La ballata di babbo – di Luciano Giannelli

Sono cresciuto fra i racconti di mio padre, del militare e della prigionia in Germania, ripetuti tante volte, senza contraddizioni; della tremenda mutilazione. Credevo che tutti i babbi avessero una gamba sola. C’era sempre l’apparecchio, per non dire la protesi che era troppo, cioè una snodata gamba di legno pesante, con le cinghie, che facevano alla Lizza a Siena, dove babbo era sempre accolto festosamente. Sono di quella generazione che per fortuna non ha visto la guerra ma se la porta dentro, che si ricorda le macerie, i cartelli che invitavano a stare attenti agli ordigni, i racconti degli adulti, il s’era sfollati a. C’erano i racconti sulla Grecia, la rievocazione del vino con la resina, il freddo e la fame di una Berlino che immaginavo sempre grigissima. Quando, pensionato, mi chiese imbarazzato se lo aiutavo a scrivere le sue memorie di queste cose, declinai. Mi spiace averlo fatto.
In quanto segue, filtrerò dai miei ricordi quanto narrava babbo. Risarcimento tardivo.
*
«Sarebbe il caso che portasse un bastone», disse lo specialista. Io col bastone? Da ridere. O forse no. E mi venne in mente il bastone, quello che avevo salvato dalla furia distruttrice di mia madre alla morte di babbo, indirizzata a tutto ciò che ricordava la sua mutilazione. Che poi alla morte di lei m’ero portato in casa e giaceva negligentemente tra due piccole librerie. Quel bastone, che secondo me – sbagliavo – mio padre non aveva mai sostituito, che non ce l’aveva nessuno, ed era la passione di me bambino. Un bastone con la sua storia, ricavato – dice Mauro che se ne intende – dal un bel ramo di ciliegio. Dagli americani.

Wiesbaden, 1945. Un bel gruppo di mutilati italiani, raccattati a Berlino, finalmente ben curati, rimpinzati, viene rimpatriato in aereo. C’è babbo, finirà a Merano, strana Italia, dove starà anche bene. Riesce a fare anche la fotografia dell’ala dell’aereo che li porta non so dove, magari a Milano. Ma all’imbarco, a babbo viene consegnato il bastone, che pare una mazza da golf, ha il pomello particolare, il bastone. E ora io ci viaggio, alternandolo con quello che fu di mia suocera, ma non era, era di suo suocero, nonno Gino, anche lui con una gamba mozzata, sulla Bainsizza. Questi bastoni puzzano di guerra. Questi bastoni hanno aiutato a resistere. Ora sostengono me.
Il Canovai era di Prato e/o Vaiano, ma aveva una bella sede a Colle, riusando una vecchia cartiera lì dove si disse Pian di Canale, del tempo del monopolio cartario granducale; faceva le maglie, le mandava a Johannesburg, fino alla guerra. Poi il direttore era dovuto andar via perché era ebreo. Da quando era tornato da Milano, che zia Armida e zio Ernesto non ce la facevano a reggerlo, Giorgio – er mi’ babbo – lavorava lì. C’era Brunina, che aveva incarichi di una qualche responsabilità in magazzino. Si piacevano. Erano fidanzati. Ma c’era la guerra.
1941! Vent’anni! Scarsi, in verità. Si parte, per la Patria. L’orgoglio della divisa, quella dell’aviazione: autiere, ma poi mitragliere, poi motorista, si vola! Si va al mare a Pescara, c’è Chieti, ci si ammala anche. Buona occasione perché Brunina, con la bella sorella di Giorgio, si faccia un viaggione in treno, si provi la bustina da aviere…. Che poi si fanno le gelide notti di guardia a San Severo, in Puglia, a Grottaglie. E la sentinella tremante non è più tanto salda nel suo orgoglio di combattente italiano per ora in retrovia. Va bene la spiaggia di Pescara, il pattino, Di Puccio che dice volgarità pisane, quello che in camerata parla nel sonno e dice «Tre per otto un franco e venti, a San Miniato ‘on la ciu’a ‘n ci vo» (ma siamo tutti toscani?), ma nei paesi che si traversano, in Abruzzo, in Puglia, quanta miseria …. È questa l’Italia del Fascio? E l’arroganza degli ufficiali? «Io sono il principe Torlonia!!», e allora?
