevo bene.

Volevate sapere una cosa bella? – La risposta di Carla

Sotto il cielo di trent’anni fa – di Carla Faggi

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“Vedi quella costellazione laggiù? Quella è Cassiopea. E là vedi c’è Orione” ed io vedo il tuo dito, la tua bella mano, il tuo corpo accanto al mio… “quelle quattro stelle e l’altra sotto, quello è il carro maggiore”.

Intanto che mi mostri il cielo stellato con l’altro braccio mi tieni stretta a te, io appoggio la mia testa sulla tua spalla, sto bene.

“Quella striscia chiara che si vede appena è la via lattea, la vediamo solo in estate”

Quella è la nostra prima estate, sono ancora poche le notti che passiamo insieme, siamo in agosto del 1992, in quella casa in mezzo al bosco, che allora era solo tua e che ora condividiamo da quasi trent’anni, sulla terrazza due materassi. Abbiamo deciso di passare la notte coperti solo dal cielo stellato.

Mi stai raccontando il cielo, ed io penso che quel cielo è il più bello che io abbia mai visto, perché lì c’è proprio tutto, ci sono i nostri sogni, le nostre promesse, e…lì… lì proprio accanto a quella stella ci sono tutti i nostri programmi, le cose che faremmo, i posti che visiteremo, ci sono promesse di risate, di giochi, di baci e di carezze.

E là in fondo la vedi quella stellina? Cucinerò per te tutte le cose più buone del mondo, e tu cucinerai per me, ti nutrirò e tu mi nutrirai. Laverò i tuoi panni e tu laverai i miei, accarezzerò il tuo corpo e tu accarezzerai  il mio.

Guardo quel nostro cielo stellato, stelle, stelle delle mie brame che ci regalerà il destino?

Stella cadente fammi esprimere un desiderio: noi insieme per tanto tempo ancora.

Eccone un’altra stella cadente, puoi esprimere un altro desiderio se vuoi.

No, non importa, mi basta questo. Voglio stare con te tanto , tantissimo, e ancora tanto tanto tanto tempo.

Una frase per Carla: “Rammento e rammendo”

Rammento e rammendo – di Carla Faggi

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Da quando sono diventata molto adulta passo molto più tempo di prima a rammentare.

Forse perché ho più tempo per dedicare ai ricordi, forse perché ne ho accumulati molti più di prima, o forse semplicemente perché meno sarà quello che avrò da ricordare da quello che ho avuto.

Quando si è giovani il ricordare è un hobby che non frequentiamo con molta assiduità, preferiamo programmare, cercare, consumare.

Nel nostro presente invece gli dedichiamo abbastanza spazio. Ci piace farlo.

I ricordi quando diventano racconto oltre a essere rammentati, ovviamente, vengono rammendati anche un po’; ci si aggiunge qualche effetto speciale, qualche accortezza che impreziosisce, atmosfere particolari in più. Non sono bugie, ma piccoli dettagli che forse rimpiangiamo non siano stati veri.

Quando mi capita, per esempio, di parlare dei miei cari che non ci sono più, ci aggiungo tanti e tanti abbracci in più, talmente tanti da non riuscire a finire il racconto.

Certo non sono una che pesca un pesce di tre metri, anche perché non vado a pescare, ma quando parlo di mio marito dico e sono convinta che sia il più bello del mondo. Le mie amiche le più amorose. La mia scrittura semplicemente splendida.

Quindi concludendo, rammento, rammendo e quando rammendo talmente tanto sto proprio bene.

Beati i creativi, saranno fantasiosi.

Una frase per Gabriella: “Il crepuscolo della vita”

Il crepuscolo – di Gabriella Crisafulli

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È come se mi stessi preparando.

Il crepuscolo richiede grandi capacità.

Non è facile perdersi poco a poco con la grazia di essere presenti.

Quando la partita è persa, non è semplice impedire che il pensiero si accartocci fra rancori e risentimenti.

L’allenamento è continuo e deve far fronte a grandi resistenze interne.

È difficile portare anche solo una minuscola piantina a chi non può amarti.

Riuscire a farlo, però, spalanca finestre.

L’aria si muove, respira, alita, sorride: e muori in pace.

Una frase per Tina: “Rammenta e rammenda”

RAMMENTA E RAMMENDA – di Tina Conti

foto di Tina Conti

Penso  che possa essere  un difetto credere che  un oggetto,  un abito, un pezzo di legno, mantengano una loro personalità anche quando non sono più utili e non  utilizzati da tempo.

Sono capaci ancora di parlare alla mia mente:-potresti farci un  gilet, un portaoggetti, un grembiule da cucina… questo sento nel mio cervello.

In ultima ipotesi potrebbero diventare  presine per la cucina oppure stracci per spolverare,  oppure ritagliati a dovere scampoli creativi da mettere nel mucchio dei colori.

Parlano, sì, mi inseguono per la casa, certo è un vero peccato, gettare una trama così bella, che panno morbido, un filato così sottile e con quei colori. Quanto tempo e lavoro  ha richiesto per realizzarlo. Così si  ammucchiano  dentro la macchina da cucire,  sullo scaffale , sotto il mio tavolo da disegno  una miriade di progetti che aspettano di essere lavorati.

