Cuccia per le chiavi di Anna

L’OGGETTO MISTERIOSO – di Anna Meli

            Ore 16,30 circa. Il vagone è quasi al completo. Voci e colori si intrecciano in modo armonioso, mescolandosi a saluti e spostamento di sedie. Ecco, ora ci siamo e…incomincia l’avventura. Siamo invitate a bendarci con una mascherina di quelle che usavamo nel periodo del Covid, poi ognuno di noi si ritrova fra le mani un pacchetto e…indovina indovinello!

            Il mio è piccolo, morbido fra la gomma e la plastica, ha la forma di mezzaluna; all’interno ci sono senza dubbio molte cose: mi sembra di sentire delle chiavi, un rossetto, una piccola matita, un paio di cioccolatini e anche una capsula nel suo involucro forse per un eventuale mal di testa.   Faccio scorrere le mani sul tutto, scopro la cerniera che riesco ad aprire per un piccolissimo tratto e, infilandoci il dito indice scopro che ho indovinato. Ho toccato per prima cosa le chiavi, il mio eterno problema perché io, le mie, le perdo molto spesso e sono alla loro continua ricerca.

            Mi è anche capitato, non solo una volta, di uscire lasciandole in casa e qui scatta il dramma. Presa dal panico, dopo aver controllato se c’era almeno la speranza di una finestra aperta, con grande imbarazzo ho dovuto procurarmi un biglietto bus “ a chiodo” alla vicina tabaccheria e andare a prenderle da mia figlia che lavora in centro a Firenze. Mi è stato suggerito di fare come le monache: tenerle legate con un laccio in vita! Ho deciso di darne una copia alla vicina che però non c’è quasi mai .Vedrò di fare più attenzione.

            Aperti i pacchetti ognuno ha espresso a voce le proprie impressioni. Ora ci stiamo passando osservandola e carezzandola una palla di vetro che Cecilia ci ha offerto. E’ rotonda, liscia, trasparente e all’interno ci sono delle forme argentate che a me suggeriscono un fondo marino e creature strane fatte di gocce d’argento che vogliono riemergere, venire in superficie in cerca di luce.

La palla di vetro di Rossellina

La palla di vetro – di Rossella Bonechi

È bellissima quella palla di vetro trasparente con la sua base blu oltremare, come se ci avessero fatto cascare dentro una goccia d’inchiostro che poi si è spanta atterrando sul fondo. È statica, pesa sulla mano, inamovibile sulle carte che deve tenere ferme. Eppure nel suo interno ci deve essere stato un momento in cui era tutta un ribollire, magari quando era ancora incandescente vetro colato, magma da modellare, perché quelle bolle che vedo dentro, simmetriche e un po’ inquietanti, le ha create qualcuno che ha reso solida l’aria. Mi guardano come sfingi, con il loro ombelico centrale dal quale sicuramente è sfuggita un’altra piccola bolla rotonda che ognuna ha davanti a sé. Quanto lavoro per arrivare a questo oggetto! Merita che venga posto nel luogo migliore dello studio, dove il sole passa dai vetri della finestra apposta per trafiggerlo e illuminarlo fin dentro. Allora pesantezza e leggerezza giocano tra loro e danno vita a quello che in realtà è solo un pezzo di vetro, così come noi aspettiamo un fascio di luce che ci animi quando i pensieri opprimono come un fermacarte.