Ero orgoglioso, mamma mi portava per mano e io avevo un panierino minuscolo dove entrava preciso … un arancio. Lo portavo ar mi’ babbo, quasi tutte le mattine. Arrivavo alla bocca nera dell’inferno ed entravo senza far caso al caldo orrendo. Trovavo babbo seduto, magro, pareva normale in quella posizione. Maneggiava una canna, era leva pareson, non so che sia. Intorno il frastuono, il fuoco, ragazzi sudati che correvano, bestemmie, vetro che si enfiava, qualcuno mi passava un vasettino vitreo estemporaneo, passato nell’acqua, «Attento, ti bruci». E che corse dei ragazzi al forno che pareva una belva sputafuoco!
Qualcuno lo aveva messo lì babbo, da anni. Collocamento per mutilati e invalidi di guerra. Anni all’inferno, poi sentii allibito un attempato avvocato che diceva «Siamo alle porte coi sassi», non capii, si parlava di Campiglia d’Orcia, poi si sentì «No, a Colle! A Colle!”. Zio Ottavio, dall’alto di se stesso e del suo appartamento in cima a un casone di mattoni di via del Porrione a Siena e su e giù nei trenini – le littorine – che si agitavano tra Siena e Chiusi, aveva convinto babbo a studiare, studiare, prendere un pezzo di carta …. Ora c’era un posto da impiegato comunale. A Colle.
E babbo col suo bastone americano di Wiesbaden arrancava per quel segmento già della Strada Regia Livornese che i colligiani chiamavano ll’Ormi (solo le signore gli Olmi), una bella salita che aveva sostituito il viottolo detto dietro la signor’Anna con questa bella cancellazione vocalica arcaica. Opera di Ximenes per conto di Pietro Leopoldo. Dura durissima salita, alternativa alla peggiore Costa che dalla scomparsa Porta Fiorentina portava alla testè distrutta Porta al Canto (e sostituita da Palazzo Masson, con tanto di lapide laudativa), percorso che chiedeva e chiede ai più una sosta a mezzo. Dalle case che si perdevano per la Maremmana Nuova (si stava dal fattore Lombardini, che s’era fatto una bella casa dove Colle si disfaceva verso Gracciano dell’Elsa, dopo ll’orti der Pampaloni sede delle mie scorribande) babbo arrivava dentro le mura a Porta Guelfa (e’ Hattro Hantoni) e poi saliva saliva trascinandosi dietro la sua gamba di legno che a Bologna l’amputazione l’avevan portata quasi al fianco, senza sconfiggere l’osteomelosi che avrebbe afflitto babbo tutta la vita (mi dole la gamba). Saliva saliva, finché con nonno Giangio si cominciò a spingere carretti carichi di modeste masserizie per la Strada Nova, tutti i giorni, lui spingeva, io accompagnavo, e il finale si fece gioiosamente in camio: s’aveva una casa (?) in via di Speretolo, nascosti dietro i Villini dei signori di Colle, ora c’è un garage, eravamo felici. Babbo camminava sempre appoggiato a quel bastone, ma ora tutto in piano, a’ Frati, ar Torrione, passata la ‘asa di Rosa, poi giù giù scesa lieve fino in Santa Caterina, via del Campana, già del Gioco Reale, la strada nobiliare (i signori di Borgo!!). Era il massimo, lui proletario delle case di fortuna di Castello (di corsa giù per la Costa anche col ghiaccio nella luce incerta dell’alba per entrare dal Canovai) poi ospite del suocero e della cognata in via Maremmana, ora in Borgo anche lui, anche se in un annesso che bisognava esser come eravamo negli anni ’50 per chiamarlo casa. Casa mia, casa nostra, bastava pagare l’affitto al Logi tutti i mesi alla scadenza. E si faceva.