A volte riescono bene,  altre a forza di aggeggiare,  finiscono  fra gli stracci. Ma quanta soddisfazione però quando li vedo tornati a nuova vita, in un cuscino unico,  un grembiule,  delle ciabatte di gomma morsicchiate dal  cane che diventano ciabattine da bambini. Sarà perché ho visto le mani dei miei genitori sempre attive e capaci di  creare  tanti manufatti che mi ritrovo così. In quei periodi  si provava a fare tutto in casa, i calzini, camiciole, abiti, si riparavano gli oggetti e si  facevano tanti rammendi. Che bel cappotto mi ha fatto la mamma rigirando un tessuto  di bella lana  che era stato il cappotto della sua zia signorina. Certo, si dovevano mettere  dei grandi bottoni per coprire l’occhiello che si trovava  nella parte opposta  all’agganciatura. Lo portai con orgoglio , sapevo  quanto tempo  era stato necessario  per scucirlo, stirarlo e rigenerarlo. Guardavo la mamma lavorare, , capivo quell’amore silenzioso e quel tempo sottratto al suo lavoro di sarta  e agli altri miei fratelli. Ricambiavo alleggerendola  nelle incombenze di casa e cucinando. Ripensando a quei tempi,  mi spiego perché  la mia casa è cosi stipata di materiali recuperati, nastri, bottoni,  cerniere, utensili per  lavorare. Ci vorrebbero dieci vite  per  utilizzare tutto quel materiale , ho però dato accesso ai miei nipoti a tutti quei tesori. loro dicono, :_andiamo a chiedere alla nonna di sicuro lei  ha quello che ci serve. Conoscono bene la dislocazione e sanno che io sono felice che imparino con le mani. Mi ha confortato però  in questi giorni aver trovato dei vecchi anelli da tenda per poter realizzare  quelle belle ghirlandine  che la sorella della nostra Stefania  ha realizzato per il Mercatino natalizio della croce rossa. Le ho studiate con attenzione e poi, con filo di lana, verde , rosso e bianco,  un po’ bruttarelle  le ho realizzate.

Una frase per Patrizia: “Accompagnare un’amica al cimitero”

Accompagnare un’amica – di Patrizia Fusi

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La siepe di mortella e il terreno umido producono un odore acuto, mi arrivano alle narici con intensità, sono le aiuole all’ingresso del cimitero.

Un luogo di silenzio lo sento pieno di pace, tante piccole immagini mi guardano e io guardo loro, mi immagino la loro vita.

Tombe importanti, tombe modeste, piccoli quadrati sul pavimento tombe ancora più modeste, anche nelle sepolture ci dividono le classi sociali .

Ma in fondo tutti lasciamo tutto, ricchi , poveri, belli, brutti, intelligenti, ignoranti , bisognerebbe ricordarselo più spesso, forse saremmo più umani.

Mi sento in pace, il silenzio mi circonda l’aria è tiepida, mi verrebbe voglia di mettermi a leggere in questo luogo.

In lontananza vedo arrivare due donne che conosco,  nel vederle sento un dolore allo stomaco.

Marinella sta accompagnando Carla alla tomba del figlio.

E’ una giornata piena di un sole ridente il suo splendore offende il dolore di Carla.

Quindici giorni fa ha accompagnato il figlio in questo posto di pace e di tanto dolore.

Marco un bel giovane di ventidue anni, pieno di vita con tanti sogni e progetti.

Mentre andava all’università in bici alla rotonda vicino alla facoltà un camion l’ha trascinato, in un attimo è finito tutto.

Un dolore immenso in tutti.

La frase per Rossella: “La cerco ma lei non c’è”

La cerco ma non c’ è ( Luca) – di Rossella Gallori

Le cose le inizio bene, calligrafia chiara, quasi leggibile, poi non so svolgere, non so spiegare, il progetto mi cade di mano, si frantuma, non c’è Attak che funzioni, le briciole di me si attaccano sotto le scarpe, quasi mi fanno scivolare nel lungo corridoio lucido di cera…la mano si intorpidisce, lentamente le dita cadono una ad una, per unirsi ai pezzi di racconto, diventando tutt’ uno con i morsi di parole.

Poi…

.. poi, ho visto la porta aprirsi, e…sono entrati i bimbi, tanti tanti bimbi, alcuni buffi dai riccioli rossi, bimbi strabici con gli occhialini rossi.

Occhi verdi di mare.

Bimbe secche come sogliole, con i calzini ciondoloni su gambette magre, senza polpacci.

Bimbi più larghi che lunghi lucidi di ragù, frutto della solitudine, che crea fame, cibo per annientare il  dolore.

Bimbi belli belli così biondi da far luce, che niente può spingerli, nemmeno un blackout.

Fanciulline ben pettinate, le trecce identiche, i fiocchi non sgualciti di un color cielo, così cielo…da sembrare cielo, cielo sereno.

Non li accompagna nessuno, conoscono la strada, sono saliti fin qui, i sicuri con gli incerti, gli eleganti ed i non, i tondi, i rettangolari, i bellini tra i bruttini.

La porta si sta quasi chiudendo, ma lei dove è?

Dove è rimasta?

Ce l’ha fatta ad arrivare fino a qui da sola o ce l’ han portata?

