La caramella di menta di Simone nel cestino incantato

Calo glicemico – di Simone Bellini

“Zucchero! Ho bisogno di zucchero! qualcosa di dolce per prevenire il calo glicemico, presto!” (non è vero ma funziona sempre)

 Sul tavolo una caramella verde con il suo involucro di feltro bordeaux…. strano come involucro boh sarà perché è inverno, sarà per proteggere la freschezza del prodotto…boh sarà quel che sarà, non me ne frega nulla, la golosità ha il sopravvento! Con uno scatto fulmineo agguanto la caramella alla menta di cui vado pazzo e me la caccio in bocca

Crunch!!!

Mi parte un dente

 “ahia…… la Murrina  di tu ma’!!!”

La casa degli Gnomi di Daniele nel cestino incantato

Gnomi sotto il vecchio olmo – di Daniele Violi

Un pertugio sotto un vecchio  olmo: entro carponi e mi addentro con tanta sensazione claustrofobica; vedo con piacere che un altro mondo è possibile, un sacco di sagome gnomose  vanno procedendo anche loro verso una grande sala dove le radici di tanti alberi diventano panche per sedersi per assistere a uno spettacolo teatrale di gnomi e gnome intitolato “Gnamo! un altro mondo arriva”. Il titolo….. mi chiedo forse si aspettano la visita mia o sono loro che con le rappresentazioni si organizzano per avere relazioni sociali e prendere contatti attraverso i loro messaggi: una specie di “movimensa” per avere incontri. Al centro una pietra fatta di tante pietre, come le regole di una conduzione, per ricordarsi che siamo tutti dipendenti dal proprio cuore.

I bambini di Lucia nel cestino incantato

Ciao Bambini – di Lucia Bettoni

Ciao bambini
è tanto che non vi penso
non so neppure se vi voglio pensare
non sono pronta a ricordare 
 o a pensare a quello che è stato
Ho capito di essere lenta
adesso ho bisogno di tempo
a volte tanto tempo
La farfalla continua a guardarmi
lucida e con le ali aperte
Mi guarda con occhi di bambino
Non posso non ricordare
i vostri  disegni
Basta poco e quasi piango
Fiumi di colori si sono sciolti
abbiamo impastato, ritagliato,
incollato, ballato e poi il teatro e i burattini
e il giardino e l’orto
Che orto meraviglioso abbiamo fatto
Insieme!
Abbiamo piantato, annaffiato e raccolto
Mi manca il respiro
Mi trema il petto
Quarantatre anni con voi
Prima o poi devo scendere a guardare
Prima o poi questa grande emozione troverà la giusta quiete
Prima o poi non mi farà piangere
Prima o poi vi potrò accogliere
dentro il mio cuore
verde e morbido
e vi dirò ancora:
bambini datemi la mano

La tazza pazza di Gabriella

Tazza pazza – di Gabriella Crisafulli

Photo by Pixabay on Pexels.com

Ogni mattina

tuffo in una tazza

la parte di me più pazza

Una chiazza

s’allarga

sulla piazza

La cosa m’imbarazza

mentre il tempo

s’ammazza

S’alza un sospiro

la bazza trema

cerco una nuova razza

Prendo la ramazza

e mentre sghignazzo

rimpiazzo la ganza

con una ragazza

che si sollazza e danza

mentre sbevazza

La me si sbarazza

di lei che starnazza

chiusa in una corazza

e la rimpiazza

con una nuova stazza

che svolazza e si paparazza

La gioia turchese di Gabriella nel cestino incantato

Pietra turchese delle mie brame- di Gabriella Crisafulli

Sta tutta nel palmo della mano

Liscia, turchese, screziata

fresca spessa smussata

Pesa

La tengo raccolta

e chiusa

Si scalda

Evoca Egitto

affreschi

collane

la gente dei suk 

Pietra sensuale

colorata

è tutta un’allegria

Le venature disegnano

il muso di un gatto

un albero

una gallina

il Nilo che scorre

La metto al collo

Il suo tatto

vellutato

mi fa impazzire

Sono la dea delle sette braccia

Avvolgo le dita nella sciarpa

del nano:

no sono baffi

o forse la barba

il pelo soffice

un cappuccio

un anello

un nodo

la capigliatura di ortiche

Sette anni ho camminato

sette anni ho vagato

sette anni ho colto ortiche

per salvare l’amore mio

Ci sono:

è il velo dell’odalisca

che copre

e rivela

La pietra magica di Tina nel cestino incantato

Pietra magica – di Tina Conti

Colori intrecciati, mescolati armoniosi, forma piatta, liscia, ovaleggiante.

La natura fa cose meravigliose, impossibili da imitare.

Geniale nella sua invenzione, ci fa sognare, riflettere, stimola  la nostra Italia

Ci  incoraggia  a inventare situazioni, ambienti, storie.

Sopra un pavimento sconnesso, luminoso e colorato di toni ambrati e dorati, litigavano  due figure, intorno cantavano e svolazzavano stormi di strani uccelli.

La pietra rotolava e sobbalzava, oscillava come mossa da uno strano potere.