23 aprile 1945, San Giorgio ammazzadraghi. L’onomastico di Giorgio, non che non ci tenesse, Giorgio aveva esattamente ventitré anni, cinque mesi e dodici giorni. Io alla sua età scrivevo la tesi e guardavo perplesso e spaventato la pancia della mi’ moglie che era cresciuta a dismisura e – mi pareva – pericolosamente. Ero un signorino, sposato felicemente. La guerra infuriava in Vietnam, ma non in Europa.
Il giorno di San Giorgio del 1945, invece, a Berlino infuriava la battaglia. I russi erano lì, cannonate continue. Ma il gruppo d’italiani era felice. S’erano messi in cerchio intorno ad un fuoco dove arrostiva un ben di Dio di bucce di patata. Un sibilo atroce. Un’esplosione proprio dove arrostivano le bucce. Parecchi riversi, morti. Giorgio sentì un dolore terribile alla gamba sinistra. Sotto il ginocchio.
Diversi fuochi squarciavano le tenebre, sulla strada subito fuori Pistoia. Quintilio stava vicino a Bruna, s’era preso questo impegno, aveva i parenti a Bologna, lontani cugini ma rihonosciuti. Quelli del camion facevano cena e si passavano il fiasco del vino. Domani avrebbero passato l’Abetone. Bruna era tranquilla, si sentiva ben protetta da Quintilio. Non c’era altro modo di passare l’Appennino, e lei doveva pur andare, giungere da Giorgio, arrivato da Merano. Le aveva scritto, le aveva detto che la riteneva libera, che non poteva chiedere che vivesse con un mutilato. Ma lei gli aveva detto che non le importava, che sarebbe stata sua moglie. Era tutto predisposto, sarebbero stati in casa di lei con suo padre e sua sorella. Finché non trovavano qualcosa, poi si sarebbero visto tutto, lavoro, tutto. Ora voleva andare a trovarlo, vederlo, rassicurarlo, abbracciarlo. Lui le diceva che era stato tranquillo a Merano, assistito amorosamente da una infermiera sposata a un ingegnere veneto, ma lei era slovena. Quella che mi avrebbe detto di non dire no a Tirol se mi offrivano qualcosa, ma io ero troppo toscano ed offesi la bella signora vestita con il vestito tirolese, rifiutando (la prima delle previste rituali tre volte) come dovuto. Quella che il marito Correr mi portava a cogliere i lamponi in tenuta da montagna. Quella che rideva quando la antipatica figlia della donna tedesca dove ci aveva sistemato e che teneva sempre le cassette di mele sotto il letto, mi diceva pampino, mancia!
Ma ora Bruna aspettava l’alba per passare l’Abetone. Era tutto sistemato. Giorgio, lo sapeva, non amava la parentela contadina di Bruna, che non era quella paterna, quasi smarrita, famiglione venuto a San Lazzaro da Malacoda di Castelfiorentino per sfuggire agli allagamenti continui dell’Elsa. «Se’ nata ar Paradiso» le diceva Giorgio per prenderla in giro, ed infatti al podere Paradiso stava Giangio con la moglie Sunta, che – di San Donato a Quartaia – non era mai stata a Colle prima di sposarsi, e con ben tre figliole, che alla terza, che era proprio Bruna, si sentì dire dal padrone che doveva esser disdettato, non c’eran braccia per lavorare il podere. E Giangio tornò di casa al piazzale del mercato delle bestie, che diventava il campo sportivo della Colligiana che si fondava nel 1922, e faceva lo zappaterra ora qua ora là e così campava, le bambette sarebban ite a lavorà in frabbica, salvo la prima che s’era sposata in campagna.
E Giorgio non amava questo ambiente, si irritava anche con la cognata operaia, che si sposò, andò col marito vetraio a San Giovanni e tornò subito vedova.
Ma non seppe dir di no a Bruna a Bologna, in fondo era quello che sperava, che lo tenesse con sé, staccandolo un po’ anche dal babbo e dalla sorella, la sua mamma non c’era più.
Bruna sentiva il freddo del mattino mentre i fuochi a Capostrada si spengevano e si profilava l’Appennino. Andava a Bologna, finalmente, tanto c’era Quintilio.