La cerco ma non c’ è!

l’ avevo lasciata, non so dove con un quadernino mencio in mano, ed una penna morsicchiata tra i capelli scomposti.

Era dietro una panchina.

Non ricordo se rideva o piangeva

Se parlava o taceva.

Mi alzo di scatto, blocco la porta, chiamo forte, grido il suo nome.

La  cerco tra i cenci del teatro, in un treno che non parte, in un bagno gelido e vecchio…dietro una scrivania…

La cerco ma non c’è!

È sparita o forse non è mai stata qui, era, lei, l’inizio di qualcosa che non ricordo, un frutto insapore senza né buccia, né semi.

La cerco ma non c’è!

L’ho solo sognata e  la porta non si é mai aperta.

Eppure l’ avrei voluta incontrare, prima di domani.

Ci provo ancora.

Forse è sorda.

Scrivo  un grande cartello con il suo nome…il mio.

Lo espongo alle mareggiate di vento.

La cerco ma non c’è.

Non mi trovo…..Non mi voglio trovare…

La frase per Stefania: “Un pensiero distratto”

Un foto pensiero – di Stefania Bonanni

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Un pensiero distratto si infilo’ prepotente e di corsa tra i pensieri diritti, quelli quotidiani, ubbidienti, solerti, che non fanno rumore, quelli che si fermano lì, non danno avvio ad altri più complicati, più insoliti, meno decifrabili. Il pensiero distratto di un ricordo luminoso, anzi brillante, indimenticabile, felice e resistente. Non e’ servito cercare di sminuzzarlo, diminuirlo, renderlo cattivo, raccontarsi che non contava. Fu bellissimo, un amore grande, fece tanto male, ma oggi ringrazio la sorte, per aver vissuto quel giorno splendente.

E’ un foto pensiero, quello distratto, distrutto, disfatto, sepolto, riesumato, poi imbalsamato. E mi trovo lì, nel giardino nascosto di una casa sconosciuta, in un mattino di sole che divento’ notte, senza avvertire. Suonava un pianista. Non arrivava proprio un ritmo, più una dolcezza struggente che sembrava magia. Avevo deciso di vivere un sogno. O forse non l’avevo deciso davvero, era l’onda lunga di un mare in tempesta che trascinava, e forse l’unico modo di calmare quelle acque alle quali non era possibile fuggire.

Un sogno. Braccia forti che stringono, ore ed ore di carezze e parole strascicate nei fiati mescolati.

Un sogno che sarebbe rimasto incastonato come un brillante in una collana d’oro. Non lo sapevo, allora, che sarebbe tornato, mascherato da pensiero distratto, ogni volta    che fosse servito sognare, ed anche ogni volta si allentassero le maglie della catena dei pensieri diritti.

Quello distratto era fatto ad uncino. Non faceva più sanguinare, ma mordeva ancora, quando si infilava nella carne.

Ci sono stati milioni di momenti di brillanti, nella mia vita. Sono una donna fortunata. Ma anche i brillanti, con la consuetudine, diventano opachi. Le storie non vissute restano intatte, appuntite, giovani e luminose. Il cuore non dimentica.

Una frase per Nadia: “Il crepuscolo della vita”