Un vecchio ricordo di quando abitavo all’Olmo

di Cecilia Trinci

Se esci di casa la mattina presto, ma parecchio presto, diciamo verso le cinque e mezzo, la prima cosa che senti è il rumore dei tuoi vestiti, una specie di fruscio-giubbotto, un po’ aspro anche se tenue e dopo, solo dopo, senti il rumore dei passi perché gli altri rumori sono gentili, le macchine per fortuna sono ancora ferme. Poi senti cantare gli uccellini, ma degli uccelli la cosa più bella è il rumore delle ali, quel “frun” secco e deciso, senza particolare intensità come un taglio che attraversa l’aria che dà un senso della loro potenza e ti fa provare invidia del loro volare e se li guardi li vedi che sanno anche camminare, anzi, camminano, camminano anche volentieri e finché possono preferiscono. Proprio quando sei troppo vicino e potresti diventare un pericolo schizzano via, un po’ a collo torto all’inizio, ma poi a motore spiegato per posarsi un po’ più là, dove si sentono per un po’ irraggiungibili. Qualcuno sta spiaccicato sull’asfalto, beccato dalle prime macchine mattiniere e già la bellezza ti riporta al senso della morte e delle cose che passano e i colori sono ancora belli. Cos’era? Un pettirosso? Ma se prendi la curva a sinistra e ti allontani dalle case senti che fra tutto quello che prevale  è il profumo della terra. La concretezza, la vita che vuole dare frutti, è l’umidità, è l’acqua che prevale. E’ questo il punto in cui cominci a distinguere i canti dei vari uccelli e il merlo è quello più facile ma anche quello che ha più cose da dire e il fringuello è quello più tecnico e più esigente di se stesso.  Ma quando l’orizzonte si allarga allora ti ricordi quello che ti ha insegnato Irene al corso di disegno che le colline non hanno lo stesso colore e ci sono “valori” di intensità diversi secondo la loro distanza da te e quello che hai imparato lo vedi lì, vero, esistente e forse non avevi mai saputo guardarlo davvero e dici chissà quante volte ho guardato e non ho visto e poi ti ricordi una battuta che ti hanno fatto “tu sei variabile anche quando fai la pizza, non è mai uguale la tua, dipende da quello che pensi, da chi hai incontrato, se sei arrabbiata, se stai sognando… tu non dai certezze neppure in cucina” e la vivi come un complimento. Se ti metti a sedere sul prato senti  prima l’umidità, è sempre l’acqua che prevale, come il liquido amniotico della terra e poi un odore di terra e di erba un po’ mischiato e poi le gobbe di quel prato che non è un tappeto di moquette, ma un prato, con le gobbe e i sassi e le croste del terreno che già si sta spaccando per pochi giorni di sole e la tocchi e senti che sotto sotto è dura ma sopra c’è la peluria gentile di trifoglio. Se sei fortunato e senti all’improvviso uno schianto secco come un ramo che si spezza senza motivo e ti giri piano, quasi senza respirare, allora vedi il capriolo che saltella, leggero, curioso, infantile, improbabile come un cartone animato, ogni volta ti sembra Bambi e lo segui con lo sguardo, ma la sua cosa più bella è quel galoppo leggero come un cenno e dopo aver fatto rumore con quello schianto che lo annuncia, poi se ne va in punta di zampe, galoppando come se corresse sulle nuvole e guardi allora la nebbia che si alza dalla Chiesa della Madonna del Sasso e ci credi che lì accadono i miracoli e non c’è bisogno di avere una fede speciale. (28/3/2003)

Occhi chiusi per Patrizia

Ad occhi chiusi – di Patrizia Fusi

Sono bendata, fra le mie mani ho una palla liscia e fredda, inizio ad esplorarla, la picchietto con le unghie, il rumore che fa mi sembra di plastica dura, potrebbe essere una palla del gioco delle bocce, toccandola bene mi rendo conto che non può esserlo perché ha un piccolo lato piatto, rimane ferma sul tavolo.

L’accarezzo ancora, il freddo dell’oggetto entra nelle mie mani, io trasferisco a lui il mio calore il tutto diventa più omogeneo.

Penso che sia un ferma carte, lo vedo su una scrivania di noce massello con sopra tanti fogli lasciati dalla signora che ci lavora, su un gruppo di essi fa bella mostra di sé la palla, dalla finestra in questo momento entra la luminosità della bella giornata i raggi del sole la trapassano formando i colori dell’iride.

Quando mi sono tolta la benda, l’ho vista è una bella palla di cristallo, con in fondo un pezzo di mare blu intenso sopra ci galleggiano delle sfere una dentro l’altra, brillanti.

L’oggetto che io ho portato è il ricordo di un regalo ricevuto dalla mamma di un ragazzo di Sarajevo che la mia famiglia aveva adottato a distanza con l’aiuto burocratico dell’ARCI, diverse famiglie avevano aderito a questa iniziativa.

Nel programma oltre al sostegno economico era previsto che un anno avrebbero trascorso le festività natalizie presso le famiglie affidatarie.

Andammo a riceverli al porto di Ancona, tanta emozione nel vederlo, timore di non essere abbastanza accogliente, timore per la lingua, ci salvammo con i gesti e quel po’ d’inglese che sapevamo.

Il ragazzo portò in dono alcuni oggetti, tutti belli, ma quello che mi colpi di più era un bossolo in ottone che un artigiano ha riutilizzato come porta fiori incidendoci sopra un disegno e la scritta Sarajevo.