Quello che parlava era russo, lo sapeva. Il soldato gli alzò il braccio, controllava se era una SS o che, poi lo lasciò stare. Il dolore alla gamba era lancinante. I russi entravano e uscivano, c’era grande confusione. Il dottore aveva fatto a meno dell’anestetico, era finito. Le urla si confondevano al sibilo delle bombe ed agli schianti. Il caos. Il dolore. La paura. E questi non erano russi, non erano tedeschi. Forse parlavano inglese. Lo vide, c’era scritto US Army sulle mostrine, erano americani. Lo portarono via. Il dolore alla gamba non era sopportabile.
Gli americani avevan di tutto. Ciambelline, buonissime, dolci. Giorgio rischiò molto con l’indigestione che prese.
A Merano stava teoricamente bene. C’era la Còrrer, era definita così, perché il marito si chiamava Correr, e lei era nota col cognome del marito italiano. Erano una compagnia di giovanotti molto impegnati, e poco affabili, c’era da imparare ad usar le stampelle, provare a camminare, ma il tempo per pensare la vita che ti aspettava, c’era. E l’umor nero poteva dilagare. I moncherini andavan controllati, le cose a Giorgio non andavan bene, bisognava amputare ancora, sempre più in alto. E bisognava andare in una clinica più adatta di quella di Merano. A Bologna. Ma c’era tempo per pensare, intanto, per ricordare. Difficile era progettare.
«Spezzeremo le reni alla Grecia» aveva detto Quello. E con qualche aiutino tedesco gli italiani si erano insediati in Grecia. C’era già il mito италянскнњ хорошо, ‘italiani brava gente’, quindi messo insieme questo al fantastico una razza una fazza viene fuori che a dispetto dei massacri che nel nord della Grecia le truppe italianed’occupazione si permisero, mentre i tedeschi portavano via gli italiani da Megara, i megaresi piangevano, non si sa se pensando alla sorte di questi ragazzi italiani del campo d’aviazione che tutto sommato eran dei compagnoni o pensando a se stessi soli coi tedeschi. Ma piangevano.
Estate 1943: trionfo della Grecia, col suo caldo, le vesti vaporose delle ragazze, il σουβλάκι. E ormai si volava, Giorgio era motorista, altro che autiere! L’incanto delle isole nel mare blu, i pini, la musica. Giorgio frequentava una famiglia, gli portava qualcosa, faceva cena, si dilettava di approssimazioni ad una conversazione. Per sempre quelle poche settimane a Megara lo avrebbero segnato, anche se non tornò più in Grecia.
La guerra in realtà era lontana, quel soggiorno greco quasi quasi somigliava a una vacanza, qualche parolina imparata, far gusto ed abitudine alla ρετσίνα.
Una notte, però, mentre mandava il camion pesantuccio con sopra anche delle camicie nere, fu intercettato e fermato dai partigiani dell’Elas. Un’accurata perquisizione alla luce delle torce. Le camicie nere le trattennero, la truppa con Giorgio e il camion furon rilasciati. E dall’alba la vacanza ricominciò, con tanto di monte ore crescente di volo sugli arcipelaghi e sfoggio di sahariane leggerissime, indubbiamente eleganti.
Si parte! L’ha detto il comandante. Sugli aerei, si torna in Italia. Caos. Armistizio. Badoglio, Mussolini addio. Che si fa? Ordini? Assenti. Siamo qui, a che fare? Via, si torna e si vedrà. Siamo sulla pista, allineati, tutto sommato c’è euforia.
In fondo alla pista, piatti, grigi, ovviamente ben allineati, appaiono i panzer. Questi? Carrarmati e aerei si fermano, il comandante scende, parlamenta.
Scendere, si va coi camerati. Gli aerei li pigliano loro, noi negli alloggiamenti. Comandano loro.
Ora il treno. Pigiati nei carri bestiame, fitti, con il monotono battito delle ruote sui binari. Troppa gente, c’è puzzo, si mangia in piedi, quel poco che ti rifilano, sbobbe. Dove ci portano? Non si sa. Si pensa di essere prigionieri, che altro? Che si poteva fare? I megaresi erano tristi a vederci partire, probabilmente si aspettavano tempi peggiori. Ma noi tu tun tu tun e tu tun tu tun. Casa? Giorgio c’era stato l’ultima volta appena per veder morire sua madre, malata da tempo. Aveva visto Bruna appena di sfuggita. E ora?