CREPUSCOLO DELLA VITA!! – di Nadia Peruzzi

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Ho scelto questo. Un titolo che fa pensare a qualche racconto straordinario di E. A. Poe tipo “La caduta della casa degli Usher”, o “Il pozzo e il pendolo”.
O per metterla un po’ più sul divertente all’avvoltoio sul letto della nonna, di una gag di Panariello. . ovvio in attesa che la vecchia passi a miglior vita!
In realtà l’ho scelto per parlare d’altro . Del suo contrario!
Di quel momento della giornata in cui il sole decide che è tempo di cambiare aria, si fa meno potente e va a nascondersi laggiù laggiù, e si traduce in una linea dalle sfumature rosa che accarezza e segna i contorni di tutte le cose.
Quanti ne ho visti ! Per quanto possa ricordare non mi hanno mai incupito. Momento sospeso, di passaggio, in cui a volte anche il cuore sembra fermarsi insieme all’aria attorno. Sembrano affievolirsi i rumori mentre il giorno comincia a cedere il posto alla notte.
E’ un momento di magia. Tutto in fondo lo è in questo rotolarsi senza fine dei pianeti, che girano attorno a sé stessi , ballano attorno al sole mentre gioca a rimpiattino con la luna.
In alto, sopra di noi finalmente le stelle prendono il sopravvento. Quando guardiamo in alto andiamo a cercare loro , non il buio siderale nel quale nuotano. IL carro dell’Orsa maggiore uno dei più gettonati, ma vogliamo mettere Cassiopea o Venere?? 
Come si fa sotto un brilluccichio come quello a pensar male.  Sotto quella coperta escono sogni, progetti. Quante marachelle abbiamo fatto da bambini in quelle notti di primavera che speravamo non avessero fine.  Appuntamento al crepuscolo , obbiettivo un campo pieno di alberi di ciliegie sopra Balatro, sulla via di Tavarnuzze.
Era una festa la camminata per arrivare fino a li’. La musica ce la inventavamo. Ancora il mangianastri non c’era e se ci fosse stato l’imperativo categorico sarebbe stato tradotto così : “Chi lo porta è grullo. Il contadino ci sente!!”
Dominava il silenzio nel momento in cui salivamo sugli alberi per prenderne il più possibile. Poi , erano parlottii a bocca piena e grande sputazzar di noccioli, con le orecchie sempre all’erta. . il contadino poteva arrivare in ogni momento e allora si che sarebbero stati dolori.
Per fortuna la notte ha le sue ali di protezione. Ci rende ombre, come nel teatro giapponese. Sarà per questo, forse, che non ci hanno mai beccati.
Non riesco a pensare in termini di crepuscolo di vita. Preferisco quello di cui ho provato a scrivere.
Anche perché avessi deciso di sviluppare il tema avrei dovuto cominciare a pensare a quanto può ancora restarmi da vivere, secondo le stime di vita in Italia.  Che pensiero deprimente!
Tanto più se accompagnato dagli altri: quante rughe dovrò vedere apparire sul mio viso, quanto cederanno ancora mento e collo e soprattutto , ahimè, a quale strapiombo sarà destinato il mio seno?
Ci mancava proprio che Newton da una mela che cadeva da un albero, scoprisse che la forza di gravità tira verso il basso.
Qui di mele ce ne sono due e sono mie e il rischio grande è di ritrovarsele ancor più in caduta libera puntando verso le ginocchia .
Orrore puro!
Questo si . Altro che “La caduta della casa degli Usher”, pure con tutto lo sferraglio di catene che si sente risuonare in quel racconto.  
Rispetto al pensiero della caduta di queste due mele avvizzite, un film horror farebbe meno paura.
Allora? Che si fa?
Cerchiamo di giocare noi a rimpiattino con la vecchiaia, provando a non prenderla sul serio come vorrebbe!
Guardo oltre la finestra mentre sto scrivendo. Si vede una corona di nuvole bianche compatte come enormi batuffoli di cotone in cui potersi rotolare senza farsi male. Fanno da sfondo a sagome di uccelli che volano ad ali spiegate, la stanchezza della sera ancora sembra non essere arrivata a rallentare i loro volteggi.
La luce si va attenuando. Più che pensare al buio che avanza cerco di far durare il più possibile questo momento di passaggio.
Non è il muro della notte che avanza ma una porta che si apre se si ha ancora voglia di sognare.
Sogni ad occhi aperti , in questo momento sospeso fra giorno e notte, e ti appare un mondo che riesce a ritrovare le sue coordinate di umanità e razionalità e faticosamente ridisegna un cammino più agevole e meno ingiusto per tutti.
Ovvio sogni ad occhi aperti,  ma a TV spenta. Quel che c’è da sapere lo sappiamo da 70 lunghi anni in cui i governi non hanno risolto le spinosità di un mondo fatto di genti diverse , spesso molto diverse fra loro che devono trovare il modo per collaborare e cooperare, è al sogno che ci dobbiamo aggrappare non come rimozione della realtà ma per ridare corpo e fiato e grido alla speranza ! Senza quella altro che pensare al crepuscolo della vita , sarebbe meglio chiedere all’Ispettore Callahan di darci la sua 44 magnum e spararsi subito.
Invece no!
Speranza e sogni fanno risaltare i colori delle piccole e grandi cose che ogni giorno ti danno il coraggio di guardare avanti.
Un fiore, un tralcio di vite americana e un acero rossi come il fuoco e pronti per essere fotografati a memoria di questo autunno che sembrava non arrivare mai. Le risate e gli sguardi dei nipoti.
Immagini colorano i sogni. So di aver sempre sognato a colori. Fin dal tempo in cui sognavo le battaglie degli antichi romani. Anche oggi quando sogno è così.
Qualche volta arrivano aromi inebrianti da nuvole impalpabili di polverine dai colori sgargianti.  Ecco arrivare, la curcuma a braccetto con lo zafferano e il curry.  Qualche altra volta sono il coriandolo, il sandalo e il gelsomino.  E chissà come, sei ad un tavolino a bere ayran e a mangiare un kebab dell’Anatolia. Una marea di genti intorno che vanno e vengono , in file lunghissime, vestite con fogge che non sono le tue ma visto che quel tavolino è a Istanbul ti senti come se fossi a casa.
E gli incontri che si possono fare in questa città da 15 milioni di abitanti.  
Non nei sogni ma in una realtà che a pensarla sembra così impossibile, da farti dire forse ho sognato !
Invece nella frazione di tempo di due fermate di tram, due grandi occhi neri di bambino ti fissano intensamente. Sei quasi a disagio. Temi di averlo colpito con la macchina fotografica.
Il fratello più grande ti guarda allo stesso modo, così anche la giovane madre col velo e il padre. E’ il padre a dire in una lingua che non ricordo :” ti abbiamo già vista!”” Un tuffo al cuore. La paura di essere scortese, non ricordando . Poi un lampo “Palazzo Beylerbey”, dico! 
Loro hanno riso , io ho riso. Una risata non di circostanza, ma di quelle belle , che fanno bene al cuore, spezzano confini e rompono qualsiasi tipo di barriere. Come se ci conoscessimo da una vita e non da quelle tre o quattro parole in turco che son riuscita a spiccicare mentre facevo in complimenti ad un bambino in carrozzina della famiglia che era insieme a loro a visitare il palazzo sulla costa asiatica.
Il mondo puo’ essere così piccolo, anche in una megalopoli come quella.
Una consapevolezza che è in grado di rischiarare anche la notte più scura. Come i nostri sorrisi su quel tram alle 10 di una sera piena di vento e di stelle.
Le ombre e gli angoli bui della notte sai che domani spariranno. La luce riprenderà il suo posto, infilandosi anche nelle fenditure più strette!
Tutto scorre.  Nulla resta mai uguale a sé stesso!
Immagino una grande ruota in cui alba, giorno, crepuscolo e notte giocano a rincorrersi in un magma fluido che li spinge e li accompagna.
E’ la vita, sono le sue scansioni. Corre e scorre.  Viverla è il modo migliore per non pensarci chiusi in un sacchetto circondati da acqua lattiginosa che non ha nulla a che vedere con il liquido amniotico.  Tanto più che su quel sacchetto la prima cosa che vedi è la data di scadenza !
Non siamo mozzarelle, perbacco!!