Cataste di legname di varie forme e tonalità  in bilico, si accatastavano formando un grande cumulo. In fondo alla grande catasta, una pietra luccicante a forma di cuore sembrava reggere tutto quel peso da sola, emetteva raggi luminosi e bagliori accecanti, intorno, folate di vento facevano rotolare due foglie gemelle.

Roteavano nell’aria si alzavano e salivano in alto fino a scomparire

Tornavano a terra cercavano la pietra,  spaventate si allontanavano di nuovo.

Nuvole grigie affollavano il cielo, il vento sempre più impetuoso strapazzava ogni cosa, foglie volavano sulle pietre, sui muri, sul lago.

Le foglie gemelle si posarono a terra, ripartite da un tronco caduto, calme, sicure, fiduciose, aspettarono  la pioggia.

Il fiore col ciuccio di Sandra nel cestino incantato

Il ciuccio e l’Omino del sonno – di Sandra Conticini

Il fiore con il ciuccio centrale sfaccettato, che sembra il pistillo,  ha una bellissima luminosità e mi ha fatto ricordare i cristalli di Swaroski. Quando sono illuminati dal sole con tutte le gradazioni dell’azzurro o del giallo-arancio la  fantasia mi fa sognare figure immaginarie, prati con fiori di tutti i colori e mi sembra di sentire il profumo dei giacinti, delle rose, o dei fiori di campo bianchi profumatissimi che la mia mamma chiamava tazzette.

Il ciuccio da solo mi ricorda la mia bambina. Non so chi abbia inventato questo strumento per placare quei piccoli esserini che, fino al  giorno prima erano nella pancia della mamma,  nuotavano tranquillamente cullati dai rumori esterni, senza essere disturbati. Non duravano fatica per mangiare, non dovevano essere tocchicchiati per fare il bagnetto e soprattutto non esistevano i piccoli malesseri quotidiani di adattamento.

All’inizio non volevo abituarla, ma poi la paura di non saperla  calmare me l’ha fatto usare.  La sera, quando era più stanca e nervosa da tutti gli stimoli della giornata, se non c’era il ciuccio che le dava serenità e tranquillità non riusciva a prendere sonno.  Mi ricordo  un giorno che ero in bagno con lei: improvvisamente aprì la bocca e il ciuccio  se ne andò via nel water insieme all’acqua.

Lì per lì rimase un po’ perplessa, poi attaccò a piangere e ci toccò andare a comprare un ciuccio nuovo. La fortuna era che a lei andavano bene tutti.

Poi venne il momento di togliere questo magnifico strumento.

Tutte le sere quando si tornava a casa iniziava a girare per le stanze nella speranza di ritrovare il suo amico, ma l’aveva preso “l’Omino del sonno”.

Solo  all’ora della nanna come per magia il ciuccio riappariva. Era un po’ una caccia al tesoro, poteva trovarlo su una sedia, sul lettino, sul divano o dove era stato lasciato la mattina. Le si illuminavano gli occhi dalla contentezza, lo acchiappava se lo metteva in bocca e si tranquillizzava subito.  

Il cartoccio di Rossella G. nel cestino incantato

La pietra nel cartoccio – di Rossella Gallori

Ero salita sul “ treno” già  stranita, con poca voglia, sarà che  le avevo raccontato un fatto tra il tragico ed il folle,  sepolto da anni, cercando di alleggerirlo, ma la riesumazione era stata pesante, lei ascoltava, senza meravigliarsi, ascoltava senza giudizi.

Con la compassione, che si ha per se stessi da grandigrandi quando si parla di giovanigiovani  infilavo motivazioni per il mio gesto: ero innamorata, sola, poco matura, stanca, ci credevo, la verità è che volevo attirare l’ attenzione di qualcuno, essere importante. Il fatto cadde, dovevo tacere.

Il vagone era semibuio, semivuoto, c’ era la voglia di un caffè che non c’ era,  forse avevo deciso di urlare o di piangere, nella totale immobilità che poi mi contraddistingue.

Poi, poi: arriva un cestino di cencini  e sassi, di pompon morbidi  e balocchini minuscoli, sento che non so scrivere, che non lo saprò rileggere, eppure il vagone si muove, so che il viaggio sarà breve, prendo la rincorsa inciampo nell’ostacolo, acchiappo l’ imbutino bordeaux di feltro e la pietra rettangolare turchese, la sceglierei tutte le volte, mi ricorda il suo colore preferito, che poi è anche il mio, mi ricorda lei, l’ amica che non c’ è più, della quale conservo ( io che perdo tutto) la più bella lettera d’amoreamicizia, che abbia mai ricevuto.

Scrivo, ora che lo scompartimento è pieno, gli ultimi ritardatari han preso posto, scrivo, ma grido:

Tu pietra, io feltro  (giro tra le mani il sasso color mare)

Amo i tuoi angoli, quelli che mi porgi generosa.

Per farmi dire la verità

Per darmi due appoggi

Amo il freddo del tuo colore, estintore delle mie paturnie

Venature scure, come piccole onde di mare, per farmi sorridere.