La maggior parte dell’umanità che affollava il carro bestiame del lunghissimo treno per chissà dove era ben giovane. Così che riusciva anche a gustarsi qualcosa in quella situazione disperante. Per esempio le incredibili rose della vallata di Plovdiv, era difficile pensare alla guerra in quella specie di paradiso. Comunque la nota di fondo era naturalmente l’inquietudine. Non si sa come, cominciò a circolare la notizia che soldati italiani in Jugoslavia, a reggimenti o più, invece di mettersi nelle mani dei tedeschi si univano ai partigiani, quelli di Tito. Il treno penetrò in effetti in Jugoslavia e l’inquietudine crebbe. Il treno si fermò stridendo accanto a un bosco, che saliva su una collina, fitto. Corse l’incontrollabile voce che si era non lontano da Belgrado. La sosta era per un piccolo ristoro, per minimamente rinfrancarsi, bisogni inclusi. La vigilanza era occhiuta ma non infallibile. Giorgio riuscì ad entrare nel bosco, ad avanzare molto faticosamente, per la salita e per i vari inciampi. Stava fuggendo, si rendeva conto, col cuore in gola. E i partigiani eran proprio lì? Lo vedevano? Quando e se li trovava, che diceva? La lingua? E se magari facevano il tiro al piccione? Si stava domandando anche se aveva voglia di combattere, cosa che del resto non aveva mai fatto. Ma soprattutto, dove erano questi partigiani? Se non c’era nessuno, che faceva, dove andava? Come italiano, come sarebbe stato accolto? Avvertiva il rischio e l’inutilità di quell’avventura, e in sostanza lo attanagliava la paura, lo tormentava una serie di paure. D’istinto, cominciò a tornare indietro, con la fortuna di ritrovare la strada, eluse la sorveglianza, tornò sul treno.
Il convoglio andava e andava, entrò in Ungheria. Fecero caso che dalle finestre la gente mostrava loro i pugni, sputava, urlava frasi ovviamente incomprensibili ma in cui si sentiva ben chiaro l’odio. Stavano maledicendo i traditori. Si prende anche questa, anzi, francamente, ma chi se ne frega! Stian loro con i loro amici tedeschi. Il treno si ferma in una stazione, non c’è gente. C’è scritto Kossa. Qualcuno fa circolare la notizia che quel nome si legge più o meno coscia, ci si spancia dalle risate mentre circolano brutti pensieri che la parola evoca. C’è ancora capacità di ridere. Si riparte, scossone e via, tu tun tu tun.
Dicono che ormai il treno è in Russia. Bel viaggio. Si son sentiti anche cambiare i treni delle ruote, dicono che c’è uno scartamento diverso. Che ci si farà in Russia? Ma poi si sente ancora l’intervento sulle ruote, si riparte, dice che si va a Berlino, ce n’è di strada, ma magari finirà questo viaggio puzzolente. Si è passati di qua e di là, qualche volta in altura si son visti parecchi treni nei baratri. Ora siamo in pianura, si va veloci, a un certo punto compaiono scritte solo in tedesco, con quella buffa scrittura che si legge con qualche fatica. Ci buttan giù alla fine – rudemente – dal vagone, Tempelhof.
Ho fatto in tempo a passare un paio di volte per quell’aeroporto, per Monaco e poi Pisa; tutto bello, il nome mi dava i brividi.