Una frase anche per Cecilia

Il buio – di Cecilia Trinci

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Quel “vorrei sapere qualche episodio bello che vi viene in mente di questa lunga vita” mi ha fatto e mi sta facendo pensare. Confesso che non saprei isolare, di questo lungo scorrere degli anni, un frammento in particolare. Sarebbe come fermare il film in punto preciso, escludendo tutta la storia che c’è, staccare un isolato fotogramma per farne un protagonista unico…impossibile. Quasi come scegliere di una figlia, il suo momento più bello.

Ogni sorriso si compone di molti muscoli che lavorano insieme, denti, bocca, faccia contribuiscono ad un unico singolo solo sorriso. Ma se proprio dovessi tirar fuori un momento, per giunta bello in assoluto, se voi tutti ripeteste più e più volte la richiesta, vi direi allora di quel cielo stellato visto in piena notte, a largo di tutte le coste, in barca a vela, durante un turno di guardia, accanto ad uno sconosciuto con cui per un secondo ci raccontammo la vita, entrambi immersi nell’unico, immenso, totale buio che ho conosciuto, trapuntato dai disegni di  costellazioni e di stelle così grandi e intense da sentirle direttamente dentro gli occhi. Un buio nero assoluto e stelle luminose assolute, in un posto fuori dal mondo, di certo lontano dalla terra, nel silenzio assoluto di un nulla senza nulla. Il nero pastoso, sembrava ingoiarci, nell’abbraccio di un buco nero senza ritorno, incanto di un non luogo, senza Nessuno, un per sempre senza fine, senza dolore né gioia.  Ricordo che dissi: “non avevo mai visto il buio, fino ad oggi”.

E mentre lui, il nero,  mi succhiava, una piccola luce all’improvviso  apparve da un angolo, accompagnato dalla sirena  di un traghetto buio che apparve, vicinissimo, dal niente e sembrò ingoiarci, così, senza motivo.  Una massa scura passò veloce,  seguendo una sua strada invisibile, sfiorandoci in un terrore inatteso,  lasciandoci nella corrente di un vento cattivo che ci fece tremare.

Fu un attimo, che poteva essere fatale. Poi le stelle ripresero a guardarci grandi, facendomi perdere di nuovo il senso delle distanze, dell’orientamento, del perché e del come, del dove e del quando.

Nell’assoluto nulla.

Una frase per ognuno: “Rimbalzare tra portone e finestra” per Luca

Rimbalzare tra portone e finestra (da Rossella) – di Luca Miraglia

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foto di Lucia Bettoni

Pam, pam, pim, pam…

Sto passeggiando e mi arriva in lontananza un percuotere ossessivo di martelli e metalli, ma nel labirinto di questa Medina è difficile comprendere la direzione da cui proviene…

Zampetti di animali non meglio precisati lungo questo budello…

no, di qua no…

Pam, pam, pim, pam, papam…

Tessuti dai colori sgargianti e vestiti dalle fogge più improbabili lungo questo vicolo…

Ecco forse di là…

Cesti e cestini intrecciati con sapienza e maestria in questo slargo…

Pam, pam, pim, pam…

Si fa più vicino il percuotere ritmato che mi attrae, rimbalzando nell’intestino di questo folle mercato…

Inciampo nell’oscura bottega di un sarto che cuce un unico abito con accanto il venditore di pettini probabilmente riciclati…

Pam, pam, pim, pam, papam…

Vicino vicino…

Devo attraversare la bolgia della conceria a cielo aperto, tanto aberrante quanto affascinante…

Pam, pam, pim, pam…

Improvvisa ecco la piazza concerto dei fabbricatori di pentole, meravigliosi forgiatori di forme perfette, e mi lascio cullare da quel ritmo sconnesso che si fa suo malgrado creazione…

Pam, pam, pim, papam…

Una frase per ognuno: “Vorrei sapere un episodio bello che vi viene in mente della vostra lunga vita” di e per Lucia

La finestra sul tetto – di Lucia Bettoni

Foto di Lucia Bettoni

Posso rimanere qui questa notte?
Non so dove andare
Non ho più una casa
Non ho più niente
Posso rimanere?