Allora un po’ perché, non so andare avanti, annuncio più volte: non volevo scrivere questo, fa tutto un po’ schifo, vorrei appallare il foglio gettare il quaderno, ma se mi alzo perdo il posto, forse ci sono viaggiatori in piedi, ma non sono stanchi come me.

Metto la pietra nel ruvido cono e ci riprovo:

Sembri una farfalla di lana cotta, senza ali né occhi,

che incontra uno scoglio turchese, forato ai lati, che imbarca  acqua, mare che entra ed esce, come un ago sottile, che non ha  più voglia di ricamare.

Una voce fuoricampo annuncia la stazione di sempre, scendo con la certezza di non aver scritto quello che volevo dire….

Il giocatore di Nadia nel cestino incantato

Il giocatore – di Nadia Peruzzi

Un fiore di stoffa verde con dentro un bottoncino blu.
Sul tavolo da gioco il tappeto verde era quasi fosforescente per le luci che lo inondavano.
Si vedevano solo mani così bianche da sembrare morte.
Eppure erano indaffarate, si muovevano veloci.
I volti, invece, restavano in ombra, quasi a cercare l’anonimato.
Si intravedevano occhi. Occhi che bucavano il cono d’ombra. Occhi lucidi, vigili e fin troppo attenti.
Eccitati fino quasi al limite dell’ossessione. Occhi malati.
Le fiches si muovevano senza tregua, insieme alle palline che ruotavano sulla roulette.
Vinci, perdi, rouge, noir. I giochi sono fatti.
Rien ne va plus.
Il giocatore che vinceva arraffava in modo quasi parossistico le fiches. Era una partita del vincere o morire, ogni volta.
Ad ogni vincita gli occhi rilucevano come due tizzoni ardenti. Durava poco, però.
Ogni vincita induceva a puntare di nuovo, sempre di più. Il cappio si stringeva di nuovo , a ghermire anima e movimenti.
Nuova puntata, nuova sconfitta.
Stavolta aveva perso tutto quanto. Ci aveva sperato un momento, di aver tutto quello che gli serviva a saldare il suo debito col gestore del locale.
Guardò le fiches che sparivano e il vuoto che aveva davanti a sé e provò prima sgomento, poi paura.
Sapeva ciò che lo aspettava.
Le botte degli scagnozzi del boss, già pronti a portarlo via, oppure arrivare a prosciugare completamente il suo conto staccando un assegno dal valore esagerato.
Il gioco era un tarlo per lui. Una ossessione malata da sempre.
Sua moglie aveva provato a farlo uscire dal giro. Lui non ci aveva mai provato realmente.
Aveva fatto promesse su promesse. Non ne aveva mantenute nemmeno una.
Uscì dal locale sentendosi un verme.
Avrebbe dovuto confessare a sua moglie che aveva dato fondo a tutto quanto avevano accumulato in una vita di gran fatica, sacrifici e rinunce.
Salì in macchina con la testa che gli girava.
Agitato a tal punto che si ritrovò in un luogo che non era nemmeno sulla direzione di casa sua.
Vide delle luci arrivare.  Erano alte , forse un camion.
Al momento che giudicò quello giusto sterzò di botto. Il camion trascinò la sua auto per diversi metri, prima di riuscire a fermarsi.
Il garde rail messo a protezione del lato della curva che costeggiava lo strapiombo, sembrò essere in grado di trattenere la macchina.
Il crack ruppe il silenzio della notte mentre il garde rail si aprì come fosse stato tagliato da un apriscatole.
Il tonfo dell’auto seguì poco dopo.

Tazza e casa di Stefania

La tazza – di Stefania Bonanni

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“Quando sono con te, sogno immerso in una tazza di the”

Quei pomeriggi di inverni freddi, ventosi di tramontana, quando sei contenta di rientrare, e pensi solo: faremo una tazza di the bollente. Magari il the non ti piace neanche tanto, ma cercare la tua tazza, la mia tazza, riempirle di liquido caldo, respirare il vapore che sale verso la lampada sospesa sul tavolo di cucina, e’ casa.

Dove ci sono le tue tazze comprate a Parigi (ero molto felice a Parigi) , quelle dei bambini piccini (ero molto felice allora), le tazze residue di un regalo di nozze (ero molto felice), quella per forza e’ casa.

Cose che non hanno senso se non per te, che porteresti le tazze appese al collo come gioielli, fosse possibile, e che vorresti aver avuto una tazza tua, da piccola, per toccarla ancora, farla suonare col cucchiaino, riconoscerne sbucciature e graffi, che fosse stata testimone di anni luminosi e teneri. Avessi le tazze di allora, cercherei il punto esatto del bordo dove si fossero posate le dolci labbra della mia mamma, e quelle più strette e meno morbide di un uomo giovane e nervoso, a cui piacevo piu’ di ogni altra persona al mondo, ed io ricambiavo. Ma non n le ho, le tazze di allora, quelle della mia famiglia. La vita correva così cattiva e veloce, che non ho fatto in tempo a pensare a quello che avrei saputo mantenere, e che oggi mi avrebbe parlato ancora. Non ho niente di allora, niente. Ricordo giorni sospesi nei quali ho assistito in trance alle azioni di parenti che portavano via tutto. Vestiti, mobili, bicchieri, tazze. Tutto sparito, insieme ai parenti, che non si sono mai piu’ visti, per fortuna.