Ora le baracche, i letti a castello, il fittucchiaio. Si mangia poco e malissimo. S’incomincerebbe anche a sentire freddo. Tutti lì, filo spinato, tante baracche, gente di tutte le razze. Dicono che più in là c’è un campo di ebrei, si vedono passare ogni tanto. I giorni sono tutti uguali, anche per il lavoro, perché ci fanno lavorare. Eppure siamo prigionieri di guerra, ci assiste la Croce Rossa, arrivano anche pacchi da casa. Naturalmente ci si domanda angosciati quanto durerà. I tedeschi trattano duramente, diciamo rudemente, ma non disumanamente. S’è visto qualche massaia che ci ha portato qualcosa, miserie, non se la passano bene neanche loro. Il brutto è quando suonano le sirene, perché qui bombardano, e come! Ci fai il callo? No di certo, anzi ogni volta è peggio. E poi ci hanno portato a scavare nelle macerie. Tiri fuori anche pezzi di corpi, braccia, gambe, è terribile. Macerie tante, strade intere di macerie, bombe tante, fischiano, esplodono. La guerra Giorgio ora ce l’ha tutta addosso. E poi c’è il lavoro, duro, lungo pesante. In una fabbrica, si costruiscono pezzi per i carri armati, copricingoli e diavolerie del genere. Si lavora zitti, cupi. Si esce la mattina presto, è sempre più freddo, poi si entra e si esce che è già notte. Per compagnia la fame, si perdono chili. Poi ci sono le partite a carte, con giocatori violenti. C’è un francese che quando si siede a giocare infila un coltello nel tavolo per la lama. Come fa a averlo e tenerlo? Mistero.
La bella distrazione è quando arrivano soldati italiani, anche ufficiali. Si vengono a sapere molte cose.
L’Italia è divisa in due, e ciò non commuove molti. Il Re se ne sta al Sud, con americani e inglesi, invece poi c’è una cosa che si chiama Repubblica Sociale Italiana e c’è Mussolini. Si è prigioneri di guerra del regio esercito, anche se Giorgio è aviere. Gli ufficiali italiani, repubblicani, insomma fascisti, invitano ad una opzione. Chi si considera regio resta prigioniero e seguita a fare la stessa vita. Chi vuole aderire alla Repubblica verrà rimpatriato e combatterà con l’alleato tedesco. Quindi niente casa, chissà dove e a fare la guerra che ha già stufato da tanto, insieme a questi gentilissimi tedeschi. Giorgio non ci pensa nemmeno, coi fascisti non ci va. Quasi nessuno ci va, e gli ufficiali italiani neanche insistono, questi uomini servono alla macchina industriale della Germania, va bene così. Arbeiten. Seguitano i giorni i tutti uguali nel loro altalenare tra l’orrore delle macerie, il terrore delle sirene e degli scoppi, la depressione, fame, e ogni mattina fa più freddo, poi ci sono anche le liti con gli stranieri prigionieri e fra italiani. Coi russi ci si scambia le sigarette. S’è imparato спассива, хорошо, parole tedesche. Filo spinato. Passaggio di ebrei.
Ora era davanti alla commissione. C’era anche, con la faccia terribile, un ufficiale giapponese. L’accusa: sabotaggio, il rischio, la morte. Giorgio non aveva sabotato un bel nulla, non ci si azzardava, né ci si azzardavano altri nella fabbrica. Ma qualcuno si era insospettito e lo aveva accusato. Con lui c’era l’ingegnere capo, un brav’uomo, tranquillo, che conosceva bene Giorgio e gli voleva bene. Anziano. Fece un lungo sproloquio e alla fine Giorgio lo mandarono via, scagionato. Poteva tornare al tran tran delle bombe, delle macchine, delle spedizioni fra le macerie e ai discorsetti in lingua franca con Polina, alle peggiori caffetterie di Berlino, alle camminate stanche nella città, ai rientri dietro il filo spinato, alle partite interminabili con le carte bisunte.
Dopo il freddo e la neve, anche a Berlino-Tempelhof arriva la primavera, poi trionfa l’estate, Pare un sogno… I vestiti ora sono praticamente adatti. I bombardamenti sono più frequenti.
Un giorno si fa adunata, come sempre, ma c’è agitazione fra gli ufficiali tedeschi – e qualcuno italiano repubblichino – del campo. C’è un annuncio importante. Non si è più krieg gefangen, prigioniero di guerra, ma internato! Si seguiterà a lavorare, a (non) mangiare, a tremare, ma se si trova tempo si esce anche dal lager, si va in centro, si guardano le ragazze, si prende un caffè. Poi si vedrà che non arrivano più i pacchi da casa, non arrivano più neanche le cartoline postali. A Colle Bruna comincia a porsi dei problemi, non si sa più nulla. Non avrebbe comunque saputo (lo seppe dopo) che Giorgio era sempre più amico di una operaia russa, una certa Polina. E intanto il freddo si era fatto un grosso problema, accompagnato dalla fame, ora dalla ricerca nei rifiuti, fino alle ghiotte scorte delle migliori delizie, le bucce di patata. Qualcuna qualcosa ti allungava, ma era più simbolico che altro. Fatica e fame, freddo e passeggiate in centro, o altrove, che funzionava bene la metropolitana. Un giorno Giorgio arrivò con i compagni a Potsdam, meravigliato da una città tanto bella. Sembrava vi regnasse la pace.