L’ultimo piano di una grande casa colonica
Io non avevo niente
Lui non aveva niente
Non avevamo niente
neppure il letto

Abbiamo dormito su un letto gonfiabile
per almeno un mese
forse di più

Nessun mobile
solo quelli lasciati da chi
abitava lì prima di noi

In pochi giorni cominciò ad arrivare tutto:
chi ci regalava un vecchio cassettone
chi una vecchia libreria
chi un tavolo grande con il vetro sopra
perfetto per dipingere

La casa vuota si riempì delle cose di tutti
La casa più bella che abbia mai avuto
Era una casa libera
di una bellezza disarmante

Si poteva fare tutto
Tutto poteva nascere, crescere e
crescere ancora

Gli spazi perfetti
Le luci perfette
Il sapore delle cose autentiche
Lì la creatività aveva veramente la
sua casa
Nella semplicità più assoluta fiorivano
le cose senza fatica

Tutto era fluido
Tutto scorreva come un ruscello

Pochi vestiti
Poco di tutto
Poco poco
Quel poco era in ordine perfetto
un ordine che sapeva di libertà assoluta

Ma ecco un ricordo bello che bussa forte:
Il mio corpo di giovane donna
una finestra e un tetto

Ho sempre amato i tetti di coppi
delle case coloniche
Da bambina ci passavo le ore
appollaiata sopra insieme ai passerotti
e adesso quel tetto era lì
a portata di mano
anzi a portata di gambe
bastava saltare dalla finestra
e sdraiarsi sopra i coppi

Ricordo il mio corpo
e il calore del sole
sul quel tetto
come se fossi lì adesso

Quel niente
Quel tetto
Quel corpo caldo di sole
Quell’amore con gli occhi di luna

Da quella sera non sono più
andata via

Una frase per ognuno: “Rammenta e rammenda” la scelta di Carmela

Una vita da niente – di Carmela De Pilla

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Così sembrava.

Una lunga vita fatta di niente, desideri fatti di niente, storie fatte di niente eppure una lunga vita, tanti desideri e tante storie.

Storie che apparivano e sparivano come in sogno, andavano e venivano, un po’ sfocate, ma ben impresse nella carne per riconoscersi e farsi riconoscere, come a voler dire “questa sono io”.

La lunga tela tessuta con amorevole pazienza si era strappata, lacerata più volte, in alcuni punti era scomparsa persino la trama, ma lei non si era data per persa, aveva tessuto un altro pezzo e lo aveva rammendato con amorosa ostinazione perché non si vedesse il buco.

Aveva passato una vita a rammendare calzini, camicie perfino le lenzuola aveva rammendato perché niente venisse buttato, tutto doveva riprendere vita, una vita diversa, ma ugualmente viva e ora che era verso il tramonto le piaceva rammentare a tutti che quella vita fatta di niente era stracolma di bellezza, ogni rammendo una storia, tante storie da raccontare perché niente venga perso.

Ogni vita strappata, lacerata e poi rammendata deve essere rammentata perché diventi un bene prezioso per tutti noi.

Isolamento e piazza di Nadia

La piazza della signora Pina – di Nadia Peruzzi

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Per la signora Pina i due anni di isolamento da covid erano stati terribili.
Non tanto per il fastidio di quelle mascherine soffocanti , ma perché il covid le aveva tolto il suo regno, il suo spazio vitale.
Aveva perso il gusto della piazza, dello stare in piazza , anche del solo attraversarla salutando Luciano , il vecchio calzolaio, o Gilberto quel bel signore con cui trovava sempre qualcosa di piacevole di cui parlare.
Si era chiusa in casa , fra due mura e una tv.
Aveva visto di tutto un po’. Il mondo a portata di mano 24 ore su 24 , ma una brutta sensazione di soffocamento e chiusura, come se si trattasse di una prigione se la divorò in quei due lunghissimi anni.
Cina , India, Giappone, Birmania , il Messico in quella piazza mediatica c’era di tutto.
Ma lei pensava , alla sua piazza, quella vera,  a quella bella panchina dove spesso si fermava a conversare.  A volte stava zitta zitta , perché le piaceva ascoltare gli altri. Anche il calcio che non guardava mai , attorno a quella panchina finiva per diventarle interessante. Non capiva nulla di fuorigioco, di assist e di corner ma quando le tifoserie prendevano il sopravvento sulla razionalità, e rischiavano di portare alla rissa , allora si che si ringalluzziva tutta.
La prima volta che uscì senza mascherina , la panchina, la facciata della chiesa e il monumento sembravano lì solo per lei. Ma si sentiva bloccata come se riconquistare gli spazi fosse una impresa ardua e faticosa quanto una scalata.  Eppure erano lì e li poteva toccare, finalmente.
Durò poco perché Luciano fece capolino dal suo negozio con in mano una scarpa mezzo cucita.
La salutò con calore. ” Quanto ci sei mancata , Pina. Che brutto periodo abbiamo attraversato”
“Eh si Luciano.  A noi vecchietti la vita è accorciata di due anni. Li abbiamo persi e perderli alla nostra età mica fa bene, se poi ci aggiungiamo la solitudine in quelle du’ stanzine , altro che depressione”!
“Uguale per me. Che bello rivedersi! Pensa che per ingannare il tempo e non abbandonarmi ai brutti pensieri ho fatto più scarpe in questi due anni che negli ultimi dieci. Ora sarà un problema venderle. Aiutami un po’ te, Pina. Tu ci sai fare. Mi fai un po’ di pubblicità e in un battibaleno son sicuro le vendo quasi tutte!”
“Eccoli, finalmente “ sentirono da dietro la voce di Gilberto che arrivava con la sua bici. Il terzetto pre covid si era ricomposto.
La vita li riprendeva per mano e li portava di nuovo a guardare avanti con cuore più leggero.
Attorno a loro si formò un gruppetto di amici vecchi e nuovi.  Di nuovo insieme.
Che bello!
L’aria sapeva di primavera.
I fiori nelle fioriere erano una tavolozza di colori.  La signora Pina rivide la sua piazza bella come un arcobaleno e pensò : “Meno male che c’è !”