Il fiocco verde e il sangue di S. Gennaro nel cestino incantato di Stefania

Stoffe e pietre – di Stefania Bonanni

Stoffe e pietre. Io ho scelto una stoffa verde a forma di farfalla, ed una pietra rosso scuro, che mostra frammenti più chiari all’interno.

Sembra il fiocco che aveva retto  i capelli di una bambina bionda, uno di quelli con il pettine appiccicato dietro, dove si sente che e’ stato strappato, e ne ha risentito la stoffa del fiocco.

Ci sarebbe stata bene, nel centro, un’applicazione con la pietra rossa nel mezzo, ma sarebbe stato un utilizzo che non le avrebbe reso giustizia. L’ho riconosciuta, e’ il contenitore del sangue di San Gennaro.

 Toccando e ritoccando, l’interno si liquefa’. La pietra diventa rosso scuro, una specie di cuore di pollo, molto simile ad un cuore di pollo. Il colore e’ più vivace, di quello di un cuore di pollo morto. Direi più vivo, di un cuore di pollo morto.

Se l’interno della pietra non si liquefa’, e non avviene il miracolo, come e’ molto probabile, va bene lo stesso, perché per noi non cambia nulla. Mai avvenuti miracoli. O forse qualcuno si?

Mentre non la vedevamo, negli anni in cui e’ stata sepolta viva tra gli oggetti abbandonati, si sara’ liquefatto l’interno della pietra? Possono essere tante le cose che succedono al riparo dai nostri occhi. E forse accadono proprio perché non le vediamo, quando non controlliamo quello che ci circonda.

Non siamo indispensabili, per i miracoli.

Lo scrigno rosso di Patrizia nel cestino incantato

Lo scrigno rosso – di Patrizia Fusi

Un morbido scrigno di panno rosso bordeaux, un ciondolo di plastica trasparente a forma di ciuccio, tagliato come i diamanti, la luce batte sulle sfaccettature e lo rende vivo e luminoso.

Lo scrigno rosso, girandolo, ha la forma di un tortellino, inserendoci il diamante di plastica, diventa una piccola morbida caverna che contiene l’oggetto prezioso.

Penso al diamante come un pegno d’amore, come il ciuccio mi ricorda l’amore per i bambini.

Il NIDO di stoffa di Rossellina nel cestino incantato

Il nido – di Rossella Bonechi

È sempre il lucido, il brillante, il liscio senza ostacoli che attira; un bel colore caldo, con tutte le sue sfumature, una forma comoda fatta apposta per acquattarsi in un nido.     

E guarda caso il nido ha la stessa gradazione di colore, forse per mimetizzarsi meglio dentro? Al sicuro?  Il nido non è che un rettangolo di stoffa girato su se stesso, quasi a ricordare una calla ma senza avere la sua delicatezza: è panno ruvido, compatto, impenetrabile ma caldo, che avvolge senza stringere. Sì, quello che continuo a tenere tra le dita è proprio un bocciolo di stoffa che racchiude un ovetto di plastica; entrambi non di schiuderanno mai ma continueranno ad aspettare Primavera . Insieme.

Le tazze di Carla

Il nido e le nostre tazze – di Carla Faggi

Il nido e le tazze, quanta nostalgia.

Chissà se gli uccellini faranno ancora il nido sulla nostra finestra.

Chissà se ci saranno ancora quegli acquerelli bruttini esposti che noi volevamo sostituire con le nostre scritture.

Com’erano buoni i cioccolatini sempre presenti, specialmente quelli di cioccolata bianca che Cecilia non faceva mai mancare.

Così come le sue calde tisane e le sue tazze colorate.

Tazze che erano tutte diverse tra loro; c’era quella lunga, quella più grassa, la più elegante e anche quella più normale.

Io sceglievo quella più colorata, mi sembra di ricordare arancio di ceramica.

Quelle tazze ci accompagnavano nei nostri giochi, nelle letture, nei nostri viaggi nel mondo della magia.

Accoglievano il tempo che Cecilia ci regalava, le emozioni che ci voleva solleticare, il ruzzo dei nostri giochi.

Noi ne bevevamo a boccate piene.

Poi…poi tutto cambiò.

Fu trovato il modo per stare ancora insieme, fu trovato il modo per rivedersi ancora. Nuovi posti, nuovi stimoli, nuovi noi.

Abbiamo comunque bevuto sempre a boccate piene…ma non più da quelle tazze.