Ogni volta che lo vedo penso all’orrore delle guerre, e di come un bossolo che può aver procurato la morte, sia stato trasformato in un oggetto per contenere una cosa bella come i fiori.

Il proiettile nelle parole di Daniele

Un bossolo di ottone – di Daniele Violi

Un bossolo di metallo alto 15 cm, largo 12 mm, sicuramente, da cui il calibro, si legge inciso 122. Un bossolo servito come proiettile per una mitragliatrice, credo. Non amo le armi, mai amato oggetti per il divertimento e che sono gioco per colui e colei (ahimè) per cui raggiungere la potenza di sentirsi ed essere forti ed eterni di fronte alla storia, di chi vuole partecipare a sentire dentro, le proprie sensazioni che si aprono con una verità, quella che cerca nella propria vita e che per Taluni e Talune è rappresentata con la metrica imparata a memoria, impugnare un’arma per la difesa dei deboli. Un semplice oggetto metallico di bronzo, ottone o similari contenente materiale chimico e infiammabile che serve non per un fuoco d’artificio, ma per procurare paura terrore se non la morte. Sono stato nel 1992 e nel 1993 in Bosnia per portare aiuti umanitari con cibo e medicinali. Sono arrivato vicino zone di guerra. Ho visto tante testimonianze di materiale militare abbandonato. Ho visto anche tante famiglie che senza casa con grosse difficoltà si dibattevano tra un rifugio per loro e per le loro bambine/i che caratterizzavano ogni giorno le nostre ore di quei viaggi. Ho raccolto tanto materiale didattico che ho donato a loro, a questa generazione in erba, ho ricevuto poi tante cartoline e lettere a casa mia. Guarda caso, che cosa crea una guerra. Una pioggia di proiettili sono anticipatori di una pioggia di solidarietà.

Nel buio, il seno materno di Carmela

Seno di donna – di Carmela De Pilla

Amato, desiderato, accarezzato, sognato, violentato, sfruttato o disprezzato eppure ovunque sia genera amore, dona vita, sostegno e un ricovero sicuro dove riporre le  proprie paure certi che quell’amore darà vita a sogni belli.

Sarà forse solo il piacere di un momento o solo illusione, ma senza sapere come quella morbida tenerezza lascerà dentro di te la propria impronta e scolpirà un nuovo amore e un altro ancora finché vita ci sarà sulla terra.

Quante storie ha raccontato, sofferte o spensierate, ognuna diversa, ma unite da un filo di seta prezioso e forte come l’amore che lo invoca.

Questo il seno di mia madre e di tutte le donne che siano state mamme o no, non importa, certo è che in esso è racchiuso l’amore eterno.

La verità nascosta di Rossellina

L’orologio – di Rossella Bonechi

Essere privati di un senso, che effetto fa? Avere gli occhi bendati per gioco offre una leggerezza a cui la fantasia aderisce volentieri, senza paure, senza ansie, in libertà, tanto poi si sa che finisce. A questo punto verrebbe da pensare a voli pindarici, immagini di oggetti mirabolanti, cose aliene e sorprendenti. Ma quando le dita toccano, il cervello immediatamente compone un’immagine che riporta al reale: un cinturino elastico di metallo che àncora un qualcosa di rotondo con vetro e pernio non può essere lo strumento che un giocoliere usa per ipnotizzarti e portarti in un mondo magico né la fionda moderna di un inventore geniale che con quella ti lancia nell’iperspazio.

È un orologio, non può essere che un orologio; e allora la fantasia prende una strada diversa, quella che immagina la vita che c’è dietro e che non è la tua.

Una donna pratica che non può scordare degli appuntamenti, una mamma che lo consulta con la coda dell’occhio per paura di far tardi per prendere i bambini a scuola, o una giovane donna che la sera, stanca, lo toglie e lo appoggia sul comodino sapendo che è l’ultimo gesto, finalmente, della giornata.

È stato acquistato e quindi scelto tra tanti? Perché allora quello, con quale motivazione? Oppure è un regalo, sì ma da chi a chi ? E in che occasione? Immaginazione è anche questo: andare a scavare come un archeologo, far nascere tante domande che non avranno mai la risposta giusta. Non sono solo gli occhi ad essere stati bendati ma anche la verità, che rimane nascosta come la piccola farfalla di carta che non ho sentito.