Pazza filastrocca in piazza di Simone

L’OMINO IN PIAZZA – di Simone Bellini

Testa, testa pazza

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C’era un omino in piazza

Che la nascondeva con un cappello

Perché nel centro non c’era un capello

Così coperto si sentiva più bello

Nel salutare gli amici e le lor signore

S’inchinava toccando, senza alzare, il cappello.

Una dispettosa folata di vento monello

Passò sotto la tesa sollevando il cappello

Così in alto lo fece volare

che sul ramo più alto lo andò posare.

Rosso in viso dalla vergogna

Che la sua piazza segreta fosse messa alla gogna

Si arrabattava con un lungo ramo caduto

per farlo cadere da dove si era posato.

Prova, salta e riprova

Niente da fare, il ramo raccolto

fin lassù non arrivava.

Fra l’ilarità della gente,si offrirono due volontari

Che, uno su l’altro, con colpo secco

lo liberarono dalla presa di quei rami secolari.

Fra gli applausi di tutti i presenti

l’omino raccolse il cappello

e dopo i  ringraziamenti dovuti

con un largo inchino mostrò la piazza

senza più segreti taciuti.

Piazze lontane e vicine di Tina

LA PIAZZA – di Tina Conti

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In una piazza si legge il mondo del luogo, il suo cuore, il ricordo vivido di una esperienza di viaggio è spesso legato a cosa ho percepito  incontrando gente e  tradizioni  proprio in questo spazio: scelgo spesso un locale per consumare un caffè o un piatto tipico proprio in un ambiente che guarda la piazza.

Questo luogo si trasforma a seconda del tempo e delle ore.

La piazza della festa accoglie anche gente che viene da fuori territorio.

Arrivano bancarelle, merci  attraenti, prodotti della campagna.

In città piccole , dopo pochi giorni di frequentazione, si riconoscono i vari personaggi; passi frettolosi al mattino presto per raggiungere il lavoro e la scuola, saluti da lontano con fare assonnato, ragazzi che addentano un pezzo di focaccia prima della scuola, spinte, rincorse per raggiungere il gruppetto  preferito e fare qualche scherzo.

 Segue poi una calma ordinata, si formano crocchi di uomini di età diverse, che si spostano  a seconda dell’ora.  Queste postazioni sono ricorrenti, vicino al giornalaio per commentare i fatti del mondo, al bar per la seconda colazione, sulle panchine davanti alla chiesa, al circolo  per una partita a carte.

Sono arrivata al tramonto  a  Samarcanda, la sua grande piazza ci ha lasciato  senza parole, i colori delle decorazioni  degli edifici fatti con tutti i toni di blu e celeste, si intrecciavano  con  i raggi dorati  delle ultime  luci solari, le forme inconsuete, maestose per noi dell’architettura e il silenzio della  notte che  si avvicinava  lentamente facevano vibrare i nostri cuori.

Non riuscivamo a staccarci da quelle sensazioni anche se eravamo stanchi per il viaggio.

Al mattino, tutto si è trasformato, la presenza delle persone  e delle attività quotidiane, il calore, la luce ha rivelato un teatro incantato, abiti  colorati, voci, folate di vento caldo e suoni  del mercato all’aperto.

Le siepi di  basilico alte e profumate  ci inondavano  di profumo al semplice accostare di una mano.

Una sensazione di frescura ci sorprendeva al passaggio sotto gli alberi del  viale e del parco, ci sentivamo  avvolti dalle le consuetudini  dai ritmi e suoni. Del paesaggio la  piazza del mio paese offre le stesse opportunità io adoro  passarci  lentamente a piedi  o in bicicletta, osservare, sedermi con le amiche e anche da sola.

La sua struttura intelligente e armoniosa aiuta la vita delle persone.

Seduti  su una panchina oppure al bar, si condivide la vita, si incontrano persone, si fanno nuove conoscenze..

E ‘ per me  è un modo per regalarmi del tempo mio, rilassato, disponibile, appagante.

 Spesso,nel giro di trenta, quaranta minuti, ci si racconta la famiglia, la salute e i progetti, si stacca dagli impegni e dal quotidiano.

I tavoli al sole in inverno sono i più ambiti; in estate il mattino presto l’ombra della   piazza e la rugiada della notte  comunicano piacere e  fiducia.