…mi mancano…

La tazza di Rossellina

La tazza capolavoro – di Rossella Bonechi

foto di Rossella Bonechi

Hai ragione Michela: una tazza in sé e per sé non è un oggetto qualunque e a riprova di questo pensiero anche stamani l’ho tirata fuori dal mobile dove se ne sta con le altre razze spaiate. Ho anch’io tazze tutte uguali con i loro piattini, impilate a tre a tre per prendere meno posto e far bella mostra di decori e forme, ma a me piacciono di più quelle scompagnate, di diverse altezze e colori. C’è quella a cono tronco verde e arancione con le pecore che sembrano un fumetto, quella bianca elegante con l’iniziale “G” in blu destinata a Giuliano e quella un po’ puerile con l’orsetto e il manico rincollato, quella grande a ciotola dipinta a mano d’azzurro con i pois blu insieme a quella bianca di arcopal con un bel disegno blu stile ricamo.

E poi c’è lei, la decana, quella che ha più anni di me, sbrecciata e diventata ormai giallina; è la superstite di un servito da sei della nonna che negli anni è diventato da cinque poi da tre da due e ora non è più un servito! Ci sono ancora quattro piattini però loro non fanno testo, solo da contorno. Quella tazza da sola mi fa casa, mi ricorda quando facevo colazione con i cugini e la nonna ci versava il latte dal bricco e ci metteva in tavola le fettone di pane. La nonna aveva sempre fretta, a ragione, e non si curava di sbattere tazze e piattini per fare più in fretta. Da allora il rumore delle stoviglie che sbattono tra loro è per me una specie di Madeleine del risveglio mattutino.

Me la sono trasportata di casa in casa, come il guscio per la chiocciola, perché averla ancora mi ricorda che sono stata bambina tra bambini, che qualcuno ha avuto cura di noi con amore, che la nostalgia è pericolosa ma la testimonianza del bene e del bello no, mai. Ora, quando facciamo colazione insieme, è la tazza di Daniele.

Dono inatteso di Stefania

Marzo – di Stefania Bonanni

Photo by Ivy Son on Pexels.com

Zitto, piove.

Frizza, l’acqua di marzo, sulla pelle fredda schiaffeggiata dal vento della neve vicina.

Frizza sugli alberi pieni di gemme, combattuti dal trattenersi o dall’,esplodere di fiori. Parte di un mondo cambiato, ormai sconosciuto. Era una grande certezza che dopo l’inverno venisse ia primavera. Certezze non ce ne sono più. Lo sanno le mie rondini, arrivate venerdì con le ali piene di chilometri e di muscoli. Pronte per volare nei nostri cieli, per disegnare le nuvole di note musicali, cerchi magici e parole che non sappiamo leggere. Le abbiamo viste arrivare, e poi più. Speriamo siano nel nido al caldo, che c’è la facciano. O dovremmo impedirne la partenza?

Frizza marzo, con quella zeta dolce ma tagliente, sveglia dal letargo. All’inizio dell’inverno, quando non si sa né come sarà, né quanto durerà, si rimanda a marzo tutto quello che non è urgente. Una specie di mantra: a marzo, a marzo..che significa: se ce la faremo, se lo vorremo ancora fare, se ci sveglieremo, se il principe ci bacerà, se, se, se…… Poi passa l’inverno, e non è cambiato nulla, purtroppo e per fortuna…e ci si affida a quel frizzantino che nonostante tutto entra sotto le gonne, come se il sangue diventasse gassato, gassantino, inutile resistere, inutile mettere sempre e solo pantaloni, inutile tagliare quei rami carichi di gemme, rispunteranno, nasceranno nelle orecchie, e saranno capaci di sentire di più, spunteranno tra i capelli,  saranno fantasie colorate e pensieri d’amore. Saremo di nuovo primavera, a marzo.

Incontro del 2 marzo 2023 alla Carrozza 10: il cestino incantato

con Cecilia Trinci

Foto di Lucia Bettoni, Patrizia Fusi, Rossella Gallori e Cecilia Trinci

Il cestino incantato contiene pezzetti di stoffa e pietre da abbinare. Ognuno ne sceglie una coppia.

Moltissime le suggestioni: il sangue di S. Gennaro, il tavolo verde da gioco con le fiches, le farfalle disegnate dai bambini piccoli, cappelli di gnomi, tortellini, caramelle di menta, un nido per mimetizzarsi al sicuro, fiori che respirano, il ciuccio dei bambini o un diamante entrambi simboli d’amore, due foglie gemelle che si rotolano nell’autunno, un anello con copricapo di ortiche, un amore dei diciotto anni, il mare blu nel verde morbido, il Nilo……..

Siamo in attesa delle pubblicazioni complete….

Un passo nel passato e una scintilla del 2016 che ci fece sognare: rileggiamo insieme la tazza di Michela Murgia:

Già in se e per sé una tazza non è un oggetto qualunque, ma una cosa importante. Costa meno ma fa più cose di un vestito. Ci puoi bere, ti scalda le mani, ti tocca le labbra col bordo, suona se la fai cocciare contro un’altra e se ascolti la sua voce ti dice anche cosa c’è di rotto in lei. Può andare in pezzi, questo è vero, ma non sporcarsi. Le tazze, a differenza dei vestiti, tornano sempre perfettamente linde. E poi una tazza non cambia. Se ingrassi o dimagrisci lei non perde niente, ti nutre sempre, continua a esserci. Un vestito invece non ti segue: ha la sua misura e non la cambia per te. Ha il suo modello, ma poi la moda passa. E se il matrimonio somiglia a quel vestito? E se ci entro  e poi a un certo punto mi accorgo che non ci sto più? Un vestito da sposa….non so se lo voglio davvero quel vestito. Tanto spreco per un solo giorno….