Ma poi torna l’autunno, l’inverno, ormai siamo trasparenti, si sopravvive non si sa come alla fame, al freddo, alla fatica. Bisogna stringere i denti. S’aspetta che l’inverno finisca.
Ed è finito, e c’è qualche novità. Lontano si sente un brontolio. Dice che sono i russi. Si son presi la Polonia, e sono in Germania. Puntano su Berlino. Forse finisce la guerra. Forse questi tedeschi l’hanno proprio persa. Ora fanno un po’ tenerezza, quasi, nelle caffetterie, quei pochi italiani che trovi in divisa. Questi non hanno optato per la Repubblica di Mussolini, hanno fatto altro. Si sono arruolati nelle SS. Le loro divise son quelle delle SS. Hanno un’aria stanca, malinconica. Non ce la facevano più, dal lager dovevano pure uscire…. Due parole in italiano gli facevano piacere. Giorgio ebbe modo di scoprire, nel dormiveglia in ospedale, che i russi le SS le facevano fuori appena visto il tatuaggio.
Fa quasi caldo, ma il brontolio è diventato altro. Scoppi botte, crolli. I russi avanzano, assediano Berlino. C’è fiducia, finirà, sarà dura ma finirà. Giorgio è contento perché è il suo onomastico, tutto fa brodo, qua, e in verità ci tiene anche. Poi i ragazzi hanno saccheggiato una discarica e sono pieni di bucce di patata, fresche. Si fa un festino, vai! Tutti intorno al fuoco, che le bucce si arrostiscono. Verranno a liberarci, intanto si mangia. Un sibilo lacerante…..
23 aprile 1945, San Giorgio.
Guardavo babbo in canottiera e sotto il lenzuolo dalla vita, che leggeva il giornale. Sbotta: «Vai! Hanno riarmato la Germania! Tra cinque anni scoppia un’altra guerra!» Quattro anni abbondanti dopo per mano a mamma le dissi: «Mamma, un altr’anno scoppia la guerra». Mamma si ferma: «Ma che dici?» «L’ha detto babbo…» «Ma quando?» «Sono quasi cinque anni. Dice che c’è la Germania che fa un’altra guerra». Mamma si mise a ridere, mi rassicurò, me ne stetti.
Io ero certo che a vent’anni sarei stato soldato, e avrei fatto la guerra. Come i miei nonni, il cavalleggero e l’anziano fante, tutti e due poi Cavalieri di Vittorio Veneto, il primo loquace sulle facezie che aveva sparso e ricevuto mai al fronte, neanche durante la rotta di Caporetto, il secondo silente, e poi babbo coi suoi racconti iterati. Poi invece capii quello di cui babbo era convinto: mai più guerre, mai più bombe, mai più fascismi, progresso. Magari, socialismo.