E il tempo più gradito della giornata all’aperto.

A volte con la borsa della spesa vicino o un nipotino che ci  trasciniamo dietro  perché ha un orario posticipato a scuola, cerchiamo di non mancare all’appuntamento.

 Utile   per non perdere questo tempo prezioso e  per mantenere le  amicizie  che riempiono la vita.

Scacchi d’autunno di Gabriella

Gli scacchi, gioco d’autunno – di Gabriella Crisafulli

dedicato a Lucia Bettoni

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Oggi sul viale dei Colli guardavo le foglie che incominciano a ingiallire e sentivo sussurrare gli alberi che dicevano: “Bentornato autunno. Ti abbiamo aspettato tanto!”

Anche io attendo da molto tempo che arrivi un autunno da vivere con le persone intorno a me, tra le foglie che ci frusciano vicino.

È un bisogno di amicizia che risale alla notte dei tempi ma adesso si è accentuato.

Mi domando: quali sono le mosse per incominciare?

Alla mia età, poi?

Non so come si fa.

Mi sento intimidita.

Così il mio presente in mezzo agli altri è fatto di azioni prudenti, attente, agite in maniera camaleontica.

Mi difendo.

Oggi il mio pezzettino di vita è quello di una donna anziana che non si riconosce quando passa davanti allo specchio.

Sono molto cambiata nel tempo e non solo fisicamente.

Le mie pene sono state dure da sopportare, difficili da digerire.

Mi sono sentita tradita dagli affetti che erano il pernio della mia esistenza.

Non mi sono ripiegata su di essi.

Ma ho dovuto morire per rinascere.

Di questo processo ho fatto uno studio, una ricerca del perché e del come.

Questo è il bello della mia vita.

Mi sento fortunata.

A prescindere da tutti i dispiaceri, continuo ad amare l’amore e a sognare.

E gli ideali, bhe quelli, non li posso abbandonare.

Mi ero fatta un film sulla mia esistenza di oggi ma è completamente diverso da come me l’ero immaginato.

Le pedine sulla scacchiera sono quasi tutte cadute.

Sto procedendo ad un paziente restauro dei pezzi.

La regina è malconcia. Il suo ruolo non è riconosciuto e viene messa da parte perché faccia meno danni possibile. Eppure si è data molto da fare, anche troppo.

Ha fatto grandi sacrifici e continua a farli.

Ma adesso si è ritagliata un buen retiro; se ne sta nel suo castello solitario e, dopo aver patito tanto la perdita del re, usa l’isolamento forzato come una possibilità per prendersi cura di sé.

Le figlie, i nipoti, procedono sulla loro strada, spesso distanti.

Non li rincorre.

Loro sanno dove trovarla e all’occorrenza conoscono a chi rivolgersi.

Il cavallo si è azzoppato. Lavora un sacco poverino per recuperare uno stato fisico che garantisca un minimo di benessere. È un impegnativo percorso in salita che sta dando i suoi risultati ma c’è l’età che contrasta gli effetti positivi.

L’alfiere porta la sua bandiera senza fare troppa pubblicità.

Non ha voglia di nemici.

Ne ha incontrati svariati ed è uscito malconcio.

Procedo come un pedone che prova fare una strada insieme ad altri, passo dopo passo, scoperta dopo scoperta, tra una curiosità e un’altra, tra un approfondimento e un altro.

Il progetto è l’oggi, il qui ed ora.

Ma mi manca l’empatia, l’abbraccio, il contatto.

Da dove rifarmi?

Tante piazze per Daniele

La piazza – di Daniele Violi

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Da piccolo la piazza era lo spazio nostro, poco interessante per gli adulti. Giocare a pallone senza orari e regole, solo quelle che si ricordavano dalle telecronache di partite che ci incollavano alla scatola di legno con un vetro davanti, lasciato per vederci dentro, figure poi mitiche che in bianco e nero, incantavano le nostre curiosità. Ho frequentato poi tante piazze. Nella mia città, in tante altre città, piazze arredate di alberi, di siepi, di panchine, di edicole, di fontane. Piazze che alle 2 di pomeriggio brulicavano di giovani con le bandiere, alle 2 e 30 piazze colme, gremite di umanità. Piazze rumorose, parlanti e canzoni e cori che dialogavano e riempivano di gioia e speranza, ci e mi rafforzavano la vista del nostro orizzonte. Le piazze dove tutte e tutti entravano per riempirle della propria soggettività che voleva costruire la vita e la felicità. Ho voluto frequentare sempre le piazze. Ho voluto conoscere sempre i luoghi le città e i paesini dalle loro piazze.

Ho cercato nel mio peregrinare e con le mie scelte di raggiungere sempre luoghi dove ho potuto poi immaginare di realizzare spazi di dimensioni plateali, con le persone e con le visioni legate alle scelte che potevo condividere e propagare. Le piazze che sono state propellente delle e dei giovani che hanno ripreso le scelte di vita dei loro antenati, creando comunità per condividere una vita con l’ambiente e la natura ricordando e riprendendo tutte le conoscenze che la storia dell’uomo e della donna hanno realizzato.

Da anni vivo in un borgo e ho trovato finalmente la nuova piazza da vivere.