(Da Chirù pag 97 di Michela Murgia)

Il pacco FRAGILE di Rossella B.

La fotografia – di Rossella Bonechi

Ho aperto un pacco anonimo con la scritta “FRAGILE” su ogni lato. Dentro ho trovato un rotolino di carta finissima che quasi si sbriciola con tante scritte fitte fitte che mi rendo conto essere linee-guida per una relazione amorevole:

l’ascolto profondo in silenzio, il tu anziché l’io, rispetto della diversità dei tempi, gentilezza ammazza-rabbia, decantare, spazi coincidenti non collusivi, sincerità di intenti.

Il pacco è arrivato a destinatari diversi ma ognuno scopre che il dono va bene proprio per tutti: per gli innamorati, per gli amici, per i familiari, per i vicini, per qualsiasi relazione.

Vedo che non c’è il mittente, ma dev’essere qualcuno che la sa lunga !

Un pacchetto che si tiene bene in mano, leggero, di umile carta di colore neutro. Ma su tutti i lati spicca la scritta “FRAGILE”. Che cosa ci sarà? Forse qualcosa di piccolo, delicato, trasparente. O qualcosa di materia morbida, da non schiacciare, da non deformare. Sarà invece un meccanismo complicato, con fili e intrecci da non spostare in alcun caso? O una qualche bomba che se scossa o sbattuta esplode in faccia? C’è solo da aprirlo, scartarlo piano sul tavolo e la sorpresa non sarà più tale.

Toh! C’è un cartoncino….no…. è una fotografia! Ma è la MIA fotografia! Che scherzo è questo ?

Sedendomi stupita, forse delusa, piena di domande e priva di risposte, mi rendo conto che è proprio così: in fondo, in mezzo a tante cose fragili, a tanti rapporti fragili, a molta vita fragile, la fragilità che più mi condiziona e mi riguarda è la mia ed è tutta nelle cose immaginate in quel pacco: la trasparenza e quindi l’attaccabilita’, la morbidezza di intenti e quindi il pericolo di essere schiacciati, la complicazione delle sfaccettature e quindi la fuga nella staticità, la molotov di rabbia e paure e quindi lo sforzo continuo per il disinnesco.

Non c’è mittente sul pacco, peccato ! Avrei risposto volentieri che la mia fragilità mi fa sentire più umana, mi ridimensiona, mi serve per cercare di fare piccoli passi prudenti ma costanti e continui.

Così sarebbe arrivato il prossimo pacco, stessa carta stesso anonimato, ma con la scritta “RESISTENTE”, l’altra faccia della mia fotografia.

Il pacco FRAGILE di Gabriella

Fragilità – di Gabriella Crisafulli

Da quando aveva dieci anni era preda di una grande inquietudine che la teneva sotto scacco. Nel passaggio fra l’infanzia e l’adolescenza si era trovata a navigare fra religione, ideali e sogni ma l’ortodossia in vigore nella sua famiglia costituiva un ostacolo alla riflessione. Non poteva più leggere “Il monello” perché era all’indice. Le mancavano molto le avventure di Nadir. I libri arrivavano con il contagocce. Non ci si rivolgeva alle biblioteche.

Si trovava stretta fra regole ferree, paure alte come muri, convinzioni enunciate a mo’ di dogmi. Un po’ si era ribellata ma alla fin fine si era conformata al modello imposto, viaggiando con la mente al di sopra di tutto.

“Mi spezzo ma non mi piego” diceva suo padre: oltre a questo non si andava. Viveva la lotta, non importa quale, come un segno di forza. Era forse sintomo di fragilità?

Serrava le labbra e andava avanti a testa alta.

Per tutto il resto riteneva che fosse meglio chiudersi in sé.

La moglie lo aizzava quel tanto che era sufficiente a portare avanti la campagna del momento: “Ho bisogno di un nemico” sosteneva. Anche questo era forse sintomo di fragilità?

In casa non c’erano dibattiti o discussioni: di volta in volta veniva definito un assioma con tutte le argomentazioni a sostegno della tesi e si andava avanti. Soprattutto niente dubbi.

Erano lotte che facevano da paravento e da difesa alle difficoltà personali e al ruolo di genitori.

Lotte alimentate dalla grande diffidenza nei confronti degli altri che potevano attentare al loro buon nome e all’integrità morale, fisica, economica, sociale del nucleo familiare. Bisognava essere accorti, tenere le distanze, muoversi con circospezione.

Per gli adulti c’erano alcune – poche – deroghe relazionali, non per la figlia che non poteva andare ai giardinetti con l’amica (c’erano i cagnoli]*), né frequentare la parrocchia (troppo bigotti) e tantomeno i circoli (gente del popolino).