Scrosciavano gli applausi. Di più: la platea si agitava. Giorgio aveva appena finito di cantare sia Volare che – in versione italiana – il successo canadese Diana. Entusiasmava i giovani, Tutto terzinato, diceva. Cantava bene, e lì, al Teatro del Popolo, muovendosi a modo suo sul palco, aveva conquistato un’ottima posizione alla gara canora regionale toscana. Poi l’organizzatore gli disse che non aveva comprato (o aveva restituito) la coppa che gli spettava, ma questo è un altro discorso, Non pensava, l’organizzatore, che Giorgino gli avrebbe creato problemi se risparmiava i soldi della coppa… Un nastro magnetico replicava le esibizioni sonore di Giorgio e non solo il sincopato o terzinato, per la gioia della clientela un po’ mesta del Circolo di Santa Caterina, sotto il ferro di cavallo di vecchi olmi, già Parterre. Insomma, la vita andava. Arrivò anche la cena di San Silvestro da Ernesto a Staggia, locale freddo ma selvaggina non male, poi i festoni di Natale in casa di Tita l’ostetrica condotta dirimpettaia (nel primo condominio di Colle, accanto alla fabbrica fracassona delle bullette) coi cori di Firenze sogna, insostenibili almeno per Giorgio che con la musica – come ‘r zu’ babbo anche, suonatore di jenis – ci sapeva fare. Ogni tanto un po’ di dolore al moncherino, o parecchio. Poi, anni dopo, c’eran le sedute mattutine al bar dell’Orso, quello di Colle, sorelle Bianchi, via Mazzini già Vittorio Emanuele II, a veder passare la bella gente, e i primi extracomunitari.
Sul letto di morte trovò il modo di benedire l’Ejercito Zapatista de Liberación Nacional che si era appena impadronito della bella città chiapaneca di San Bartolomé de Las Casas, e di altre quattro.
Spirò poi all’ospedale San Lorenzo, che finalmente sembrava dormisse, giusto quando l’inserviente aveva finito di dare il cencio, il 25 di gennaio del 1994. Aveva 72 anni, 2 mesi e 14 giorni. Io alla sua età ricominciavo a scrivere parecchio.
| Luciano Giannelli |
| Laureato nel 1972 a Firenze con tesi in Dialettologia Italiana su un’analisi geografica e interpretativa della ‘gorgia’ toscana – poi oggetto di diverse pubblicazioni – ha successivamente coperto insegnamenti di Storia della Lingua Italiana (Siena), Fonetica (Calabria), Glottodidattica (Urbino), e ha svolto un corso di Dialettologia Italiana (Helsinki); è stato ricercatore di Linguistica Italiana presso la Facoltà di Magistero di Firenze dal 1984 al 1987. I campi di attività permanente riguardano la linguistica di ambito indigeno americano e la linguistica italiana con particolare riferimento alle varietà toscane e affini. In americanistica conduce e coordina studi di tipo macrosociolinguistico e di descrizione morfosintattica delle lingue indigene, con particolare riferimento ai gruppi maya, irochese, athapaska, quechua e aymara, nahuatl, mapuche, e alla lingua cuna. Un campo di interesse permanente sia in ambito americanistico che italianistico è quello dei problemi della trascrizione e della resa per scrittura dei testi di produzione orale, e della costruzione di sistemi ortografici. In ambito italiano, collaboratore di diverse imprese geolinguistiche. Cofondatore dell’Atlante Lessicale Toscano, coordina inoltre l’Unità Operativa Locale di Siena dell’Atlante Generale dell’Alimentazione Mediterranea. E’ stato per più anni membro della Giunta del Dipartimento di Filologia e Critica della Letteratura. Dal 1989 al 1991 è stato il primo Presidente della Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana. |
Ho riletto il racconto del prof.Giannelli. Sono entrato ogni volta di più nel suo mondo, nella Colle che solo lui ha visto con i suoi occhi di bambino. È il suo ombelico, la sua Macondo, con il babbo che aveva una gamba sola, che si appoggiava a un bastone americano, che lavorava in un luogo che sembrava l’anticamera dell’inferno e sapeva raccontare storie mai dimenticate, che sono lievitate fino a fargli sentire l’urgenza di scriverle per farle diventare anche nostre. Grazie Professore!
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Mi faccio coraggio, ignorando, volutamente, tutti i suoi titoli di studio, mi intimorisono, sono una vecchia ragazza timida…o quasi.
La ringrazio per avermi/ ci dedicato parole e scritti…per aver reso semplice una grande storia, un padre, il suo, Giorgio, come il mio…..due GG che mi ricordano tante cose,
Troppe
i racconti di famiglia, la mia, mi Han stravolta e travolta.
Mi Han fatto credere di essere diversa per poi, grazie a lei, ritrovarmi simile, quasi uguale ad altre persone ad altre storie.
Grazie✏
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Ringrazio sentitamente
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Splendido post.
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