In quel periodo dell’età evolutiva, all’interno di questo meccanismo familiare, si radicavano in lei idee sovrapposte, intrecciate, contraddittorie, conflittuali che impedivano la crescita e lo sviluppo di una sicurezza emotiva e della riflessione oggettiva. Non c’era nessuno con cui confidarsi, confrontarsi, né adulto né coetaneo e i pensieri vagavano sull’onda di una emotività esasperata. Si era generata all’interno della cornice stabilita ed era diventata la sua struttura portante. In famiglia non veniva contemplato di prestare attenzione alle sfumature dell’empatia, ai misteri degli affetti, ai meccanismi del dolore, agli attimi di tenerezza, alle tonalità dell’allegria e della tristezza, alle modalità della gioia e della speranza. Non veniva preso in considerazione l’allargamento di relazioni umane che facessero uscire dai confini del nucleo ristretto. Le emozioni venivano incanalate in una regione calcolante e organizzativa il cui scopo era la massima efficienza con il minimo costo. In occasioni particolari, in presenza di un pubblico, le emozioni venivano ritualizzate, spettacolarizzate ma non messe in contatto con sé stessi. Era un sistema funzionale ma distaccato, distante, quasi robotico, che evitava di entrare in contatto in maniera profonda con ciò che avveniva dentro e intorno. Le parole venivano limitate a disposizioni schivando le possibilità di conciliare emozioni e ragione, riflessione e intuizione, uscendo dall’io per incontrare gli altri sul piano più intimo e profondo. Si preferiva giocare sulla denigrazione, sullo scherno, sul ridicolizzare e il giudicare: le scarpe bianche, quelle con il tacco, San Remo, la televisione. A mala pena le veniva concesso di guardare Rin Tin Tin alla Tv dei ragazzi e Carosello alle 20.

Era tutto mascherato, nascosto perché le preoccupazioni e i timori su quello che succedeva in casa erano davvero a livelli molto alti.

Lei non si rendeva conto di cosa si stava verificando: non poteva averne coscienza data l’età ma ne sentiva tutto il portato di ansia e angoscia. Era semplicemente infelice e la solitudine la angustiava da morire.

Aveva provato a ribellarsi ma la sua protesta era indiretta e la metteva in una posizione di colpa. Giorno dopo giorno una rabbia inconsapevole si incistava a sua insaputa dove meno se l’aspettava mentre l’infelicità si trasformava in sofferenza e generava assenza di pensiero.  Avrebbe smarrito la sua interezza. Avrebbe creato il vuoto mentale.

E la vita le avrebbe presentato il conto colpendola in ciò che aveva di più caro.

Solo in vecchiaia sarebbe tornata su quei fatti e ne avrebbe percepito la potenza disgregatrice. Solo in vecchiaia aveva colto l’occasione per entrare in contatto con le sue fragilità, macerie sul campo di una guerra persa.

Non si era accorta con quanta forza nel suo intimo si ribellava ad un regime autoritario provocando dentro di sé rigidità pari alle fragilità che aveva generato.

Non si era accorta di quanti conflitti le si erano radicati dentro.

Faticava a liberarsi da agiti generati in automatico, senza riflessione e ripensamento, che avevano causato a loro volta fragilità in coloro a cui lei voleva più bene.

Così, giorno dopo giorno, si era messa a bonificare un territorio devastato, pezzo a pezzo, strato a strato, con meticolosità e pazienza certosina.

Era una cosa che doveva a sé stessa e ai suoi cari.

Era un dovere morale.

Era un viaggio alla scoperta della gioia.

1 MARZO!

Inizia Marzo tra neve e pioggia….un po’ di passato non guasta

copertina del libretto 2017-18

Poesia di Arpalice Cuman Pertile
O marzo

O marzo, che i petali rosa
dei fiori di pesco colori,
o marzo, che a volte disserri
i primi soavi tepori,
e a volte ventoso e gelato
tormenti le erbette del prato.
O marzo, non fare il cattivo,
non rompere i rami fioriti,
i rami dei peri e dei meli,
che poi daran frutti squisiti.

Che albero sono: Mimma Caravaggi (1 marzo 2016)

Mimma: Sono un Cerro, una quercia particolare. Alta imponente sui 25 metri di altezza che mi permettono di guardare il cielo più da vicino e spaziare lo sguardo nell’infinito tra panorami verdeggianti e collinosi e le montagne coperte di neve molto ravvicinate. Le mie fronde arrivano fino a terra colme di foglie lanceolate e frastagliate come quelle di tutte le querce. Ho come frutti delle ghiande particolari con un cappuccio riccio a formare una piccola parrucca sul mio frutto. Vengo visitata quotidianamente da vari amici come cinghiali pronti ad arraffare tutti i frutti che cadono dai miei rami, copiosi e abbondanti e loro a grufolare felici dell’abbondante pasto. Anche i caprioli vengono spesso a pascolare e mi salutano con il loro suono gutturale piuttosto goffo e brutto ma se li guardi sono bellissimi, eleganti e con degli occhioni timidi e dolcissimi. Ci sono poi gli scoiattoli che percorrono in lungo e in largo le mie fronde facendo risuonare il fruscio delle foglie, quasi una musica eterea. Squittiscono allegri e spensierati cogliendo qualche ghianda che si portano alla bocca con le due zampette e rimanendo in piedi sono uno spettacolo di allegria e buonumore. Non mi devo scordare degli amici uccelli che fra i miei rami costruiscono un nido ben riparato  anche da pioggia battente. Li’ nascono i piccoli che affamati richiamano continuamente i propri genitori affinché non si dimentichino di loro e del loro pasto. Se poi scendiamo tra le mie radici c’è addirittura un altro mondo. Piccoli insetti, vermiciattoli  striscianti il cui compito è di tenere pulite e areate le mie radici, grandi e piccole, ramificate in largo e lungo e che mi permettono di prendere il nutrimento per crescere forte e copioso. Quando poi arriva il vento ! Quel venticello leggero che spolvera le mie foglie e crea col il suo passare una musica dolce e soave a fare quasi da ninnananna ai piccoli uccelli appena nati. A volte arriva anche un vento ghiaccio e forte che mi stringe in una morsa di freddo terribile, ma è molto rara per fortuna. So che starò qui a lungo per ancora decine e decine di anni a venire ma sicura che non sarò mai sola ma sempre attorniata dai miei piccoli, rumorosi, ingombranti, teneri amici.

Marzo 2020 – di Gabriella Crisafulli

Il mio cuore

fatica a carburare

è un po’ verde

inacidito

inaridito

inaudito

acerbo?

Le amiche disperdono

fobie, fantasmi

menzogne, sortilegi

Vorrei un cuore

almeno arancione.

Questi giorni di marzo – di Tina Conti (marzo 2020)

Ci saranno giardini curati e fioriti, alberi rigogliosi e potati a dovere, in campagna  la natura è in piena gioia. Al mattino quando guardo fuori, gli uccelli sono in grande movimento. Si infilano nelle siepi  a portare fili d’erba e scappano di nuovo volando rasoterra. Le capinere arrivano veloci a  becchettare i semi davanti alla porta. Sono mattiniere, per sorprenderle  mi devo appostare dietro il vetro.  Io fuori mi sento come loro, spensierata, allegra, ignara. Ho piantato un nuovo albero, lavorato nell’orto, riordinato le  parcelle che quest’anno son ben disegnate. Nel lavoro di rinnovo della recinzione sono riuscita a far partecipe  mio marito e un suo amico, la struttura di nocciolo che ho comprato si  armonizza con il cancellino in castagno che avevamo  sistemato  tempo addietro. Sono proprio orgogliosa del lavoro, posso raccogliere insalate, cicoria e cavoli piantati in autunno. Visto quanto tempo ho a disposizione ho interrato la patate germogliate aiutata dalla mia nipotina , non lo facevo da tempo ma visto che avevano messo gli occhi come ho detto a Tea  e lo spazio è aumentato  ci ho riprovato. Sembra tutto normale (fuori) ma nella mia mente passano le nuvole, quando ripenso alla situazione attuale. Sento  le notizie alla televisione vedo il lavoro dei medici e degli operatori sanitari. Quanto siamo vulnerabili noi che ci sentiamo immortali, oggi piove, le notizie da fuori portano tristezza e silenzio, ripensiamo alla nostra vita, cuciniamo, leggiamo, ascoltiamo una musica, ci aiutiamo ad avere coraggio.

Giorni di marzo – Gabriella Crisafulli (2017)

Due ragazzi per via

sotto un ombrello

si riparano dalla pioggerella

di un grigio lunedì di marzo

sprizzano gioventù

e luce

intorno

Anni verdi

1 marzo 2018 – di Maura Corazzi

Questa notte ho chiesto all’infermiera di aprire la finestra nel silenzio del reparto e di nascosto sono volata fuori, nel prato ricoperto di bianco sotto un cielo scuro ma dal quale scendevano bellissimi fiocchi bianchi soffici come il cotone ! la Maura ha preso il suo arco si è messa in posizione con i piedi nudi facendo arrivare quella sensazione di nuovo, di  fresco fino alla testa di cambiamento; ho disteso l’arco, scoccato la freccia nel buio tra i fiocchi che scendevano e tenendo gli occhi  chiusi sono rimasta ferma in posizione di tiro per fare mio il rumore  della freccia  che colpisce il paglione  e quando sento il crok apro gli occhi e vedo la freccia nella speranza: era nell’azzurro, poi non so come mi ritrovo a letto con la sensazione vera o no non si sa di avere i piedi umidi !

COMUNQUE TRA BRUCHI E FARFALLE marzo 2018di Rossella Gallori

VOLO, NON SO BENE DOVE POSARMI,

COMUNQUE VOLO, ASPETTAMI, SE VUOI.

NASCO OGGI, VESTITA DI ORGANZA AZZURRA.

COMUNQUE VOLO, INSEGUIMI, SE PUOI.

VEDO, FANTASTICANDO,CON I MIE MILLE OCCHI ILTUO CUORE.

COMUNQUE VOLO, CERCAMI, NON MI NASCONDERÒ.

…..NON AVRÒ PAURA DI MORIRE DOMANI, VOLO, COMUNQUE VOLO……